I profitti della manifattura italiana tornano al livello pre-pandemia

Prima di congedarci, per il consueto finale di stagione, vale la pena lasciare le ultime molliche sul sentiero di noi novelli Pollicino in cerca della strada per la normalità. Una di queste l’ho trovata sfogliando l’ultimo bollettino economico di Bankitalia, dove un agile riquadro fa i conti in tasca alle imprese e ne trae una conclusione che sarà molto utile ricordare a settembre, quando torneremo dalle vacanze più squattrinati del solito e con, negli occhi, le tabelle dei rincari di ogni cosa assai più presenti di quanto non siano adesso.

Il punto saliente è che “nel complesso del manifatturiero i margini di profitto sono tornati ai livelli pre-pandemici”. Ma in questo dato generale si nascondono molte differenze. Ci sono 11 settori, che trovate indicato nella tabella c, in alto, dove i margini di profitto sono ancora sotto quel livello. E questo lascia ipotizzare che queste imprese avranno come minimo la tentazione di far salire i costi.

Interessante anche osservare come le imprese manifatturiere italiane abbiano reagito allo shock inflazionistico, che ha fatto schizzare alle stelle i costi di produzione e, di conseguenza, i prezzi al pubblico. Le stime di Bankitalia calcolano nel 13,7 per cento l’aumento dei costi variabili per unità di prodotto nel 2022 rispetto al 2021. Tali costi incorporano l’acquisto di materie prime, semilavorati, servizi e costo del lavoro. L’aumento dei prezzi, che è stato del 12,4 per cento nel 2022, non ha quindi compensato quello dei costi. Se il consumatore piange, le imprese insomma non ridono. Ma certo piangono meno, visto che hanno subito la contrazione dei propri margini di profitto di circa un punto percentuale, mentre il consumatore, ha subito una piena erosione del proprio potere d’acquisto solo in piccola parte compensata da adeguamenti delle retribuzioni.

Questo sempre in generale, ovviamente. Alcuni settori (fabbricazione della carta, della chimica, della metallurgia di base e dei prodotti in metallo) hanno ritoccato i listini all’insù più degli altri e hanno conservato i propri margini.

Quando nel 2023 i prezzi energetici e dei beni importati sono diminuiti, abbassando i costi variabili dell’1,6 per cento per unità di prodotto, i prezzi dei prodotti finiti hanno continuato la loro crescita, seppure più lentamente (+0,4 per cento), sicché il margine operativo lordo delle imprese (MOL) è aumentato di 1,8 punti “recuperando pienamente il livello del 2021”.

Cosa ci dice tutto questo? Nulla che non potessimo già immaginare. Un movimento inflazionistico si trasmette dalla produzione al consumo molto facilmente, visto che le imprese possono liberamente adeguare i propri listini, e l’effetto dell’inflazione permane anche quando i prezzi alla produzione rallentano. Sempre perché chi produce, beni o servizi, ha un strumento in più rispetto a chi consuma e ha un reddito fisso: può muovere i prezzi.

Questa asimmetria è fonte di grandi scompensi sociali, che possono facilmente diventare economici – si pensi ai meccanismi di adeguamenti automatici dei salari – e poi politici. Il consumatore ha solo un rimedio contro l’inflazione: tagliare i consumi. Probabile succeda anche questa volta. E chissà per quanto durerà. Perché un’altra cosa che ci ha insegnato l’inflazione è che serve tempo, per tornare alla normalità. Molto tempo.

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