Le conseguenze economiche del debito

Mentre ci dimeniamo come ossessi, cercando di sfuggire alla trappola del debito nella quale ci siamo infilati, dovremmo trovare il tempo di fermarci e pensare. O meglio: ripensare. Trovare un modo diverso di concepire il nostro rapporto con l’economia sostanziale che restituisca senso a valori economici ormai dissennati.

Accade, purtroppo, il contrario. La logica dell’emergenza, alimentata da dati economici per nulla rassicuranti, spinge i governi e i regolatori ad alzare l’asticella dello scontro, malgrado tutti dicano che non si dovrebbe scommettere contro i mercati.

Un esempio, giusto per chiarire: il Giappone poche settimane fa ha rilanciato la sua pericolosa sfida, annunciando ulteriori aumenti di base monetaria, per ritrovarsi poi di nuovo in recessione, visto che il Pil per il secondo trimestre consecutivo è tornato negativo. Le grandi speranze suscitare dal premier nipponico e dai suoi banchieri centrali, rischiano così di trasformarsi in evidenti delusioni. E ciò al prezzo, giova sottolinearlo, di ulteriori indebitamento, di cui certo il Giappone non abbisognava.

Sicché dobbiamo esser grati a chi si fermi un attimo e cerchi di farci pensare fuori dalla contingenza di uno spread montante o un’inflazione declinante. A chi, in sostanza, ci fa riflettere sul vero tema del nostro tempo tormentato. Ossia le conseguenza economiche del debito.

Perché sia chiaro come mai il debito abbia conseguenze economiche, mi giovo di un intervento che ho letto di recente, trovandolo particolarmente efficace come veicolo di chiarimento. Mi riferisco allo speech di Jaime Caruana, direttore generale della Bis, intitolato “Debt comes in Threes”, presentato all’edizione 2014 dell’International Finance Forum di Pechino.

Il dato di partenza è che il debito globale, di famiglie, imprese non finanziarie e stati, è cresciuto dal 2007 al 2014 dal 210% al 235% del Pil, il 25% del pil mondiale di debito in più in sette anni. E ciò dovrebbe far comprendere come coloro che ancora parlano di deleveraging siano degli ottimisti, o degli illusi ingenui.

Questo dato dovrebbe anche farci comprendere che la spiegazione secondo la quale la crisi sarebbe stata determinata dall’avidità di pochi banchieri, dalla superficialità di tanti debitori e dalla evidente distrazione dei regolatori è altrettanto ingenua. Perché se fosse bastato placare l’appetito dei banchieri, fermare i debitori impenitenti e riformare la regolazione, come pure si è tentato di fare in questi sette anni disgraziati, il debito sarebbe diminuito. E invece è aumentato.

Quindi delle due l’una: o la spiegazione è sbagliata, per non dire incompleta, o ci continuiamo a raccontare qualunque favola pur di sfuggire la realtà.

E la realtà, almeno secondo Caruana, è che finanza ed economia sono ancora malamente integrate, che l’importanza del debito è sottovalutata, che ci sono troppi incentivi a prender rischi, che certo non favoriscono la stabilità, e che, last but not the least, il non sistema monetario post Bretton Woods sembra incapace di garantire un’espansione della finanza coerente con quella dell’economia. Si va di bolla in bolla, come farfalle allegre. Salvo poi scaricarne il costo su qualcuno.

Ma se questo è il quadro, è ancora più necessario chiedersi come faremo a disfarci di questa montagna di debiti che abbiamo cumulato assecondando, con la creazione di capitale fittizio, la nostra volontà di potenza. Ma soprattutto dobbiamo capire bene con cosa abbiamo a che fare.

Caruana calcola che nelle economia avanzate il debito/pil è aumentato dal 40% dal 2007 in poi, arrivando al 110%, mentre quello del settore privato è diminuito del 10%. La qualcosa mostra bene chi abbia pagato il conto e quanto costi la socializzazione delle perdite private in termini anche di moltiplicatore.

Nei paesi emergenti le cose sono andate al contrario: il debito del settore privato è cresciuto del 40% arrivando al 120% del Pil, mentre quello del governo solo marginalmente. E tuttavia il debito totale delle economie emergenti è ancora molto più basso rispetto a quello raggiunto dai paesi avanzati. Che infatti si chiamano avanzati non a caso.

Per logica dovremmo dedurne che la prossima bufera colpirà gli emergenti, visto che hanno spazi fiscali più ampi e possono indebitarsi ancora.

In ogni caso rimane il fatto che “in aggregato il deleveraging non c’è stato”, osserva Caruana. L’esempio di Spagna, Gran Bretagna e Stati Uniti è calzante: hanno fatto i salti mortali per diminuire il debito delle famiglie, e ci sono riusciti solo al costo di un notevole incremento del debito pubblico, che poi da queste stesse famiglie in qualche modo dovrà essere sopportato.

“Il risultato è stata una dinamica avversa del debito, malgrado i tassi bassi a livello record, con quello del governo non ancora tornato su un percorso di stabilità”.

E questo provoca conseguenze.

Le conseguenze tecniche di un debito esorbitante, chiamiamole così, ormai le abbiamo chiare e non sto a ripeterle. L’eccesso di debito provoca instabilità finanziaria (boom&burst), distorce la corretta allocazione delle risorse e finisce col mascherare il reale stato di salute dell’economia. Una pensa che tutto vada bene, ma solo finché va tutto bene. E il caso spagnolo, da questo punto di vista, è esemplare.

Ma la conseguenza sostanziale è un’altra. “E’ essenziale abbandonare la modello di crescita basata sul debito – sottolinea Caruana – di questi ultimi decenni perché l’economia trovi l’autentica via d’uscita dalla crisi”.

Aldilà delle chiacchiere erudite degli economisti, questa è la vera conseguenza della montagna di debito che abbiamo sulle spalle: non ce la possiamo più permettere.

Ciò implica, di fatto, smontare un sistema socio-economico che per lunghissimo tempo – decenni appunto – su questa logica debt-based è stato costruito.

Per dirla con le parole di Caruana, “questo richiederà un riequilibrio delle politiche economiche capace di supportare una maggiore flessibilità e produttività nell’economia reale. In altre parole occorre un programma generale di riforme, ma che siano anche speficiche per il singoli paesi”.

Eccole qui le conseguenze economiche del debito: le riforme. Un modo elegante per dire che dobbiamo cambiare noi stessi.

Un Commento

  1. poggiopoggiolini

    Ringraziando, come sempre, per proposte di documenti e considerazioni economiche che hanno un impatto determinante sulle società civili, tanto da ricordare come in premessa “Il debito è affare troppo serio perché se ne occupino (solo, mi permetto di giuntare) gli economisti.
    Significativo il recentissimo speech di J Caruana, d.g. del BIS ,“Debt comes in Threes” (nov 2014) e il messaggio conclusivo da ri-lanciare al main-stream.
    Verrebbe da specificare che IL CAMBIAMENTO E’ DA RISERVARE SOLO AD UNA PARTE DELLA SOCIETA’ CIVILE che, come diceva Padoa Schioppa, DEVE CONFRONMTARSI CON LE DUREZZE E ASPERITA’ DELLA VITA .. a meno che non si appartenga ad una altra “parte”
    Temi sui quali consiglio vivamente l’analisi econo0mica del diritto sviluppata su http://orizzonte48.blogspot.it/

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    • Maurizio Sgroi

      salve,
      la mia benevola presa in giro degli economisti nasce dal fatto che la loro triste pseudoscienza è la prima complice e responsabile del dissesto morale, prima ancora che materiale, nel quale le nostre tristi società si barcamenano. ridurre ogni cosa a valore economico, e creare logici esiti sotto forma di paradisi artificiali dove si vive di matematiche astruse, è la colpa più grave di questa genìa di propagandisti che ancora oggi, e anzi più che sempre, ci affliggono con i loro calcoli di convenienza che travestono evidenti prese di posizione politica, immancabilmente a favore delle élites, anche quando sembra il contrario.
      a differenza di molti che vogliono uscire dall’euro, io propongono una soluzione un filo più radicale: usciamo dall’econom(an)ia.
      grazie per il commento e per la segnalazione

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  2. vincesko

    Segnalo questo interessante articolo per la sua complementarità:

    “Perché la teoria della finanza degli economisti ortodossi è inutile”
    ISMAEL HOSSEIN-ZADEH
    ED. IT. DI MARIA CARANNANTE 21 novembre 2014
    […] La figura seguente mostra chiaramente questa tendenza inquietante: mentre il credito al settore FIRE è quadruplicato a partire dal 1950, la quota di risorse destinata all’economia reale è rimasta pressoché invariata. […]
    Come candidamente dichiarato da Raymond Dalio di Bridgewater Associates: «la ricchezza che si crea con la produzione è un’inezia rispetto a quanto si può ottenere facendo girare denaro. Il quarantaquattro percento dei profitti delle imprese degli Stati Uniti proviene dal settore finanziario contro l’appena dieci percento del settore manifatturiero» [5]. […]
    Gli economisti neoclassici non hanno, finora, saputo far riconciliare il settore finanziario con la teoria dell’“equilibrio economico generale” e il modello del “flusso circolare”. Tristemente, invece di cercare di incorporare il settore finanziario nel loro modello sull’economia reale, hanno scelto di ignorarlo per non disturbare il loro perfettamente ordinato modello di comodo.

    Fai clic per accedere a Perche%20la%20teoria%20della%20finanza%20degli%20economisti%20ortodossi%20e%20inutile.pdf

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    • Maurizio Sgroi

      salve,
      la mia sensazione è che gli economisti classici se ne infischino della finanza perché già dai tempi dei progenitori consideravano la moneta come merce, e di conseguenza totalmente neutra nei loro algido equilibrio generale che alle merci appunto si riferiva.
      una visione della moneta che contrasta con la pratica di tutti i giorni e con gli scritti di alcuni illustri praticoni, come il giornalista inglese bagehot che col suo Lombard street spiegò bene già nel XIX secolo, devastato dalla terribile crisi del 1866 scoppiata in Inghilterra, in che modo la gestione della moneta, che non è merce ma segno fiduciario, impatta sull’economia reale. gli economisti neoclassici (ma i cos’ddetti neokeneysiani non sono poi così diversi) ormai vivono di matematica e astrazioni, che nulla hanno a che fare con la realtà, così come anche la teoria accademica della finanza, che si è sviluppata come branca del tutto indipendente, vive anch’essa lontana dal circuito della macroeconomia. in questo non dialogo fra sordi si rivela il vero vulnus dell’accademia, ossia l’esser utile innanzitutto a se stessa.
      grazie per il commento e per la segnalazione

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