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Le quattro Europe: la trinità Baltica
L’estrema propaggine occidentale del fu impero sovietico, quella formata dai paesi baltici, è diventata assai presto l’estrema propaggine orientale dell’Unione europea e ormai dell’eurozona. La Lettonia è entrata di recente nell’euro e ci si aspetta che l’anno prossimo entri anche la Lituania, dopo che l’Estonia aveva lavorato come apripista già dal 2011.
Come fa per quasi tutto, anche per l’euro la Banda Baltica si è mossa in perfetto coordinamento, tramutandosi in una piccola Europa/eurozona di provincia. E non tanto, e non solo, per le dimensioni ridotte del suo territorio. Ma per la connotazione stessa del suo agire economico.
I paesi baltici hanno assorbito nello spazio di un ventennio usi e consuetudini dei fratelli maggiori europei, condividendone anche le gioie – grandi tassi di crescita pompata dal credito facile e dall’export – e i relativi dolori quando, dal 2007, cominciò la grande recessione.
Sicché oggi la piccola Europa baltica si trova a dover fare i conti con i nostri stessi problemi: crescita stentata, disoccupazione ancora alta, credito stagnante. Ma con qualche atout in più da giocare sul tavolo della ripartenza. Uno fra tutti il fatto, come nota il Fmi nel suo ultimo “Baltic cluster report” di condividere un modello macroeconomico comune. Incarnano, insomma, una perfetta trinità.
Vale la pena notare come questa fisionomia sia molto diversa da quella della gran parte degli altri paesi dell’eurozona. Tutti e tre i paesi, infatti, hanno un livello molto basso di spesa pubblica in rapporto al Pil, cui corrisponde un basso livello di tassazione sui redditi, sulla ricchezza e sul capitale. Al contrario, le tasse sul lavoro sono alte. Il che certo non premia i lavoratori, ma i capitalisti sì. “I Baltici hanno creato un clima favorevoli agli investimenti”, ne deduce il Fmi.
La Banda Baltica, poi, ha deficit fiscali bassi, quando non addirittura nulla, con debiti pubblici sul Pil la cui media non supera il 30%. Nulla a che vedere con il resto dell’eurozona.
Essendo entrati tardi nell’euro, inoltre, o addirittura ancora in procinto di entrarci, i Baltici hanno potuto godersi una politica monetaria indipendente che, grazie alla flessibilità del cambio, ha favorito il mercato dei prodotti sviluppando notevolmente la loro competitività, atteso che il mercato del lavoro era già molto flessibile di suo, “più simile al modello anglosassone del laissez faire – nota il Fmi – che a quello dei paesi della regione nordica”, dove prevale il concetto di flexicurity.
Il combinato disposto di queste politiche ha determinato un livello di diseguaglianza, misurato dall’indice di Gini, più simile a quello dei paesi anglosassoni che a quelli scandinavi, che pure sono loro dirimpettai e sodàli. Il che, se volete, certifica l’avvenuta transizione dal modello sovietico a quello americano, che i Baltici hanno compiuto con rara efficacia in meno di un ventennio.
Per dirla con le parole del Fmi, “i Baltici hanno avuto un cambiamento più brusco, rispetto a Polonia, Ungheria o Repubblica Svolacca, ma più radicale”.
Ed è proprio la radicalità una delle caratteristiche della nostra trinità. Negli anni buoni dell’Europa, quando tutti facevano credito a tutti, i Baltici non si sono certo risparmiati. Forti della stretta connessione con le banche dell’area scandinava, i Baltici hanno vissuto un’esplosione del credito, da un lato, e del commercio estero, dall’altro.
Il Fondo ha calcolato che fra il 2005 e il 2012 l’import/export dei Baltici abbia superato il 120% del Pil, persino più della Germania. Questo mentre i tassi di crescita del credito marciavano con percentuali a due cifre (questo fino al 2007).
I particolare, nel 2007 la crescita annuale del credito aveva raggiunto il 36%, pompata da un autentico impazzimento del debito privato di famiglie e imprese, che nel frattempo aveva provocato deficit di conto corrente fino al 18% del Pil e inflazione al 10%, mentre il rapporto fra prestiti e depositi delle banche schizzava al 200%.
Una situazione chiaramente non sostenibile. E non serviva certo la crisi dell’euro a determinarla. La crisi dell’euro l’ha soltanto evidenziata, come d’altronde è successo anche ai nostri PIIGS.
Dal 2009 in poi i Baltici hanno iniziato a riprendersi, col risultato che nel 2011 collezionarono il più alto tasso di crescita nell’Ue, grazie al sonoro boom delle esportazioni, sempre più pompate dal lavoro flessibile e dal cambio. Il che permise di riassorbire i deficit di conto corrente, riequilibrare il rapporto fra depositi e prestiti nelle banche e abbassare drasticamente l’inflazione. Ciò ha consentito ai primi due Baltici di entrare nell’euro con i conti in ordine.
Vale la pena rilevare che le strette connessioni che i Baltici intrattengono l’uno nei confronti dell’altro e con i paesi della regione nordica non sono soltanto finanziarie ma, soprattutto, commerciali.
Nel totale del commercio prevalgono gli scambi intra-trinitari. Il 30% del totale dei commerci della Lettonia, per dire, vengono effettuati con gli altri due Baltici, e giusto l’Estonia vedere una quota rilevante del proprio commercio suddivisa fra Svezia e Finlandia.
Se guardiamo invece al flusso degli investimenti diretti (FDI) notiamo che i Baltici sono terminali privilegiati degli investimenti vichinghi. Sempre nel caso dell’Estonia, si osserva che oltre il 50% del totale degi FDI arrivano da Svezia e Finlandia e poi, in quota minore, da Norvegia e Danimarca. E’ un po’ come sei Baltici fossero i paesi emergenti di marca vichinga, insomma, e insieme i loro mercati di sbocco. E in un certo senso è proprio così.
Tutta la costruzione europea, a bene vedere, si è retta sull’equilibrio, che poi è diventato uno squilibrio, fra un gruppo core di paesi forti che usava paesi più deboli come satelliti, quindi mercati di sbocco e riserva di manodopera a basso costo, traendone questi ultimi in cambio denaro facile e promesse mirabolanti di prosperità.
I Baltici non hanno certo fatto eccezione. Per avere un ordine di grandezza di quanto pervasiva sia stata questa economia del debito, vi basti considerare che il rapporto debito privato/pil in Estonia, sempre negli anni buoni, arrivò a quotare il 110% (famiglie e imprese) a fronte del 30% di prima del bengodi.
Poi successe quello che sappiamo bene. Le banche si scoprirono piene di spazzatura, col risultato che dovettero fare un pesante disindebitamento forzato che ha ridotto il credito al lumicino, come è ancora oggi, mentre i governi cercavano disperatamente di metterci una toppa. L’export salvò il conto corrente dei Baltici, ma le conseguenze dovettero subirle le popolazioni, che ancora oggi scontano una disoccupazione media al 10% (la Lettonia stava al 20% nel 2010), mentre i mercati borsistici sono tornati poco sopra il livello del 2004. Per non parlare del mercato immobiliare, ancora sotto stress.
Sempre per amore della cronaca, notate che fra il 2008 e il 2012 i Baltici hanno subito una significativa correzione del costo unitario del lavoro (ULC) con relativo drammatico aumento di produttività. Faccio solo l’esempio della Lettonia. Nel periodo considerato l’ULC nominale è calato del 13,9%, mentre la produttività è aumentata del 15,6%. In tal modo la disoccupazione è passata dal 20% del 2010 a poco più del 12% che però, dice il FMI, per gli standard baltici è pari al livello di disoccupazione strutturale. Il che equivale a dire che meglio di così non si poteva fare.
Il Fondo sintetizza che “la combinazione di riduzione salariale e aumento di produttività nel periodo post-crisi ha ridotto l’ULC dal 10 al 20% rispetto a quello dei competitori dell’Europa occidentale”.
La piccola Europa baltica è diventata una piccola Cina, proprio sopra le nostre teste.
Ciò malgrado il FMI non risparmia i suoi preziosi consiglio ai Baltici, che corrono il rischio, in futuro, di veder raffreddarsi l’impetuoso flusso di esportazioni che ha rimesso in piedi la sua economia, anche a causa degli avversi flussi demografici, che vedono la gioventù declinante a favore della vecchiaia da qui al 2040.
La risposta istituzionale dei Baltici alla crisi, tuttavia, è ciò che più vale rilevare. Ciò che ne è conseguito, infatti, è stato un ulteriore processo di integrazione fra i tre stati e fra loro e i vicini della regione nordica. In sostanza la versione baltica del più Europa, che il Fmi incoraggia a perseguire anche in relazione all’intera eurozona.
Maggiore integrazione, disciplina fiscale e più competitività per esportare, pure al costo di una pesante deflazione salariale, che però ha anche il vantaggio di attirae investimenti diretti: la minestra, che piaccia o no, è sempre la stessa: creare ambienti favorevoli ai più ricchi. Meglio se confinanti. E tanto più viene bene, questa pietanza, quanto più si cucini in paesi flessibili e ancora giovani, dove i diritti non sono consolidati.
In tal senso l’Europa dei baltici è il perfetto esempio del paradigma unificante dell’intera costruzione europea, che qui, come altrove, si conferma essere gioco di dominio celato dalla neutralità (teorica) dei flussi economici, essendo l’economia, e non altro, il cemento che unisce l’Europa.
E quindi il suo potenziale detonatore.
(3/segue)
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L’euro surriscalda il Mattone baltico
La versione aggiornata del mitico dividendo dell’euro è il boom del mercato immobiliare registrato nei primi tre quarti del 2013 in Estonia e in Lettonia, dal 2014 entrata nella casa monetaria comune. Boom ansiogeno quantomai, visto che i tre paesi baltici hanno alle spalle una recente crisi dell’immobiliare che gareggia con quella spagnola, mentre adesso sembra tornato in auge il mattone.
Non a caso. In un suo rapporto dedicato all’immobiliare baltico del dicembre 2012 la Commissione Ue notava argutamente, riferendosi all’Estonia, che “sin dal suo ingresso nell’euro nel 2011 l’Estonia non ha più praticamente rischio di cambio sul suo stock di mutui”. Non vi ricorda niente?
Fatto sta che dal 2004, quando la quota di mutui denominati in valuta estera nei tre stati baltici oscillava fra il 55% della Lituania all’80% delll’Estonia, nel 2009 la percentuale sfiorava il 100% in Estonia e Lettonia e schizzava all’80% in Lituania. Nel 2012, l’Estonia ormai eurizzata, annullava il rischio cambio, mentre la Lettonia, da quest’anno anche lei dei nostri, gode dello stesso vantaggio.
Gli effetti sul mercato si sono visti subito.
Gli ultimi dati Eurostat sul mattone europeo, diffusi martedì scorso, mostrano che la crescita dei prezzi in Estonia, nel terzo quarto 2013, si è attestata all’11,1% rispetto allo stesso periodo del 2012. In Lettonia, ancora in predicato di entrare nell’euro l’anno scorso, la crescita è stata “appena” del 6,2%, poco sotto il Lussemburgo (6,5%) che però sappiamo bene godere di ben altra economia. Questo a fronte di una decrescita dei prezzi, nell’intera eurozona dell1,3%. E basta questo a capire che aria tiri nei paesi neofiti dell’euro. Non a caso, infatti, la Lituania, dove ancora l’euro non è arrivato, il mercato è rimasto freddo, con un risicato -0,4% di variazione dei prezzi nel 2012.
Tutto ciò malgrado la Commissione Ue, già dal 2012, avvertisse circa la necessità di monitorare da vicino il mercato immobiliare della regione, dove “l’espansione del credito può alimentare un altro ciclo boom-bust sull’immobiliare”. Le famose parole al vento.
D’altronde non brilliamo per capacità di imparare dagli errori, anche recenti.
L’ultimo ciclo fortemente espansivo del mattone baltico, guidato da politiche fiscali accomodanti e da una certa arrendevolezza bancaria, si è consumato fra il 2004 e il 2006, quando i prezzi immobiliari letteralmente esplosero, con tassi di crescita a doppia cifra, cui seguirono tassi di decrescita altrettanto pronunciati, dal 2007 in poi, accompagnati da relative crisi bancarie e salvataggi statali.
Il deleveraging, seguito alla crisi del 2009, ha riportato, nel 2012, i prezzi sostanzialmente al livello del 2004, connotando la regione baltica come altamente instabile e fin troppo sensibile alle seduzioni dell’immobiliare.
Adesso il boom sembra pronto a ripartire, grazie alla copertura dell’euro. I tassi reali per i mutui in Estonia, infatti, sono negativi dal 2011, grazie a un tasso di inflazione non core fra i più alti dell’area euro (intorno al 4%) e ciò incoraggia non poco, evidentemente la decisioni di indebitarsi. Con grande gioia delle banche, che, sempre in Estonia, hanno visto salire al 39% la percentuale di mutui sul totale dei prestiti concessi, a fronte di una media del 21% nell’eurozona.
Tale attitudine non potrà che avere effetti sul livello generale del debito del settore privato (famiglie e imprese) che nel 2011, in Estonia come in Lettonia, al termine di un processo di disindebitamento iniziato nel 2008, viaggiava ancora poco sotto il 100% del Pil
La crisi, peraltro, ha mutato sostanzialmente le fonti di approvigionamento finanziario delle banche. Prima si alimentavano nel mercato dei finanziamenti all’ingrosso (wholesale funding) per lo più attingendo ai flussi della regione nordica (Svezia e gli altri paesi). Dopo la crisi l’uso di finanziamenti esterni sono stati sostituiti dai depositi retail, che però in larga parte arrivano da non residenti e quindi sono altamente volatili.
Questo per dire che i rischi finanziari, per le banche baltiche, vanno di pari passo con i profitti che stanno macinando. E rischio per le banche rima con rischio paese, anche se non sembra.
L’ultimo staff report pubblicato nel maggio scorso dal Fmi sull’Estonia notava che il saldo del conto corrente, nel 2012, era diventato negativo, spinto da un aumento delle euroimportazioni che per la prima volta hanno superato le esportazioni. Il deficit è ancora contenuto nell’ordine dell’1-2% del Pil, ma si nota una quota crescente del saldo negativo sui redditi che appesantisce il saldo finale, dovuto all’aumento sia degli investimenti di portafoglio dall’estero che degli investimenti diretti, esplosi, non a caso, proprio a partire dal 2011.
Questo per dire che la sostenibilità estera dell’Estonia, così come anche della Lettonia, è ancora buona. Ma tutto cambia in un attimo, nel magico mondo dell’euro.
Questo almeno dovremmo ricordarcelo.
