Te-diologia
Parte I, Anamnesi/1
Ce lo portiamo appresso il tedio, come l’ombra.
Sostanze oscure e meravigliose, l’ombra e il tedio originano entrambi dal corpo che, sorgendo, si interpone fra la luce e il mondo. L’assenza di un corpo che si frapponga ad una sorgente luminosa consente alla luce di arrivare sulla superficie, dice la fisica. Senza un corpo, perciò, spariscono le ombre. E come l’ombra sparisce il tedio.
L’ombra la scopriamo da bambini. Impariamo a temerla e poi a giocarci. Il tedio arriva poco dopo e ci segue, sempre come un’ombra. Impariamo a giocarci e poi a temerlo. Scopriamo che non possiamo liberarcene, a meno di non disfarci del corpo. Come per l’ombra, ancora una volta.
In ragione di ciò la morte, nel tempo, ha finito con l’essere considerata una liberazione.
Tale condizione è nota. La storia dello spirito umano è costellata di testimonianze scritte con la pietra delle parole sulle pergamene fragili della memoria.
Nei versi dei poeti latini scorgiamo l’ombra molesta che ci oscura la vita.
Da lì, saltando i secoli, la ritroviamo sui tomi poderosi dei filosofi e dei romanzieri, fino ad atterrare sui tavoli asettici delle cliniche, dove oggi uomini con i camici bianchi agitano flaconi zeppi di pillole per risvegliarci dal torpore della malattia. Ogni squilibrio neurochimico risulta sanabile con la giusta ricetta, dicono costoro, ripetendo senza ricordarla la lezione medievale, secondo la quale il tedium latino scaturiva da umor nero.
Quello che oggi chiamiamo squilibrio emotivo.
Ma percorrere il ponte del tempo sulle tracce del tedio comunica solo una straordinaria sensazione di immobilità. Una lunga teoria di autori, luoghi, discipline, culture intere: eppure si inciampa su parole che si rincorrono come echi, sempre uguali. Pesantezza, apatia, irrequietezza, disinteresse.
“Ognuno vorrebbe staccarsi da sé, fuggirsi lontano e non può, anzi sempre più a se stesso costretto si attacca e intanto si odia”, scriveva Lucrezio un secolo prima di Cristo, traducendo in poesia il delirio ontologico della Volontà che farà la fortuna di Schopenhauer duemila anni dopo. Con lui tutta la schiatta romantica, il pessimismo cosmico, le ansie decadenti, fino all’ostentazione esistenzialista che ci ha inflitto legioni di viziosi compulsivi con le occhiaie scavate dalla visione dell’oscurità.
La seduzione del tedio ha colpito indistintamente nei secoli, suscitando fortune letterarie, orgie artistiche, consuetudini modaiole e – sempre – un diffuso sentimento di pietà invidiosa, come se la sofferenza derivata dal male oscuro denotasse l’aristocrazia della sensibilità.
Si soffre per una mancanza, gorgheggiano i poeti con voce arcadica, vagheggiando di paradisi perduti o artificiali.
Ma fuori dalle rime, la mancanza è solo l’abbellimento di una condizione assai più prosaica: la miseria.
Sono loro, siamo noi, questi nuovi miserabili, resi ancor più miseri dall’ignoranza di una condizione germinata dalla storia per reazione, antitesi e conflitto.
“Se gli uomini come sentono il peso che li stanca almeno potessero, di tanto male, scoprire la causa avrebbero forse una vita migliore”, scrive ancora Lucrezio mentre poeta sulla Natura delle cose, erigendosi, primo di una lunga serie, a magister del banchetto dello spirito, reiterando la lezione epicurea e, per logica conseguenza, la ricetta della disperazione, la regola aurea di tutti quelli che dicono di voler conoscere: Io so.
Anche nel travestimento più illustre, quello socratico: il celeberrimo “Io so di non sapere”, che rivela la furbizia del predicatore e impianta la Sophia greca nella terra fertile del Soggetto.
Sapienza miserabile, perciò, che affama e sfianca. E neanche consola la sua pretesa di verità. La filosofia come rimedio non aiuta Lucrezio, che si uccide neanche cinquantenne, e neanche Seneca, che sogna di scacciare il tedio con la filosofia, l’altruismo e l’otium, mentre se ne libererà solo aprendosi le vene.
Non consolerà neanche Boezio, la filosofia, malgrado il titolo della sua opera più celebre scritta in carcere mentre attende la lama del boia. Strana figura, costui: un umanista ante litteram del VI secolo infarcito di tradizione ellenistica. Un neoplatonico che si definisce cristiano mentre immagina la filosofia come “una donna di aspetto oltremodo venerabile nel volto, con gli occhi sfavillanti e acuti più della normale capacità umana; di colorito vivo e d’inesausto vigore, benché tanto avanti con gli anni”, svelando con ciò una singolare passione erotica per la conoscenza. Traduzione perfetta ed ennesima mimesi della condizione di colui che si antepone alla Sophia in nome dell’amore.
Poi l’abisso dei secoli sommerge ogni cosa. La notte medievale oscura la miseria del filosofo.
Ogni cosa si scompone.
L’Io so dell’uomo greco finisce in frantumi, stilla sulle pagine degli amanuensi che copiano senza leggere per divino comandamento e così facendo si perpetua nel letargo, mentre fuori si edificano i monoliti sociali che per quasi mille anni reggeranno la storia.
Qui il tedio non ha diritto di cittadinanza: umore biliare o poco più, trattato con salassi e aspersioni di acqua santa, oppure frutto di tremenda eresia quando non addirittura stregoneria, curato col fuoco e le tenaglie.
La cappa della religione ammortizza gli inciampi dello spirito e scaccia l’angoscia che torna ad accomodarsi nella dimensione privata dell’esistenza, appena placata dalla consolazione, questa sì, della religione.
Ma il mondo finisce davvero dopo l’anno Mille.
Nessun Giudizio Universale, però. A meno che l’Apocalisse preannunciata dagli anatemi degli invasati di Dio non fosse una straordinaria crescita economica che nel giro di pochi decenni raddoppia la popolazione in Europa e dona linfa nuova alle città.
I borghi tornano a popolarsi. Riprendono i commerci e torna a farsi vedere l’economia monetaria, preparatoria di quella bancaria.
I semi dell’accumulazione germinano le università, che dalla fine del secolo XI° e nei decenni successivi nascono nei nuovi borghi ingrassati dallo sviluppo agricolo, che fa decollare le rendite e genera dividendi sociali.
Alcuni storici parlano di quel tempo come del “Rinascimento del secolo XII”, per distinguerlo da quello più noto che segnerà l’inizio dell’età moderna, trecento anni dopo. Ma sono sottigliezze da specialisti. Trecento anni bastano appena, nella fucina della storia, a forgiare l’Uomo Nuovo che emerge luminoso dalla tenebra medievale. Che nuovo, poi, non è. Assomiglia al vecchio Boezio: un impasto ben riuscito di Socrate e Gesù.
Ma tale memoria si è perduta e ciò facilita l’entusiasmo. L’Io so – il sapiente – esce dal letargo per acclamazione. Riemerge dal fango della storia, trova asilo nei borghi, crea i suoi templi e i suoi sacerdoti, presta il suo braccio utile al progresso. Sorge e prepara la guerra.
Una larva all’inizio, dalle gambe malferme e di salute cagionevole. Su di lui pende la minaccia dell’Inquisizione, che la Chiesa Romana decreta nel 1084, fiutando la minaccia, per colmo d’ironia nello stesso anno in cui apre i portoni l’Università di Bologna.
Ma le Bolle Papali, se possibile, lo rafforzano.
L’Uomo Nuovo, il preumanista, si è incistato da secoli nel ventre di Santa Madre Chiesa che, malgrado le apparenze, lo accoglie benignamente mentre lo ammonisce, come un figliol prodigo al quale sacrificare il suo vitello più grasso. Uno sforzo titanico di “riassorbimento” per il quale si mobiliterà, a metà del secolo XIII, il campione dei domenicani: Tommaso d’Aquino.
Il tentativo glorioso dell’Aquinate di conciliare fede e ragione – ossia gli attributi di Dio e dell’Io – gli varrà meritatamente il titolo di Santo. Ma è una vittoria di Pirro, visto che subordina alla razionalità classica, cioè all’uomo greco, Dio stesso. E’ il canto del cigno del Medioevo.
Una lunga agonia.
Due secoli dopo la scepsi corrosiva del secolo XVI mette alla berlina la Scolastica di Tommaso e tutto il suo armamento di cause efficienti e prove ontologiche. I profeti dell’Umanesimo se la ridono delle cinque vie di Tommaso per arrivare a Dio. Sono persino troppe, dicono, per un Ente che dovrebbe affermarsi di per sé. La ridondanza sa di inconsistenza. L’abbondanza di prove cela l’insussistenza dell’Ente.
All’uomo umanista ne basta una sola, di via, per dare fondamento ontologico alla Sapienza.
L’Io So, allora, esce fuori dal suo guscio secolare e si manifesta in tutta la sua potenza, che oscura Dio fino ad ucciderlo. Cogito ergo sum, dice Cartesio ormai nel XVII secolo, fondando la metafisica del Sé.
Penso dunque sono.
L’Io so trova la sua forma definitiva nella consapevolezza di essere. Eccola la Sapienza. La via che non necessita altra prova.
Ecco il Te-Dio.