L’età della ragionevolezza


Parte IV, Prognosi/2

E se invece la nostra fosse solo una crisi di crescita?

Se la guarigione, a patto di curarsi, non solo è possibile ma anche probabile?

Forse all’età della ragione, con i suoi deliri di onnipotenza, la sua arroganza e il suo portato autodistruttivo, succederà un’età della ragionevolezza, che sarà tanto umile quanto è stata orgogliosa la prima, tanto autenticamente umana quando è stata umanistica l’altra.

Stavolta nel gioco di società che queste pagine vogliono proporre, prendiamo a prestito dalla filosofia della storia e regaliamoci un momento di ottimismo.

Venticinque secoli non possono essere trascorsi per niente. Per finire come i dinosauri. Forse prima di estinguerci – la morte è nella natura delle cose – ci attende la maturità, una diversa forma di saggezza che ci farà guardare a questo tempo giovanilistico con l’indulgenza e la tolleranza, e persino quel pizzico di nostalgia, che le persone mature riservano al tempo della loro giovinezza.

Nel nostro gioco paragoniamo il tempo attuale all’età dell’adolescenza. I segnali ci sono tutti. Da bravi adolescenti abbiamo covato il seme della ribellione contro il Padre fino a decretarne la morte. Abbiamo affermato la nostra volontà di potenza fino alla conquista delle stelle. Abbiamo elaborato una forma di governo basata sull’autodeterminazione e un sistema economico che promette di garantirci la libertà di avere quel che desideriamo. Abbiamo, in sostanza, creato nuovi idoli da venerare, efficaci mascheramenti del desiderio di sacralizzare noi stessi. Siamo diventati il nostro dIo.

Come gli adolescenti, soffriamo di narcisismo patologico e di tedio. Siamo talmente ubriachi di ormoni da aver istituzionalizzato il diritto/dovere al godimento erotico, sia nella forma pudica dell’innamoramento che in quella disincantata della pornografia. Come gli adolescenti, vogliamo solo divertirci, odiamo l’idea di diventare adulti e perciò aborriamo i segni del tempo sul nostro viso. Crediamo ciecamente nell’eternità del presente. Del futuro non ci importa e del passato abbiamo un ricordo sfocato. L’età dell’innocenza la liquidiamo col gigno saputello che gli adolescenti riservano ai bambini che credono ancora a babbo natale. Dio probabilmente non esiste: quindi godetevela, recitava uno slogan apparso qualche tempo fa in Europa. Oppure quest’altro: la vita è troppo breve, regalati un divorzio (pubblicità pagata da uno studio legale divorzista apparsa un paio di anni fa negli Usa). E tanto basta per intendere lo spirito del tempo.

L’adolescenza dell’umanità è come un’onda che travolge ogni cosa. Ma quando, inevitabilmente, l’onda cede il passo alla risacca scopriamo che è impossibile tagliare le nostre radici. Ciò da cui veniamo esercita un’attrazione irresistibile verso di noi. Maturando, l’onda dell’adolescenza rifluisce nel mare, di nuovo preda della corrente che forma la storia.

Qui le idee vecchie e quelle nuove si fondono in un’onda che si innalza ancora più della prima, rompe gli argini ed esonda sulla nuova terra dell’uomo, la rende fertile, gravida di promesse di un nuovo raccolto che mieteremo da adulti.

Finalmente, nel nostro futuro possibile, darà frutto l’albero piantato più di duemila anni fa fra la Grecia e il Medio Oriente. Ci accorgeremo che non è tanto facile fare a meno di Dio. Anzi, che ne abbiamo bisogno perché, come scrisse il filosofo russo Berdjaev, “l’uomo senza Dio cessa di essere uomo”. La nostra affezione verso ciò che è sacro, più forte di qualunque ribellione, risorgerà. Ricorderemo che il figlio avrà sempre un padre. Possiamo scambiarlo con la scienza, la politica, l’economia. Ma di fatto abbiamo bisogno di un principio per non sprofondare in noi stessi. E così capiremo che essere uomini significa riconciliarsi con la divinità.

E allora, come accade alla fine dell’adolescenza, dobbiamo solo chinare il capo alla maestà della vita e ritornare al nostro focolare. Il velo dell’illusione superomistica finalmente strappato dagli occhi. Scoprire di amare nostro padre, nostra madre e i nostri fratelli. Comprendere che oltre noi stessi non ci aspettano più potenza, ricchezza o sapienza, che ci degenerano nel mostrum.

Oltre noi stessi c’è l’altro.

Gli altri sono le colonne d’Ercole oltre le quali dobbiamo essere disposti a perderci.

Smarrire noi stessi nel nome del dovere e della responsabilità, dopo esserci smarriti per secoli nel nome dei diritti, navigando con ragionevolezza il mare vasto dell’umanità.

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