L’ipocrita ninna nanna che addormenta i giovani italiani


Non sono più giovane, per fortuna. La statistica mi colloca ben oltre il mezzo del cammino della vita, pure ai valori assoluti da matusalemme del nostro tempo. E dico per fortuna senza infingimenti, parendomi orrido questo persistere cerebrale nella giovinezza, e, al contempo, l’averla eretta a categoria sociale.

Mi ripugna ancor più l’ipocrisia che circonda i miei connazionali meno attempati, di volta in volta coccolati o depressi da una stampa sensazionalistica e cacciaballe, per pigrizia, abito mentale o chissà cos’altro, che si guarda bene dal raccontarla tutta, la loro storia di “giovani”. Li trasforma ora in bamboccioni, ora in migranti, ora in imbelli navigatori digitali, a seconda delle convenienze.

Sicché mi sono deciso a recuperare un po’ di vecchie carte e a raccontare un’altra storia che completa quella che ho già iniziato analizzando gli ultimi dati sulla ricchezza degli italiani. Stavolta invece parlerò di reddito e rendite. Parlare dei flussi, dopo aver discorso di stock, completa il quadro e lo dettaglia, consentendoci di estrapolare una simpatica visione d’insieme.

Nel migliore dei mondi possibili, i redditi dovrebbero alimentare la ricchezza, quindi le due variabili dovrebbero avere un andamento sincrono. Noi italiani siamo riusciti nel capolavoro di aver accresciuto la ricchezza a scapito dei redditi. E poi ci stupiamo che i giovani stiano come stanno, ipocritamente.

Ma prima di proseguire, val la pena motivare la scelta di scrivere questo post. Domenica scorsa l’Ansa, che è la nostra principale agenzia di informazione, e quindi colei che detta gli argomenti ai giornali e ai siti web, ha tirato fuori il solito rapporto sulla coesione sociale che l’Istat e il ministero del lavoro presentano a fine anno (quindi un bel po’ in ritardo). Ne ha confezionato la notizia che avrete orecchiato fra radio e giornali lunedì mattina sul tema, gettonatissimo, “i giovani e la crisi”.

Si potrebbe sintetizzare così: quasi sette italiani su dieci fra i 18 e i 34 anni vivono ancora con i genitori. Con relativo sottotitolo: colpa della crisi.

Ne è seguito un balletto di giaculatorie sui poveri giovani italiani, costretti a ricorrere a mammà fino a calvizie inoltrata. Addirittura, sempre lo stesso giorno, è uscito uno studio della Coldiretti che ha affermato che quando non vivono a casa, i giovani italiani abitano il più vicino possibile ai genitori. E meno male, perché la solita crisi ha definitivamente guastato le prospettive di questa generazione, e per fortuna ci sono le famiglie italiane che hanno buone pensioni e buoni risparmi, talché riescono a supportarli, questi poveretti. I quali possono pure pasteggiare a sbafo senza troppi sensi di colpa – sempre perché è colpa della crisi – grazie al capiente borsellino di mamma e papà.

La crisi dunque. Sicché uno pensa che prima non fosse così. O meglio, se ne convince. A furia di sentirsela ripetere, questa ninna nanna, finisce che china il capo rassegnato e si addormenta.

Peccato sia falso.

Il vecchio giornalista che ancora insiste in me, abituato a leggere e riscontrare, si è andato a scaricare le tabelle allegate al rapporto Istat, trovando quella che così tanto inchiostro ha fatto consumare ai chiacchieroni di questo disgraziato Paese.

In particolare la tavola I.1.2.7, che racconta di questi 18-34enni sedotti dal domicilio genitoriale, meglio se materno. E leggo che in effetti, come ha scritto l’Ansa, il 68,3% (anno 2012) dei maschi di quell’età vive coi genitori e che un anno prima erano il 65,2%. Quindi l’Ansa dice la verità: la crisi ha rimandato a casa i giovani. Ma non dice tutta la verità. Perché se l’avesse detta il pezzo sarebbe stato diverso.

L’occhio mi è andato a inizio della tabella, che riporta i dati del 2000. Ebbene, quell’anno, sempre i maschi (le femmine quotano dieci punti percentuali circa meno) figli di mamma erano il 67,7%. Quindi in dodici anni, e dopo una crisi devastante, abbiamo peggiorato il livello del 2000 di neanche un punto. Ma da quanto dura questa crisi?

Non bisogna stupirsi: appiattire tutto sul presente è il miglior modo per non dire cosa è successo nel passato. E quello che è successo nel passato è davvero molto semplice: da almeno un ventennio i redditi sono crollati mentre i patrimoni crescevano.

Questo paradosso è stato reso possibile dal crescente peso della rendita, sia essa finanziaria, sia essa immobiliare sia essa previdenziale. Quest’ultima è l’unica che non viene mai menzionata, ed è facile capire perché, nelle varie intemerate politico-sindacali contro la rendita finanziaria che viene contrabbandata come l’origine di ogni male. Eppure se si facesse un conto onesto dei guasti commessi dalla gestione dissennata della previdenza molti si ricrederebbero. Solo un dato servirà a dimensionare il problema: nel 2014 sono previsti pagamenti previdenziali per circa 250 miliardi di euro.

Per pagare queste rendite è stata sottratta ricchezza alla quota destinata ai redditi da lavoro. Ecco perché i giovani, pure quando trovano un lavoro, non riescono neanche a pagarsi fitto e bollette. E tornano da mammà, a volte per complice inadeguatezza, preferendo prolungarsi in una puberale indeterminatezza per pigrizia o stracco quieto vivere.

Dire questa verità porta con sé la spiacevole controindicazione di rendersi antipatici. Ai giovani, perché li risveglia dal loro torpore e li richiama a una precisa assunzione di responsabilità. Ai vecchi perché li mette di fronte a una semplice evidenza: hanno consolidato la loro ricchezza sulla spalle dei loro figli. E adesso si trovano nella (s)piacevole condizione di dover integrare i redditi evanescenti della loro prole con le loro rendite, con tutte le devastanti conseguenze che ciò ha sull’umore di questi ragazzi.

Spero perciò di poter contare sulla simpatia di chi giovane non è più e ancora non è vecchio, pur consapevole di appartenere ormai a una minoranza.

Queste affermazioni a molti sembreranno campate in aria, ma purtroppo sono fondate. Mentre scrivo sfoglio un libro addirittura del 2005 dove leggo che nel 2003 i lavoratori potevano contare sul 48,9% del reddito nazionale disponibile, mentre nel 1972 tale quota era il 59,2%. E soprattutto vi trovo un grafico dove si nota come al declinare della quota lavoro del reddito netto nazionale disponibile, corrisponde (né potrebbe essere diversamente) una quota crescente della quota del profitto e della rendita.

Addirittura fino al 1996 la quota della rendita superava quella dei profitti, ma dal ’97 in poi la curva dei profitti la supera. Volgeva al tramonto una delle maggiori fonti di rendite del nostro paese: gli interessi a doppia cifra sui titoli di stato, che negli anni ’90 erano saldamente in mano alle famiglie italiane, arrivati a quotare fino a oltre il 10% del Pil, proprio in quegli anni.

E infatti un altro grafico che fotografa i flussi delle rendite, concorrenti al flusso dei redditi, mostra la graduale crescita del peso specifico delle pensioni, che quotavano circa il 15% de reddito disponibile netto nel 1990 e ormai hanno superato quota 20%, mentre la quota degli interessi pagati dallo stato debitore ai suoi cittadini, che nel 1990 superava quota 10% del reddito disponibile netto, ormai è retrocessa sotto il 5%. Complice la disaffezione verso i bond statali, che però ha reso i nostri percettori di rendite assai più scafati e accorti, con la conseguenza che oggi gli interessi sulla corposa ricchezza finanziaria netta degli italiani li paga il mercato.

Nel tempo è cresciuta anche la quota di rendita immobiliare sul reddito disponibile ormai stabilmente sopra il 5% del reddito netto disponibile.

La conclusione è che fra il 1990 e il 2004 la quota di rendita sul reddito netto disponibile superava di un 15% la quota da reddito del lavoro dipendente. Non ho avuto tempo né voglia di fare altre ricerche, ma poiché il nostro dato iniziale dei giovani mammoni, quello relativo al 2000, si colloca pefettamente in questa cornice statistica, si può tranquillamente dedurne che anche i dati sui flussi /reddito/rendite non siano cambiati di molto. Anzi, nulla esclude che possano essere peggiorati a sfavore dei redditi e a favore della rendita. D’altronde lo abbiamo già visto: gli unici redditi che sono cresciuti sono quelli degli anziani, anche dal 2008 in poi.

Questo capolavoro redistributivo ha condotto al capolavoro sociale del nostro tempo, dove adulti infantilizzati in costante rifiuto dell’età che avanza accudiscono giovani invecchiati precocemente a causa di un’insana assistenza socio-familiare, che ha finito col provocar loro un costante rifiuto dell’età adulta.

Marciti prima di maturare.

Questa è la vera crisi italiana che la ninna nanna ipocrita dell’informazione mainstream cela per non affrontare il vero problema del nostro tempo: la restituzione al lavoro del diritto a una remunerazione congrua e dignitosa, pure a costo delle rendite.

Chi lo dice ai nostri rentiers?

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  1. _beneathsurface

    Concordo in generale con tua analisi, ma lascia l’impressione che sottoscrittori esteri e debito estero siano cose in sè negative: invece penso andrebbe chiarito che negative sono le loro dinamiche in rapporto all’andamento della (de)crescita del paese.
    Mi permetto di fare una ulteriore nota: l’aumento dello spread italiano (così come degli altri PIIGs) fu prevalentemente causato dalla frammentazione dei mercati dei capitali europei, conseguenza dell’aumentata coscienza della fragile architettura politico\monetaria della zona euro, nonché dal rischio di uno splitover dell’euro, coscienza che era rimasta fino a quel momento anestetizzata.
    Perciò finchè la percezione di questi rischi non rientrerà (e sappiamo ci vorrà molto-troppo-tempo data la struttura decisionale e pure poco democratica dell’europa a 17-18, vds Ssm, Omt, UnioneBancaria, Eurobond, governo federale, parlamento rafforzato), lo spread italiano è destinato a rimanere – secondo me, lo sottolineo – sufficientemente oltre quota 200 bp (salvo che l’italia magicamente non diventi domani come la Germania nel sentiment degli investitori). Secondo me questo già basterebbe a tranquillizzare chi teme un ritorno ai “fasti” creditizi pre-Lehmann che nel tuo articolo rimarchi.
    In secondo luogo, la presenza di sottoscrittori esteri è in sè una buona cosa, sia perchè portano capitali freschi sia perchè diversificando le categorie di detentori di debito, diluiscono i rischi che shock specifici su determinanti categorie di sottoscrittori abbiano impatti sull’emissione\rollover del debito pubblico.
    La matematica dà inoltre ragione alla logica economica, implicita anche nel modello keynesiano, che vuole che maggior spesa pubblica produca aumenti del pil nominale superiori al tasso di interesse nominale pagato, con avanzo primario zero, altrimenti il debito è destinato a crescere in ogni caso, alimentando il circolo vizioso che vediamo all’opera oggi dappertutto.
    Cosa causa allora questo pil italiano stagnante malgrado la dinamica crescente del debito pubblico e privato vista negli “anni d’oro”?
    La bassa produttività del capitale e la cattiva allocazione delle risorse (pubbliche in primis ma anche private, se stiamo a guardare alla dinamica delle sofferenze bancarie). Due problemi strutturali italiani, verso cui ogni genere di politica della domanda non darà soluzioni.
    Ecco perchè in questo frangente storico mi continuo a dire non keynesiano, o meglio…diversamente keynesiano. Politiche della domanda (per le quali sarebbe comunque necessario bucare per tot anni il tetto del deficit al 3%) dovranno coniugarsi con politiche schumpeteriane (dal lato dell’offerta). non c’è soluzione diversa per me, ma d’altronde non c’è politico\partito in italia che mi dia garanzie sufficienti che sarà in grado di fare quanto ritengo necessario.

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    • Maurizio Sgroi

      salve,
      il debito, interno o estero che sia, non è un problema finché non diventa tale. Nel nostro paese è diventato tale. Ciò non vuol dire che il debito estero sia il male assoluto, ovvio.
      Ma non è questo quello che vorrei dirle. Quello che mi interessa, prendendo spunto dal suo commento, è rimarcare la differenza fra la mia analisi e la sua. Lei fa un ragionamento teorico, basato su alcuni assunti e modelli. io analizzo la cronaca sulla base dei dati di cui dispongo. Lei ragiona da economista, io da giornalista socioeconomico.
      sono due approcci molto diversi. è importante distinguerli, perché credo che uno dei problemi della nostra informazione economica, così elitaria e incomprensibile, è che sia in mano a giornalisti che non riescono a spiegarsi (magari perché non sanno cosa dire o quello di cui parlano) o in mano ai professori, premi nobel o no, che hanno di fatto distrutto la possibilità di fare giornalismo economico senza avere una cattedra ad Harvard. Chi metterà mai in dubbio quello che dice un professore? Un altro professore, magari, non certo un povero giornalista. Tutti questi esperti, che riempiono le loro articolesse di nomi, cognomi e linguaggio tecnico, spesso non fanno un buon servizio all’informazione. Al contrario: allontanano i lettori autenticamente interessati o, peggio, li trasformano in ripetitori di concetti maldigeriti. Fanno ideologia, non informazione. Esattamente ciò che io non voglio fare.Anche perché l’unica idea che servo è quella di essere utile a chi legge (essendo notoriamente privo di opinioni).
      Quindi non ci tengo (né sarebbe serio da parte mia atteso che non ne so abbastanza) presentarmi come un esperto (cosa che poi non sono davvero) che abbia una sua verità da offrire al fine di convincere chi legge di qualcosa. Io cerco solo di capire, leggendo quello che scrivono altri, non di fare opinione. E poi da giornalista posso permettermi delle semplificazioni e delle suggestioni. perché lo scopo di un articolo non è illustrare o argomentare una certa teoria o dare soluzioni teoriche a un problema pratico. lo scopo è suscitare domande e nutrire l’interesse dei lettori. offrire un momento di riflessione. essere letto e lasciare chi legge un po’ più consapevole di quanto non fosse prima.
      quindi mi scuso se posso ingenerare equivoci o commettere errori (di cui sicuramente sarà pieno questo blog). Ma lo scopo di questo lavoro è ricevere commenti come il suo e pubblicarli.
      perciò, grazie per l’attenzione e al prossimo.

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    • Alessandro Santucci

      @beneathsurface
      Condivido solo parzialmente la sua analisi.

      Pensa seriamente che l’indebitamento estero sia in sè positivo ?

      Glielo domando per sottrarre ogni malizia sul tema che, come ha giustamente osservato Sgroi, c’incatena nelle mani dei mercati finanziari, in una spirale senza fine di debito che potremmo, invece, scongiurare rientrando nella condizione di piena sovranità, che ci affrancherebbe dall’attuale condizione di dipendenza
      dei mezzi monetari.

      Uno stato a moneta sovrana può legittimamente rinunciare all’emissione di T.d.S. o – in alternativa – decidere di adoperarli, come forma di controllo e raccolta dei risparmi cittadini (v. Giappone).

      Lo Stato, essendo FONTE DI MONETA, non necessita che qualcuna gli presti la moneta per funzionare in quanto è lo Stato stesso a essere fonte di moneta e a stabilire cosa è moneta e cosa non lo è per mezzo dell’esazione fiscale.

      Il modello schumpeteriano da lei auspicato urta oggi col dato inconfutabile: l’apprezzamento di una moneta così forte da togliere fiato e potere d’acquisto lato domanda. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.

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