La Nazione globale. La scoperta della manovra del tasso d’interesse

“Il controllo sui tassi di sconto, esercitato dalla Federal Reserve Bank e dal Federal Reserve Board, è un potere importante e di vasta portata che deve essere sempre utilizzato con cautela e discrezione”. Leggo questa massima esemplare pubblicata nel rapporto annuale della Fed del 1921.

I banchieri centrali non scrivono più così. Purtroppo.

Cent’anni fa

Un secolo fa, nel 1920, i tassi di sconto della Fed, nel bel mezzo di una crisi, furono portati al 7 per cento. Una mossa che oggi nessun banchiere centrale farebbe mai. Cosa è cambiato da allora?

“E’ assodato che il tasso di sconto di una banca centrale debba essere leggermente al di sopra dei tassi di mercato”, scrivevano i banchieri di allora. “Questo è una policy consacrata, ad esempio, dalla Banca d’Inghilterra”. 

E’ cambiato che all’epoca le banche centrali seguivano il mercato. Oggi accade assai più spesso il contrario. Il mercato segue loro.

I manipolatori

Ovvio che la manipolazione dell’economia per fini politici esistesse anche prima che nascesse la Fed: il riferimento alla Banca d’Inghilterra non era casuale. Ma oggi rispetto a ieri abbiamo una diversa percezione e soprattutto convinzione delle nostre capacità manipolatorie. 

Un secolo fa le banche centrali iniziavano ad affinare la loro cassetta degli attrezzi, della quale la manovra dei tassi era lo strumento principale, anche se non certo l’unico – le operazioni su titoli erano già una consuetudine – ma soprattutto avevano finalità molto contenute. 

Nel ventennio fra le due guerre, e soprattutto dopo la seconda guerra globale le priorità cambiarono. E anche le finalità. Fra queste emerse quella di contenere i disastri sociali delle crisi economiche. Non a caso fra i target della Fed fu aggiunto, oltre al controllo dell’inflazione, quello dell’occupazione. 

Negli anni Quaranta, visti i disastri provocati dai totalitarismi sorti dalle macerie di molte economie, questo divenne un imperativo categorico. Peraltro, bisognava anche confrontarsi con l’internazionalismo comunista che trovava nell’Unione sovietica un attore persino troppo convincente per molte società occidentali, a cominciare dalla nostra.

Questo cambiamento di paradigma, che sfocerà nell’istanza della piena occupazione, proclamata a gran voce da tutti i paesi occidentali nel secondo dopoguerra, è la conseguenza naturale dell’evoluzione del processo democratico, che obbliga in maniera crescente i governi a tenere conto delle opinioni pubbliche. In tal senso è una conseguenza della globalizzazione. Ma della globalizzazione della democrazia.

Il cambio di paradigma può essere apprezzato meglio se risaliamo ancora all’indietro la curva dei tassi di interesse e dei rendimenti, spostando stavolta il punto di osservazione dagli Usa – il secolo americano inizia nel primo dopoguerra e si sviluppa nel secondo – all’Europa, ossia la regione da dove si origina la globalizzazione che culminerà nel lunghissimo XX secolo. 

Chi fa il tasso?

Mettiamo un attimo in pausa il nastro che stiamo scorrendo al contrario. Ormai a buon punto nel nostro cammino, è arrivato il momento di farci la domanda più importante: chi decide il livello del tasso di interesse?

Domanda sommamente ingannevole. Per la semplice ragione che esistono – potenzialmente – tanti tassi di interessi quanti sono i prestiti. 

Chi si avventurasse nella storia remota incontrerebbe difficoltà sempre maggiori anche solo a identificare un solo tasso di interesse univoco per un paese in un certo periodo. Nell’epoca moderna, la “standardizzazione” dei tassi, almeno di quelli a lungo termine, è stata favorita dalle emissioni di debito pubblico. Prima ancora, e per millenni, sono state promulgate leggi contro l’usura o fissati tassi massimi, che però non hanno impedito a debitori e creditori di contrattare in modi più o meno sofisticati per aggirare questi limiti. 

Ciò per dire che la formazione dei tassi di interesse è sempre risultata dall’interazione fra poteri pubblici e decisioni private. Fra stato e mercato. Ma queste due entità non sono sempre state ben definite nei loro ambiti e nelle loro capacità di intervento. L’evoluzione istituzionale ha mutato anche la capacità degli stati e dei mercati di far valere il proprio peso. E quindi di fissare il livello dei tassi. 

In ogni epoca troviamo un diverso peso specifico dello stato e del mercato nella fissazione dei tassi di interesse. Esaminare la storia ci aiuta a capirlo. E a chiederci a che punto siamo oggi.

Il tasso inglese

Guardiamo alla Gran Bretagna, impero incontrastato per tutta la prima metà dell’Ottocento e ancora egemone pure nella seconda, malgrado l’emersione della potenza tedesca e la costante rivalità con i francesi, con la Russia ora amica ora nemica. Il grafico sotto riepiloga il rendimento (yield) dei Consol britannici, ossia obbligazioni perpetue emesse dal governo.

Questo grafico si apprezza meglio confrontandolo con quello dei tassi nominali della Banca d’Inghilterra – la Fed del XIX secolo potremmo dire – a partire dal 1694, quando la banca fu fondata. 

Notate la linea piatta che dura più di 100 anni, una vera stagnazione secolare, fra il 1720 e il 1820. Per tutto questo tempo il tasso rimase fisso al 5% persino durante le guerre napoleoniche. 

Nello stesso arco di tempo lo yield del Consol, ossia il rendimento, oscillava seguendo il ciclo economico e l’andamento dei prezzi dei titoli. Dopo il 1825 la curva dei tassi della Banca inizia ad avere un andamento nervoso, quasi erratico con picchi sempre più pronunciati quanto più ci si avvicina alla fine del secolo. Perché?

Chi fa il tasso/2

La ragione è innanzitutto politica, se il tasso della Banca d’Inghilterra rimase fermo per oltre un secolo. Era in vigore la legge sull’usura, che li fissava al massimo al 5%. Per cui fu tutt’uno per la Banca adeguare il proprio tasso di sconto a quel livello. Ciò per dire che all’epoca le decisioni politiche avevano già una grande influenza sui tassi di interesse, ma nel senso che fissavano limiti legali, o fornivano benchmark: tipicamente un prestito pubblico. Ma l’azione dei poteri pubblici si fermava lì.

Questo cambiò a partire dal 1833.

Anni difficili

Sappiamo, inoltre, che gli anni in cui il tasso della Banca d’Inghilterra iniziò ad agitarsi furono quelli in cui la rivoluzione industriale cominciò ad accelerare. Gli anni delle ferrovie, del “trionfo della borghesia”, per dirla con le parole di Hobsbawm, dell’inizio di una crescita economica che provoca anche le prime crisi internazionali come la crisi britannica del 1825, quella statunitense del 1837, quella nel Regno unito del 1847 e quella assai più traumatica – perché colpì duro anche il fiorente settore ferroviario – iniziata nel 1856 e culminata nella crisi Usa dell’agosto 1857

E’ nel maturare e nello svolgersi di queste crisi che si consolida la prassi di manovrare il tasso di interesse. Nel 1856, ad esempio, furono innalzati oltre il 10%. Era l’anno che, nelle fosche previsioni di Marx a Engels in un lettera dell’anno prima doveva suonare la tromba del giudizio per il capitalismo e gli odiati borghesi. 

Chi fa il tasso/3

La crisi del 1857 è un ottimo punto di osservazione ai fini della nostra storia. E questo per una semplice ragione: nel Regno Unito era già attiva e ben navigata la Banca d’Inghilterra, che stava imparando la manovra dei tassi di interesse per fini di politica monetaria, come diremmo oggi. 

Negli Usa non c’era nessuna banca centrale. Malgrado alcuni tentativi abortiti nella prima metà del XIX secolo, gli Stati Uniti non riuscirono a portare al livello federale la politica del credito fino alla nascita della Fed, nel 1913. Ciò fa della crisi del 1857 un ottimo laboratorio per vedere come la presenza (o l’assenza) di una banca centrale impatti sul livello dei tassi di interesse.

La crisi aveva iniziato a spaventare le borse dell’Europa centrale già nell’autunno del 1856. All’inizio del ‘57 ci fu un lieve recupero. I tassi di sconto, saliti al 7% a Londra e addirittura dell’11% a New York, iniziarono a scendere, ma questo non bastò a fermare la tendenza ribassista. Le borse europee tornarono a cadere di nuovo nell’aprile del 1857, forse anche perché la Banca d’inghilterra aveva aumentato al 6,5% il tasso di sconto. Ma l’elemento che trasformò la crisi in panico fu il ribasso delle merci, e in particolare dei beni di prima necessità che condusse al crollo del prezzo dei cereali americani nell’agosto del ‘57. 

Fu allora che si comprese la complessità raggiunta dall’organismo economico internazionale. Il crollo dei prezzi tolse potere d’acquisto ai farmer americani e quindi domanda alle esportazioni europee. Le conseguenze si possono tranquillamente immaginare da soli.

Il 24 agosto fallì la americana “Ohio Life Insurance and Trust Company”, evento cataclismatico, in quanto banca di depositi e di sconto che godeva di capitali e di fiducia. Scoppiò il panico. E si manifestò innanzitutto sui tassi di interesse. Lo stesso giorno del fallimento arrivarono al 15%, alla fine del mese al 24%. I tassi erano pura espressione della domanda e dell’offerta dei mercati. E poiché tutti volevano liquidare ogni cosa, il denaro divenne carissimo. Si cumularono i fallimenti. I soldi contanti si quotavano il 10-12% sopra la pari. Crollarono tutti i titoli. “I tassi salirono ad altezze vertiginose”, recita una corrispondenza dell’epoca. Le settimane successiva furono anche peggio. Dal 25 al 29 settembre 150 banche Usa sospesero i pagamenti. Il tasso di sconto nei giorni arrivò al 60-100%. Il mercato era come un cavallo pazzo di paura. A ottobre le banche che avevano sospeso i pagamenti erano oltre 1.400.

Se ci spostiamo sull’altro lato dell’Atlantico, possiamo osservare alcune differenze. Non tanto nell’intensità del panico – il 9 novembre sospese i pagamenti la “Western Bank of Scotland”, la maggiore banca scozzese – né nelle modalità: vendite frenetiche e crollo del valore degli asset. A far la differenza fu la Banca d’Inghilterra, che concesse anticipi in contanti e aprì crediti cambiari, provando se non frenare, a rallentare il panico. 

Poiché la Banca era di fatto divenuta la titolare di tutte le riserve bancarie delle banche inglesi, e quindi in ultima analisi del sistema creditizio e in fondo del paese, di fronte al panico quest’ultima apparve come un’oasi di tranquillità. I suoi depositi aumentarono, fra settembre e novembre, da 9 a 12 milioni di sterline. Ed ecco qua la differenza: negli Usa, dove non c’era una banca centrale, i fondi liquidi finirono nella casseforti private. In Inghilterra nella cassaforte “pubblica”, pure se pubblica non era, per la semplice ragione che riscuoteva la pubblica fiducia. E quando il governo inglese si accorse che la corsa agli sconti metteva a repentaglio la riserva aurea della banca, sospese le leggi bancarie e quindi l’obbligo di conversione in oro delle banconote. La Banca fu autorizzata ad emetterne per due milioni senza corrispettivo aureo, e nonostante il tasso di sconto fosse stato portato al 10%, le operazioni di sconto non diminuirono. Il mercato pagava caro quello di cui aveva bisogno e il governo aveva provveduto affinché non mancasse il conquibus

La fiammata del panico si spense in fretta. Il 23 dicembre tornò l’obbligo di conversione in oro delle banconote sospeso a novembre, i tassi di sconto scesero all’8%. A febbraio del ‘58 erano di nuovo al 3%. Il cavallo impazzito del mercato aveva trovato un robusto fantino capace di governarlo.

Panico a Londra

Questo non vuol dire che l’evoluzione della Banca d’Inghiterra sia stata lineare. Tutt’altro. Negli anni successivi gli episodi di “panico”, come venivano definite all’epoca le crisi finanziarie, non smisero di verificarsi. Un altro episodio interessante da osservare attraverso la lente dei rendimenti sui Consol e dei tassi di interesse di banca centrale è la crisi del 1866, scatenata dal fallimento della banca londinese Overend Gurney and company, banca di sconto molto famosa nella City, che il 10 maggio di quell’anno, dopo il rifiuto della Banca d’Inghilterra di fornirle assistenza finanziaria, sospese i pagamenti. 

Un paio di giorni dopo Walter Bagehot scrisse sull’Economist che la Banca aveva turbato il mercato dei Consol, rifiutandoli a garanzia dei prestiti della Overend, e da lì il noto giornalista sviluppo’ la sua teoria del prestatore di ultima istanza che entrerà a far parte del suo famoso libro Lombard street.

All’apice della crisi, infatti, i tassi della banca furono portati al 10%, e da lì gradualmente abbassati mano a mano che il panico rientrava. Un anno dopo i tassi erano al 2%. Nello stesso tempo il rendimento dei Consols a lungo termine rimaneva stabile intorno al 3,4%. E’ interessante osservare che i rendimenti sono stabili per decenni, a partire dal 1821, proprio mentre i tassi della Banca d’Inghilterra cominciano a muoversi disordinatamente. Per i decenni precedenti il rendimento dei Consols era stato molto più instabile a differenza dei tassi bancari, fermi al 5%.

Questo curioso spread fra andamento dei tassi e dei rendimenti inizia a ridursi man mano che l’età del trionfo della borghesia cede il passo all’età degli imperi, sempre per usare la dizione di Hobsbawm.

La mossa del Tasso

Ma prima di dare un’occhiata a ciò che accadde alla fine del XIX secolo, conviene fare l’ultimo passo indietro e tornare ad osservare la curva del tasso di interesse della Banca d’Inghilterra, comunemente definito il tasso bancario. 

Come si può osservare dal grafico, la manovra dei tassi inizia timidamente a metà degli anni ‘20 del XIX secolo e decolla ampiamente nell’arco di un decennio. I motivi sono diversi, ma alla base ci sono precise scelte politiche del governo, che contribuirono insieme alle vicissitudini di mercato, a formare la fisionomia della Banca d’Inghilterra.

Tutto ciò matura negli anni precedenti e seguenti le guerre napoleoniche. Abbiamo già detto che il tasso di sconto era al 5%, allineato al tasso legale deciso dal governo contro l’usura. Negli anni delle guerre, questo tasso era inferiore a quello di mercato e ciò consentì alla Banca di fare notevoli affari con le operazioni di sconto. Scontare cambiali di buona qualità era per la Banca quasi un dovere professionale, visto che i proprietari erano a loro volta mercanti londinesi che avevano tutto l’interesse a mantenere liquidi i mercati.

Dopo le guerre i tassi di mercato si abbassarono, mentre quello della Banca rimase al 5%, il che le costò la perdita di queste operazioni di sconto. La Banca si vide costretta a cercare nuovi affari. Prestò, ad esempio senza limiti ai Rotschild al 3,5%. 

L’aria cambiò quando, nel 1825, scoppiò una crisi e la Banca si vide assediata da una pletora di clienti in cerca di denari. La Banca esitò qualche giornoma poi concesse tutti i prestiti richiesti. Si iniziava a delineare un ruolo – essere la Banca un punto di riferimento per le altre banche – che sarebbe diventato fondamentale nel futuro. 

Ma il punto di svolta più rilevante avvenne nel 1833, quando il governo approvò il nuovo Bank Charter Act che aprì notevoli opportunità alla Banca. Fra queste se ne segnalano due: le banconote sopra le cinque sterline emesse dalla Banca divennero legal tender, ossia moneta ufficiale per l’Inghilterra, e, per quel che riguarda la nostra storia, il limite del tasso al 5% fu sospeso per le cambiali sotto i tre mesi di scadenza. “Questo consentì alla Banca d’Inghilterra di utilizzare il tasso bancario per proteggere le sue riserve valutarie”. 

Iniziava l’epoca della manovra dei tassi per fini di politica monetaria. La mossa del Tasso, unita alla centralizzazione della riserve bancarie che andava formandosi, faceva somigliare la Banca d’Inghilterra a una moderna banca centrale. Il governo aveva favorito questo processo, il mercato ci aveva trovato una sua convenienza, pure quando si vedeva costretto a pagare un tasso bancario solitamente più elevato di quello di mercato ogni volta che bussava a denari alla Banca. Era un conto che si pagava volentieri, quando i tempi erano difficili. 

(3/segue)

Puntata precedente: Dalla crisi economica al crollo dei rendimenti

Questo post fa parte di un capitolo del nuovo libro che sto scrivendo – La Nazione Globale – che di tanto in tanto fa capolino sul nostro blog. L’intero capitolo verrà pubblicato a puntate durante le vacanze di fine anno. Il testo integrale, compreso di note, è disponibile su Academia, a questo link.

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