mIo
Parte II, Semeiotica/1
Per saziare la sua fame insaziabile l’Io celebra l’ingordigia, specchio delle sue brame di godimento. Per dissimulare la sua miseria, si riveste d’oro e si scopre bello come un dio e altrettanto potente.
Un dio selvatico.
Uno spirito animale, che dispensa doni in cambio di venerazione. Merci in cambio di idee. Denaro in cambio di Tempo. Ogni ora di tempo che gli viene dedicata dai suoi servi, gli allunga la vita. La devozione di tutti, lo rende eterno.
Dall’alto dei suoi grattacieli, oggi, questo vitello d’oro contempla soddisfatto il mondo ai suoi piedi. Osserva la pletora indaffarata di servi che s’offre e soffre per assicurargli le sue necessità. Che leva su di lui uno sguardo timoroso e insieme avido che cela il desiderio di assomigliargli.
Nel tempo di pochi secoli, un soffio di tempo, la nuova divinità ha scardinato l’economia della terra e della società feudale, sostituendole con l’accumulazione capitalistica. Il potente scettro della tecnica gli assicura un dominio imperituro.
Assiso sul trono che affaccia sulla rovina del mondo, per un attimo l’Io percepisce un senso di sazietà. Ma poi un pensiero lo attraversa, fino a saturarlo completamente.
Finché dalla sua gola arrochita da secoli di strepiti sorge un suono gutturale e profondo: mIo.
Un attimo dopo ritorna la fame.
Nel 2008, prima del grande crollo che dura ancora oggi, la ricchezza di un anno del mondo veniva quotata quasi 57 mila miliardi di dollari. Una cifra con dodici zeri. Un’unità di grandezza che di solito abita nell’infinitamente grande dell’universo o nell’infinitamente piccolo del mondo cellulare.
Alle quotazioni medie dei giorni nostri dell’oro, tale cifra equivale a circa 119 milioni di chili d’oro, ossia 119.000 tonnellate. Sparsa sulla superficie del mondo, che misura circa 500 milioni di chilometri quadrati, tale ricchezza farebbe somigliare la Terra a una palla dorata. Come se un gioielliere cosmico avesse preso il nostro pianeta e l’avesse immmerso in un bagno d’oro. E lo facesse ogni anno.
Un miracolo. Che per giunta si autoperpentua, evocato da un coro assordante di voci che ogni giorno ripete: ancora, ancora, ancora.
Molte voci per un solo soggetto: l’Uomo moderno.
Tale miracolo è stato chiamato in molti modi nel corso dei secoli: rivoluzione industriale, capitalismo, turbofinanza.
Molti nomi per una sola pulsione: la fame.
Il sorgere dell’Io nella storia ha fatto risuonare la fame. E così facendo ha trasmutato il piombo della Terra in oro.
Tale alchimia ingenera alcuni equivoci. La causa, il dominio dell’Io, viene scambiato con l’effetto, il capitalismo di massa.
L’inevitabile deriva narcisistica che scaturisce dalla devozione alla nuova divinità (mIo) genera il consumismo bulimico del nostro tempo. Non il contrario.
Tale sfasamento di prospettiva è assai comune. E’ diffuso fra gli economisti, apologeti o semplici auruspici salariati di tale modo di produzione. Ma anche fra i non specialisti che non masticano la matematica. I letterati, magari. Oppure, ancora una volta, gli psicoanalisti.
Così, ad esempio, il poeta Edoardo Sanguineti, qualche tempo fa: “Il narcisismo è connesso allo sviluppo neocapitalistico, all’imperialismo americano, alla globalizzazione. Il mondo è stato corrotto veramente dalle persone”. Oppure si può ripescare il celebre “discorso del capitalista” di Lacan che nel 1972 declinava in forma psicoanalitica la pulsione famelica (e quindi insaziabile) del soggetto contemporaneo. Chi volesse risalire a monte dell’attuale valle di lacrime dovrebbe rileggersi gli utopisti socialisti dell’Ottocento. I teorici della proprietà privata come furto, formula che tanta fortuna ha avuto fino a saldarsi nell’ortodossia marxista.
Senonché, come tutti gli slogan, anche questo è ingannevole. La proprietà privata, che è il cuore del capitalismo, non nasce da un furto bensì da un istinto che sorge con l’Io: il senso del possesso. Il bisogno di dire: questo è mio.
Ma il soggetto precede logicamente l’oggetto. Il proprietario, in quanto persona, la proprietà. L’avere è un predicato dell’essere, quindi la proprietà è la derivata prima dell’Io così come il potere politico è la sua derivata seconda. Il furto, se di furto si può parlare, è dell’Io che distacca dall’Altro la sostanza utile a se stesso per autoaffermarsi.
Un nuovo peccato originale.
Nella prassi, tanti soggetti che predicano la proprietà privata generano collettivamente l’economia di mercato prima e quella capitalista poi, che è una forma sui generis della stessa economia di mercato, in quanto fa del denaro una merce.
L’equivoco è pensare che tale forma economica favorisca il narcisismo, quando è evidente il contrario. E’ l’atto narcisistico che predica l’Io, concedendogli di affermarsi nella Storia, tramutandolo nel soggetto della nuova economia nel nome della libertà. Ciò al fine di arrivare a un mondo di liberi proprietari in un libero mercato in un libero Stato. Esattamente in quest’ordine.
La controindicazione a tale libertà, è la libertà stessa. Il diritto alla proprietà privata, infatti, implica quello di poter avere (acquistare) tutto ciò che si desidera. Perseguire cogentemente tale desiderio conduce al delirio consumistico e, da lì, all’inevitabile tedio connesso all’insaziabilità (ancora Lacan).
Ciò malgrado il capitalismo, chiamiamolo così per intenderci, trionfa nel mondo per la stessa ragione che ha condotto al trionfo dell’Io.
Alcuni si oppongono, ma è un travestimento. Propongono di limitare il diritto alla proprietà come antidoto alla dittatura del desiderio individuale. Fiorisce così l’ideale del collettivismo e della proprietà pubblica. Ma rimane un ideale, appunto, che nasconde un furioso conflitto assai prosaico per la conquista della roba.
Il tempo non è passato invano.
Nella nostra era ormai secolarizzata tali ideologie vengono travolte con la stessa furia con la quale è stato cancellato il sostrato religioso che portavano con sé. Quella diffidenza verso l’individuo che esortava il credente ad affidarsi alla Grazia, così come il collettivista si affidava al Partito.
Sopravvivono, tuttavia, certi abiti mentali, residui di forme mentis ormai rovinate. Il conflitto fra capitale e lavoro, per dirne uno, che sussume il conflitto di classe, che a sua volta è motivato – sempre marxianamente – dalla lotta per il plusvalore (che oggi, coerentemente con la sua missione sociale la psicoanalisi chiama plus-godere). Tale conflitto, fuori dal suo travestimento ideologico, si riduce alla lotta di uno verso l’altro per avere e quindi consumare di più. Che non è tanto diversa dallo stato di natura predicato da Hobbes nel suo famoso homo homini lupus di plautina memoria.
Questo per dire che anche due acerrimi nemici, come il capitalismo e il comunismo, servono la stessa divinità: il dIo economico che riduce la sostanza sociale a semplice lotta per l’accaparramento di risorse scarse.
Tutto si riduce a semplice voracità.
All’imperativo del mIo.
Per arbitrare tali contese è stato elaborato il gioco politico. Per fare in modo che la torta fosse grossa abbastanza da generare nel più alto numero di persone l’illusione della ricchezza, e quindi favorire la pace sociale, si è strutturata l’economia monetaria e a seguire quella finanziaria.
Quest’ultima si regge su un atto di fede (la credibilità) che le ha permesso di estendere potenzialmente all’infinito la quantità di denaro in circolazione realizzando l’utopia alchimista della trasformazione del metallo vile in oro tramite la pietra filosofale del credito.
Ciò ha consentito il miracolo di una ricchezza che si vuole in perpetua crescita e in costante redistribuzione, come se la scarsità fosse un limite culturale e non fisico. Il superamento, per via economica, della necessità e della finitezza. L’ennesimo mascheramento della mortalità che l’Io economico elabora celando il proprio desiderio di eternità con la crescita infinita del Pil.
Ma sono illusioni, perniciose come tutte le fantasticherie, come ha svelato la recente crisi del debito.
L’oro virtuale si sgretola sotto i marosi della sfiducia, lascia scorie umide di sangue e lacrime. Territori devastati dai tormenti.
La Terra torna nuda Terra.
Alla fine del dimagrimento forzoso per via economica, l’Io si specchia ormai spogliato della sua veste dorata. Senza lo sfarzo degli oggetti che lo hanno consolato, gli rimane solo un desiderio frustrato di possesso destinato a condurlo verso un rapido annichilimento. Si nutre di nostalgia, assapora i ricordi, finché sprofonda.
Si introflette.
Il godimento narcisista diventa la pulsione di morte.
Comincia con la rabbia.
Poi diventa Tedio.