L’India diventa ultima grande speranza dell’Occidente

La frana dei Brics, stremati dalla fragilità del loro successo, ha lasciato sul campo una pletora di illusioni perdute per l’Occidente che con troppa facilità, all’inizio del secolo, aveva contato sulla forza di queste economie.

Si pensava, e in qualche modo si pensa tuttora, che la fame di queste immense popolazioni avrebbe compensato la nostra sazietà, e che i loro sistemi produttivi, assai più economici dei nostri, avrebbero condotto al miracolo di costi di produzioni decrescenti a fronte di una domanda globale resa gagliarda dall’aumento dei loro redditi.

Tale utopia è stata nutrita, prima della crisi, da poderosi investimenti diretti esteri in queste località che, dopo la crisi, sono diventati investimenti di portafoglio e credito bancario, guidati da una cieca fame di rendimento, che ha finito con trasformare questi paesi in depositi di debiti.

Ora che i timori sulla fragilità di una ripresa che si mostra periclitante si sono risvegliati, quelli che furono i Bric sono divenuti da un’opportunità un problema. Salvo uno di questi, secondo quanto ci racconta la Bce nel suo ultimo bollettino economico.

Un riquadro, intitolato “La crescita del ruolo dell’economia indiana”, ci rappresenta come L’India abbia “gradualmente accresciuto il suo ruolo nell’economia globale durante il decennio trascorso”. Tanto è vero che il subcontinente, nel 2014, “si collocava già al terzo posto per dimensioni in termini di parità di potere di acquisto (PPA) a livello mondiale, dopo la Cina e gli Stati Uniti”. E questo, “in un contesto in cui molti osservatori si attendono il protrarsi di una espansione sostenuta, il contributo dell’economia indiana alla crescita mondiale – e quindi la sua importanza per le prospettive dell’area dell’euro – potrebbe aumentare ulteriormente”.

La favola di Bric, insomma, continua ad essere raccontata, fondandosi, tale narrazione, su alcuni dati che sembrano supportarla.

La prima evidenza, che in realtà è una supposizione, è che l’India supererà la Cina per il ritmo di crescita della sua economia già da quest’anno. La nuova Cina, forte di un contesto demografico favorevole e di condizioni macroeconomiche e di policy migliorate, si candida a raggiungere l’8% di crescita del Pil, lasciandosi alle spalle una ormai estenuata Cina (vedi grafico).

A ciò si aggiunga che l’India, già nel 2014, aveva raggiunto un peso considerevole sul Pil mondiale (guarda grafico), a fronte di un peso relativo sulla crescita mondiale secondo solo alla Cina (guarda grafico).

Per contro l’India rappresentava ancora nel 2013 un mercato di esportazione che pesava appena il 2% dell’export europeo a fronte di importazioni che valevano appena il 2,5% dell’import globale. Mentre sul lato degli investimenti diretti esteri, l’India ne attirava, ancora alla fine del 2013, appena l’1% dello stock globale. Considerate inoltre che per far girare la sua economia l’India consumava appena il 5% del totale del consumo energetico globale, a fronte di un 20% registrato dalla Cina.

Insomma, per quanto ancora infante, per il suo peso specifico e la sua capacità di produzione, l’India si candida a diventare la nuova Grande Speranza dell’Occidente, che evidentemente ha sempre bisogno di un mercato di sbocco affollato abbastanza da restituire la speranza ai suoi esportatori e ai suoi delocalizzatori.

Non a caso la Bce nota che già da quest’anno si prevede che la crescita del Pil indiano surclasserà quello cinese, ormai asfittico, per gli standard di quel paese, peraltro gravato da debiti che si candidano a diventare insostenibili.

Al contrario, l’India ha avviato un percorso di risanamento fiscale, con il deficit/pil al 4,1%, con l’inflazione “significativamente diminuita”, nota la Bce, che “dovrebbe rimanere inferiore al 6%” con la banca centrale indiana che ha ridotto i tassi due volte, portandoli al 7,5%, e il deficit del conto corrente, “aiutato” dal calo dei corsi petroliferi, che si è portato dal -4,8% del 2012 al -1,4% del 2014.

Né mancano le riforme, pietanza sempre gradita dagli osservatori internazionali, che hanno riguardato gli investimenti in infrastrutture pubbliche, e soprattutto le prospettive demografiche: “Nel 2030 – scrive la Bce – l’India supererà la Cina, diventando il paese più popoloso e con la più grande forza lavoro del mondo. Per allora la popolazione in età lavorativa dell’India sarà composta da oltre un miliardo di individui, una cifra superiore a quella riferita all’insieme di area dell’euro, Stati Uniti e Indonesia”.

Inoltre, sottolinea ancora, “a differenza della Cina, l’India ha una popolazione in età da lavoro (in percentuale del numero totale di abitanti) che si prevede continui ad aumentare. Di conseguenza, il contributo della manodopera alla crescita potenziale del paese dovrebbe salire gradualmente nel prossimo decennio”.

Guardo preoccupato a questo miliardo di persone in cerca di lavoro e mi domando cosa sarà di noi occidentali, di fronte a questa competizione evidentemente ineguale.

Se, come dice la Bce, “è probabile che l’India assuma una posizione di maggior rilievo nell’economia mondiale”, ciò vorrà dire che qualcun altro dovrà cedere il passo.

Le proiezioni del Fmi, a tal proposito indicano che “nel 2018 il contributo dell’economia indiana a quella globale dovrebbe essere addirittura maggiore rispetto all’insieme dei paesi del G7, pur collocandosi ancora al secondo posto dopo quello della Cina”.

E allora, se è così, non è difficile capire chi saranno gli sconfitti.

 

 

 

 

Un Commento

  1. Abate di Theleme

    Interessante, come d’abitudine, questo post di Sgroi.
    Che si occupa del subcontinente indiano.
    Sono persuaso anche io, per una serie di ragioni strettamente intrecciate fra loro, che sia in effetti l’India una delle vere speranze del mondo, se non l’unica.
    Oltre ad essere indiscutibilmente “madre patria ancestrale” di tutti gli occidentali, non fosse altro che linguisticamente (ma la semiologia del XX secolo non ha fatto altro che dimostrare come facoltà intellettive, simboli e linguaggio si condizionino reciprocamente) e filosoficamente (è quasi noia rammentare Eraclito, Pitagora e Platone), essa è pure la più grande “democrazia” del pianeta.
    Le virgolette sono d’obbligo, ma temo dovremmo usarle anche quando parliamo del nostro paese, singolarmente affine… ma sarebbe lungo qui dire esattamente perché.

    Nonostante in India convivano pratiche risalenti all’età della pietra (quasi) con la missilistica futuribile e i “paria dei paria” con i più grandi scacchisti, o forse proprio a causa delle dinamiche innescate da un miscuglio così drammatico eppur fertile, i numeri del post a seguire ne confermano le prospettive dal punto di vista economico, più che positive.
    Per qualunque occidentale abbia visitato sia India che Cina, infine – nonostante la prospettiva sia certamente parzialmente viziata in origine dalla somiglianza, nel primo, caso, e dalla diversità nel secondo (quei famosi “muri di idee” di cui parlava il grande Fosco Maraini in “Paropapomiso”, costruiti dalla geografia che diviene genetica che diviene cultura, o viceversa) – appare evidente come la crescita cinese si fondi su di uno sviluppo “pilotato” dall’alto, all’apparenza più ordinato e continuo di quello indiano, ma in realtà ben poco diffuso e sentito, se non nelle sue conquiste materiali, studiatamente riservate a pochi, quali tipicamente la conoscenza stessa della lingua scritta.

    Non ultima la notazione di carattere geopolitico per cui Delhi, dopo decenni di ostilità più o meno aperta, è finita per allearsi con Washington, in modo affidabile. Specialmente dopo l’indebolimento di Mosca, l’abbandono americano del Pakistan e la pressione del vicino cinese, assai aumentata. Lo spostamento di questa importantissima “torre”, per restare negli scacchi, – sul punto di acquistare top tecnologia aerea (Rafale) dai francesi -ha avuto conseguenze rilevantissime. Sempre da rammentare è il suo far parte del Commonwealth degli odiati/amati ex padroni inglesi.

    Buona lettura.

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    • Maurizio Sgroi

      salve,
      non so quanto convenga a noi occidentali continuare a nutrire la speranza che qualche altra area geografica dia fiato alle nostre spompate trombe. ma come si dice in questi casi, è giusto aspettare e vedere 🙂
      grazie per il commento

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      • Abate di Theleme

        Non è questione di convenienza, ma di appartenenza e demografia. I francoangloamericani ne sono già persuasi, noi purtroppo siamo sul carro perdente, come sempre. Speriamo di scendere prima della guerra, in questo caso.
        Figurati, scegli sempre ottimamente gli argomenti.

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  2. _beneathsurface

    Ummm…d’accordo che i numeri, demograficamente parlando, sono a vantaggio di un invcremento della economica forza lavoro imdiana rispetto a quella anemica e costosa occidentale, ma di quale livello stiamo parlando?
    Mero assemblaggio e pure di basso valore aggiunto e in un contesto di diritti del lavoro assolutamente precario?
    Il sistema delle caste e il bisogno di ampie fette della popolazione di basarsi sui trasferimenti statali x sopravvivere sarà sempre una pesante zavorra x la società e mi pare che siano dinamiche sociali che lo studio ecb non tiene in considerazione, come giustamente vuole fare una Istituzione che non intende assumere posizioni politiche (mah….).

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      • _beneathsurface

        Oh, sì: certamente nei sogni illusori dei nostri “statisti”, i quali dimenticano che la Cina si sta muovendo con una iniziativa a predominante trazione pechinese (la banca per gli investimenti asiatica – AIIB), che x me sarà solo l’anticamera di un trattato di libero scambio asiatico che ci lascerà fuori dai giochi.
        D’altronde poco lascia pensare che il modello di sviluppo cinese voglia basarsi sulla crescita della propria domanda interna, o almeno che lo vogliano/possano fare nel medio periodo. Pertanto hanno bisogno anche loro di nuovi mercati di sbocco x i loro investimenti, l’espansione della loro influenza geopolitica ed economica quale “fondo di investimento” e infine quale mercato di sbocco per le proprie merci.

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