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Le quattro Europe: l’artiglio vichingo
Se la guardate da un planisfero fisico, la penisola scandinava somiglia a un gigantesco artiglio, scaturito dall’immensa landa russa, arroccato sopra la testa dell’Europa, e in particolare sulla Germania. Una propaggine quasi, a simboleggiare il destino di fratellanza che genera, volenti o nolenti, la prossimità.
Una sorte che la storia più volte ha sperimentato, come ricordano bene i finlandesi che dovettero combattere le feroce guerra d’inverno del ’39, e più tardi subìta dai Paesi Baltici, occupati dall’Urss, mentre la Germania nazista si accasava in Danimarca e Norvegia, con la Svezia che da un lato sosteneva i finlandesi contro i sovietici, e dall’altro riforniva di ferro i nazisti. Negli anni della guerra, insomma, l’artiglio vichingo servì alla Russia tanto quanto alla Germania.
La Storia ovviamente poi è cambiata. Ma la geografia no. E questo ricordo lontano è una buona chiave di lettura per comprendere il presente della terra dei vichinghi. La regione nordica, come la chiama il Fondo monetario internazionale, che qualche tempo fa le ha dedicato un report che ci consente di scoprire un’altra Europa, quella dell’estremo nord che è anche estremo occidentale dell’oriente post-sovietico.
Un mondo che vive di un suo proprio modello economico – il cosìdetto modello scandinavo – e di una sua area d’influenza che, oggi come ieri, trova nel mar Baltico, e nei paesi che su di esso affacciano, la sua naturale esposizione. Geografica, innanzitutto. Ma anche bancaria e industriale. E sul Mar Baltico si affacciano anche la Polonia e la Germania, che come sanno gli appassionati sono anch’esse legate da profonde ragioni storiche e geopolitiche.
L’Europa del Baltico, delimitata dall’artiglio vichingo è un’altra Europa a sé, che giova raccontare seguendo la filigrana disegnata dal Fondo monetario, nostro moderno Virgilio nei foschi gironi della contabilità internazionale.
I fantastici quattro dell’estremo nord – Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia – , così come la trinità baltica rappresentata da Estonia, Lituania e Lettonia, condividono innanzitutto un destino economico. Anche questa non è una novità. Gli appassionati di storia ricorderanno che i paesi scandinavi (all’epoca la Danimarca comprendeva anche l’Islanda) condivisero persino un’unione monetaria ai tempi del gold standard, iniziata nel 1872 e finita nella tragedia della Grande Guerra.
Due guerre mondiali dopo, i nostri vichinghi hanno ripreso a parlarsi, forti di una somiglianza – questa sì – potenzialmente prodromica di una qualunque convergenza. Ma di unione monetaria non parlarono più, manco per sbaglio.
Pensate che nel 1952 fu creato il primo organo consultivo ove i quattro paesi, compresa l’Islanda, avrebbero potuto far esperimenti di convergenza. La prima riunione del Nordic Council si svolse in Danimarca a febbraio del ’53. Un anno dopo, a luglio del ’54, fu creato il Nordic market labor, e nel 1958 il Nordic passoport Union, mentre già dal 1955 era attiva la Nordic convention on social security.
Insomma, i nordici si stavano avviando con decisione verso un mercato reale integrato. Finché, nel 1959 non decisero di abbandonare i piani. Nel frattempo era nata la Comunità economica europea e la seduzione dell’ideale europeo, evidentemente, fece breccia.
Ciò malgrado, la cooperazione fra i paesi nordici non si è mai interrotta. Né formalmente – sono stati creati diversi organismi interministeriali – né sostanzialmente. Mentre la diplomazione tesseva la sua tela, infatti, le economie si integravano sempre più profondamente, guidate dalla più potente delle forze: l’appetito del profitto. Ecco nascere il mondo di oggi, dove gli intrecci bancari fra le banche nordiche diventano l’altra faccia dell’artiglio vichingo, che dalla fine dell’unione sovietica ha trovato il suo cardine nelle piccole repubbliche baltiche.
Oggi i Nordic 4, come li chiama il Fmi, sono al top della classifica Ocse per alto livello di ricchezza e bassa disuguaglianza sociale, esprimono un ambiente molto favorevole al business, grazie ai loro elevati gradiente di competitività, e hanno persino in comune finanze pubbliche che godono di ottima salute: il deficit quasi non esiste e il livello medio del rapporto debito/pil quota intorno al 40%, persino cresciuto ma solo a causa della crisi del 2008, che ha costretto gli stati, qui come altrove, ad aprire i portafogli per salvare il sistema bancario. Di nuovo. I cultori della materia ricorderanno la crisi bancaria svedese degli anni ’90.
Fin qui, i vichinghi sembrano la bella copia dei baltici.
Molto di questo stato di grazia, paradossalmente, la regione nordica lo deve proprio alla crisi bancaria del ’90, che servì loro di lezione. Superata la crisi, a caro prezzo, i nordici, chiamiamoli così, riportarono la normalità nella gestione fiscale che ha consentito loro di superare la tregenda del 2009 (la Finlandia perse il 9% di Pil, per dire) senza che venisse scalfita la loro nomea di “safe heaven”. E ciò pure a fronte di uno dei welfare più costosi della storia, grazie soprattutto a un livello di incassi fiscali vicino al 60% del Pil.
Così tanto stato sociale – ecco che riecheggia l’utopia sovietica – e insieme così tanto capitalismo, come nella dirimpettaia Gran Bretagna.
Questo strano ibrido economico ha fatto scuola e da sempre suscita una ragionevole invidia nelle altre società europee. Ma il segreto del successo della regione nordica contiene anche i rischi che si vanno rannuvolando sopra la penisola.
Essendo un’economia molto aperta, l’Europa vichinga ha tessuto profondi link non solo con le regione vicine, a cominciare da quelle baltiche, ma con tutto il globo. La somma di import ed export, per le quattro nazioni, oscilla fra il 62 e il 70% del Pil, e poi ci sono le connessioni finanziarie, quelle che preoccupano di più.
Oltre a condividere strettissimi legami morganatici fra loro, i Nordic 4 sono l’interfaccia finanziaria dei paesi baltici, sia per gli investimenti di portafoglio che per quelli diretti, e quindi i propalatori di un contagio che, da questi ultimi, può facilmente diffondersi.
Un pregevole box del Fmi disegna la ragnatela che oppone i vichinghi al resto del mondo, tessuto col filo degli investimenti diretti, di portafoglio e dei flussi commerciali. L’analisi del fondo rileva che i paesi nordici sarebbero fra i primi a subire gli effetti di uno shock che dovesse colpire i loro partner. Questi ultimi sono diversi. La ragnatela scandinava arriva dappertutto, di qua e di là dall’oceano.
Sul versante bancario, invece, gli shock partirebbero dai paesi verso i quali i nordici sono più esposti, quindi innanzitutto i paesi baltici. Ed è proprio la rilevanza degli asset bancari, che arrivano a superare il 400% del Pil in Danimarca, e i profondi intrecci che le banche dei Nordic 4 condividono la principale fonte di rischio.
E questo non dipende soltanto dal fatto che le banche scandinave siano generose prestatrici estere. Ma anche dalla circostanza che prestino parecchio anche a casa propria.
Tanta generosità, di conseguenza, ha creato un doppio rischio per il sistema scandinavo: quello di shock importati dall’estero, a causa di problemi nei paesi debitori, e shock generati dall’interno che a loro volta potrebbero comunicarsi ai paesi debitori.
“Il grande sistema bancario nordico – osserva il Fondo – supporta un livello relativamente elevato di debito privato”. Sempre in Danimarca, infatti, il livello di debiti sul reddito delle famiglie sfiora il 300%, in pratica il doppio degli altri paesi Ocse, mentre per le imprese la palma delle più indebitate spetta a quelle svedesi, che a fine 2011 quotavano debiti totali pari a circa il 150% del Pil. Sempre per la cronaca, vale la pena rilevare che i debiti delle famiglie sul reddito sono aumentati del 60% fra il 2000 e il 2011. Nessuno, nemmeno i nordici , è sfuggito alla bengodi del credito di inizio secolo.
Questa consuetudine, di avere bilanci privati carichi di debiti, è un’altra costituente del modello scandinavo, dove le famiglie in particolare (ma anche le imprese) condividono una rilevante ricchezza patrimoniale, rappresentata dal mattone o dai fondi pensione, che però è poco liquida e quindi soggetta agli stress da valutazione.
La grande paura, anche questa comune ai Nordic 4, è quella di un calo delle quotazioni immobiliari che possa accelerare il de-leveraging bancario e mettere sotto pressione le banche. Rischio tutt’altro che peregrino, visto che nella regione, in media, i prezzi delle case sono cresciuti di più del 120% fra il 1995 e il 2007. Dopo la crisi i prezzi hanno continuato a salire in Norvegia (+10%), mentre sono crollati del 30% in Danimarca. Al contrario sono rimasti stabili in Finlandia e Svezia.
Quindi è comprensibile perché “lo sviluppo dei prezzi delle case pone un rischio sulla stabilità macroeconomica, in un contesto di bilanci delle famiglie sotto pressione”. Le stime del Fmi, infatti, “suggeriscono che i prezzi delle case nei Nordic 4 siano sopravvalutati”, anche se in maniera disomogenea. Vale la pena ricordare che un calo di valore del mattone ha effetti su vari settori: dal consumi privato agli investimenti, che necessariamente ne risentirebbero, lato fiscale (meno incassi per il governo collegati al mattone) e infine sulla capacità di prestit delle banche.
Tanto teme quest’eventualità, il Fmi, che ha anche condotto delle stime, secondo le quali un calo dei prezzi degli immobili del 10% avrebbe come conseguenza una diminuzione del Pil aggregato fino al 2,5% in Danimarca, con gli investimenti residenziali privati a picco, in Svezia, del 28,5%.
Questo è forse il modo più semplice a cagione del quale l’artiglio scandinavo incardinato sui paesi baltici, qualora subisse uno shock, può facilmente affondare l’Europa.
Ma non è certo l’unico.
Ho già detto dell’ampiezza del sistema bancario nordico. Ebbene: a tale ampiezza corrisponde una notevole fame di finanziamenti che, in gran parte non arrivano dai depositi, ma dal mercato. Il Loan-to-deposit ratio, ossia il rapporto fra i prestiti e i depositi, supera il 200% in molte banche nordiche, che ritroviamo anche fra le top 20 nella classifica di questo indicatore. “Come ha dimostrato la crisi del 2008 – nota il Fmi – questa alta dipendenza dal mercato dei capitali ha aumentato la vulnerabilità del sistema bancario nordico agli shock da liquidità e di finanziamento”.
Ricapitolo: le banche nordiche sono al centro di una ragnatela di prestiti, interna e internazionale, che trova nei rischi del mercato immobiliare dell’area e nel pesante indebitamento privato, nonché nella sua stessa dimensione il fattore potenzialmente destabilizzante dell’economia regionale.
Fra i rischi “interni” a questo sistema bancario, merita una menzione quello inerente al largo utilizzo di covered bond, tramite i quali le banche nordiche attingono al mercato dei capitali (wholesale funding) emettendo obbligazioni in valuta nazionale ed estera. Le sei banche più grandi della regione avevano emesso 460 miliardi di covered bond a fine 2012, ossia il 70% del totale emesso nella regione e il 33% del totale dei convered bond emessi nel mondo.
Arma a doppio taglio, i covered bond, in quanto asset assicurati, visto che finiscono col ridurre, in caso di risoluzione bancaria, i fondi a disposizione per i bail in, oltre che generare un sovrappiù di costi per le banche che non li usano.
Tutto ciò viene complicato dal fatto che le banche nordiche sono profondamente interrelate fra loro. Il Fondo calcola che l’85% del totale delle esposizioni bancarie e dei depositi sono originati all’interno dei Nordic 4, così’ come il 75% dei bondo sovrani detenuti da queste banche sono di questi paesi.
Questo operare “più come banche regionali che come banche nazionali”, che individua meglio di ogni altra retorica l’artiglio vichingo, porta con sé una rilevante concentrazione di rischi. Basta un semplice dato per capirlo: quattro delle sei banche principali dell’area sono svedesi, e detengono asset pari al 120% del Pil dell’intera regione. Quindi un problema svedese ci mette pochissimo a diventare un problema nordico tout court, come peraltro è già accaduto negli anni ’90. Per questo il Fondo suggerisce di accumulare buffer fiscali comuni, da una parte, e di creare un sistema regionale di risoluzione bancario comune.
In sostanza il Fondo suggerisce di creare una base fiscale comune, se non formale almeno lato risorse, e una unione bancaria per limitare i rischi. Anzi, mentre che c’è definisce la recente Unione bancaria dell’eurozona “un’opportunità”. Che detto a paesi che condividevano un’unione monetaria fino a cent’anni fa individua l’Europa nordica/baltica come l’ennesimo esempio non riuscito di integrazione istituzionale sovranazionale.
Se neanche paesi che condividono così tanto in economia, dal sistema bancario, ai debiti, ai mercati immobiliari, e persino alle controparti estere, non si sono convinte a integrarsi in un’area comune, come può riuscirci l’eurozona?
Mi sorge il sospetto che tutti noi siamo vittime di un ricordo, che poi è diventato sogno.
Il sogno europeo.
Ovvero l’eredità dei nipotini di Carlomagno.
(4/segue)
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Le quattro Europe: la trinità Baltica
L’estrema propaggine occidentale del fu impero sovietico, quella formata dai paesi baltici, è diventata assai presto l’estrema propaggine orientale dell’Unione europea e ormai dell’eurozona. La Lettonia è entrata di recente nell’euro e ci si aspetta che l’anno prossimo entri anche la Lituania, dopo che l’Estonia aveva lavorato come apripista già dal 2011.
Come fa per quasi tutto, anche per l’euro la Banda Baltica si è mossa in perfetto coordinamento, tramutandosi in una piccola Europa/eurozona di provincia. E non tanto, e non solo, per le dimensioni ridotte del suo territorio. Ma per la connotazione stessa del suo agire economico.
I paesi baltici hanno assorbito nello spazio di un ventennio usi e consuetudini dei fratelli maggiori europei, condividendone anche le gioie – grandi tassi di crescita pompata dal credito facile e dall’export – e i relativi dolori quando, dal 2007, cominciò la grande recessione.
Sicché oggi la piccola Europa baltica si trova a dover fare i conti con i nostri stessi problemi: crescita stentata, disoccupazione ancora alta, credito stagnante. Ma con qualche atout in più da giocare sul tavolo della ripartenza. Uno fra tutti il fatto, come nota il Fmi nel suo ultimo “Baltic cluster report” di condividere un modello macroeconomico comune. Incarnano, insomma, una perfetta trinità.
Vale la pena notare come questa fisionomia sia molto diversa da quella della gran parte degli altri paesi dell’eurozona. Tutti e tre i paesi, infatti, hanno un livello molto basso di spesa pubblica in rapporto al Pil, cui corrisponde un basso livello di tassazione sui redditi, sulla ricchezza e sul capitale. Al contrario, le tasse sul lavoro sono alte. Il che certo non premia i lavoratori, ma i capitalisti sì. “I Baltici hanno creato un clima favorevoli agli investimenti”, ne deduce il Fmi.
La Banda Baltica, poi, ha deficit fiscali bassi, quando non addirittura nulla, con debiti pubblici sul Pil la cui media non supera il 30%. Nulla a che vedere con il resto dell’eurozona.
Essendo entrati tardi nell’euro, inoltre, o addirittura ancora in procinto di entrarci, i Baltici hanno potuto godersi una politica monetaria indipendente che, grazie alla flessibilità del cambio, ha favorito il mercato dei prodotti sviluppando notevolmente la loro competitività, atteso che il mercato del lavoro era già molto flessibile di suo, “più simile al modello anglosassone del laissez faire – nota il Fmi – che a quello dei paesi della regione nordica”, dove prevale il concetto di flexicurity.
Il combinato disposto di queste politiche ha determinato un livello di diseguaglianza, misurato dall’indice di Gini, più simile a quello dei paesi anglosassoni che a quelli scandinavi, che pure sono loro dirimpettai e sodàli. Il che, se volete, certifica l’avvenuta transizione dal modello sovietico a quello americano, che i Baltici hanno compiuto con rara efficacia in meno di un ventennio.
Per dirla con le parole del Fmi, “i Baltici hanno avuto un cambiamento più brusco, rispetto a Polonia, Ungheria o Repubblica Svolacca, ma più radicale”.
Ed è proprio la radicalità una delle caratteristiche della nostra trinità. Negli anni buoni dell’Europa, quando tutti facevano credito a tutti, i Baltici non si sono certo risparmiati. Forti della stretta connessione con le banche dell’area scandinava, i Baltici hanno vissuto un’esplosione del credito, da un lato, e del commercio estero, dall’altro.
Il Fondo ha calcolato che fra il 2005 e il 2012 l’import/export dei Baltici abbia superato il 120% del Pil, persino più della Germania. Questo mentre i tassi di crescita del credito marciavano con percentuali a due cifre (questo fino al 2007).
I particolare, nel 2007 la crescita annuale del credito aveva raggiunto il 36%, pompata da un autentico impazzimento del debito privato di famiglie e imprese, che nel frattempo aveva provocato deficit di conto corrente fino al 18% del Pil e inflazione al 10%, mentre il rapporto fra prestiti e depositi delle banche schizzava al 200%.
Una situazione chiaramente non sostenibile. E non serviva certo la crisi dell’euro a determinarla. La crisi dell’euro l’ha soltanto evidenziata, come d’altronde è successo anche ai nostri PIIGS.
Dal 2009 in poi i Baltici hanno iniziato a riprendersi, col risultato che nel 2011 collezionarono il più alto tasso di crescita nell’Ue, grazie al sonoro boom delle esportazioni, sempre più pompate dal lavoro flessibile e dal cambio. Il che permise di riassorbire i deficit di conto corrente, riequilibrare il rapporto fra depositi e prestiti nelle banche e abbassare drasticamente l’inflazione. Ciò ha consentito ai primi due Baltici di entrare nell’euro con i conti in ordine.
Vale la pena rilevare che le strette connessioni che i Baltici intrattengono l’uno nei confronti dell’altro e con i paesi della regione nordica non sono soltanto finanziarie ma, soprattutto, commerciali.
Nel totale del commercio prevalgono gli scambi intra-trinitari. Il 30% del totale dei commerci della Lettonia, per dire, vengono effettuati con gli altri due Baltici, e giusto l’Estonia vedere una quota rilevante del proprio commercio suddivisa fra Svezia e Finlandia.
Se guardiamo invece al flusso degli investimenti diretti (FDI) notiamo che i Baltici sono terminali privilegiati degli investimenti vichinghi. Sempre nel caso dell’Estonia, si osserva che oltre il 50% del totale degi FDI arrivano da Svezia e Finlandia e poi, in quota minore, da Norvegia e Danimarca. E’ un po’ come sei Baltici fossero i paesi emergenti di marca vichinga, insomma, e insieme i loro mercati di sbocco. E in un certo senso è proprio così.
Tutta la costruzione europea, a bene vedere, si è retta sull’equilibrio, che poi è diventato uno squilibrio, fra un gruppo core di paesi forti che usava paesi più deboli come satelliti, quindi mercati di sbocco e riserva di manodopera a basso costo, traendone questi ultimi in cambio denaro facile e promesse mirabolanti di prosperità.
I Baltici non hanno certo fatto eccezione. Per avere un ordine di grandezza di quanto pervasiva sia stata questa economia del debito, vi basti considerare che il rapporto debito privato/pil in Estonia, sempre negli anni buoni, arrivò a quotare il 110% (famiglie e imprese) a fronte del 30% di prima del bengodi.
Poi successe quello che sappiamo bene. Le banche si scoprirono piene di spazzatura, col risultato che dovettero fare un pesante disindebitamento forzato che ha ridotto il credito al lumicino, come è ancora oggi, mentre i governi cercavano disperatamente di metterci una toppa. L’export salvò il conto corrente dei Baltici, ma le conseguenze dovettero subirle le popolazioni, che ancora oggi scontano una disoccupazione media al 10% (la Lettonia stava al 20% nel 2010), mentre i mercati borsistici sono tornati poco sopra il livello del 2004. Per non parlare del mercato immobiliare, ancora sotto stress.
Sempre per amore della cronaca, notate che fra il 2008 e il 2012 i Baltici hanno subito una significativa correzione del costo unitario del lavoro (ULC) con relativo drammatico aumento di produttività. Faccio solo l’esempio della Lettonia. Nel periodo considerato l’ULC nominale è calato del 13,9%, mentre la produttività è aumentata del 15,6%. In tal modo la disoccupazione è passata dal 20% del 2010 a poco più del 12% che però, dice il FMI, per gli standard baltici è pari al livello di disoccupazione strutturale. Il che equivale a dire che meglio di così non si poteva fare.
Il Fondo sintetizza che “la combinazione di riduzione salariale e aumento di produttività nel periodo post-crisi ha ridotto l’ULC dal 10 al 20% rispetto a quello dei competitori dell’Europa occidentale”.
La piccola Europa baltica è diventata una piccola Cina, proprio sopra le nostre teste.
Ciò malgrado il FMI non risparmia i suoi preziosi consiglio ai Baltici, che corrono il rischio, in futuro, di veder raffreddarsi l’impetuoso flusso di esportazioni che ha rimesso in piedi la sua economia, anche a causa degli avversi flussi demografici, che vedono la gioventù declinante a favore della vecchiaia da qui al 2040.
La risposta istituzionale dei Baltici alla crisi, tuttavia, è ciò che più vale rilevare. Ciò che ne è conseguito, infatti, è stato un ulteriore processo di integrazione fra i tre stati e fra loro e i vicini della regione nordica. In sostanza la versione baltica del più Europa, che il Fmi incoraggia a perseguire anche in relazione all’intera eurozona.
Maggiore integrazione, disciplina fiscale e più competitività per esportare, pure al costo di una pesante deflazione salariale, che però ha anche il vantaggio di attirae investimenti diretti: la minestra, che piaccia o no, è sempre la stessa: creare ambienti favorevoli ai più ricchi. Meglio se confinanti. E tanto più viene bene, questa pietanza, quanto più si cucini in paesi flessibili e ancora giovani, dove i diritti non sono consolidati.
In tal senso l’Europa dei baltici è il perfetto esempio del paradigma unificante dell’intera costruzione europea, che qui, come altrove, si conferma essere gioco di dominio celato dalla neutralità (teorica) dei flussi economici, essendo l’economia, e non altro, il cemento che unisce l’Europa.
E quindi il suo potenziale detonatore.
(3/segue)
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Le quattro Europe
Cercavo l’Europa. Disadorno e umile, come un novello Diogene, la cercavo laddove mi avevano detto che fosse: nell’indistinto flusso numerario che compone il discorrere contemporaneo.
La cercavo nelle statistiche, perciò, scrutando fra congerie di dati che, dicevano tutti, illustravano meglio delle parole la costituente stessa dell’Europa, che perciò è fenomeno economico nel sentire comune, assai prima che sociale, o, forse, componendosi la sua socialità, che dovrebbe essere spirito politico, proprio in variabili rese omogenee dal metro monetario, radice, a quanto sembra, del nostro stare insieme.
Forse tutto questo era una perversione della storia?
Ho iniziato a chiedermelo man mano che procedevo usando la lanterna dell’intelletto per decifrare il gerogilifico aritmetico che, passo dopo passo, svelava il suo arcano di terribile travestimento del nulla.
Sotto quei numeri non c’era l’Europa, ma il seme dell’ennesima guerra civile che i popoli europei hanno iniziato a combattere creando sconquassi percepiti intanto dai termometri finanziari, prima di rovinare sulla società. E mentre adesso gli stessi termomentri volgono al bello, incoraggiati da migliaia di dichiarazioni d’intenti di politici e banchieri centrali, la rovina sociale volge al peggio.
L’Europa economica migliora al peggiorare dell’Europa sociale.
Eppure la ricerca non è stata vana. Al contrario.
Cercavo l’Europa. Ne ho trovate quattro.
Sicché ne ho tratto la convinzione che l’Europa condivide la tragica sorte che fu dell’Italia ai tempi di Metternich: essere un’espressione geografica, o, volendo essere attuali, una speciosa costruzione economica fondata sul lavoro dei giuristi.
Di grande aiuto, nella mia ricognizione, è stato il lavoro tassonomico svolto dal Fondo Monetario internazionale, grande facitore di aggregati contabili, che, proprio in virtù della sua facoltà di discernimento ha isolato e classificato i legami più profondi, che sono sempre numerari e quindi economicistici, fra le aree autenticamente omogenee di quel melting pot che chiamiamo Europa, classificandosi quest’ultima, infine, come un semplice contenitore. Un indicatore di prossimità geografica.
Sicchè capite bene perché il Fmi dedichi alle quattro Europe periodici approfondimenti.
L’ultimo apparso pochi giorni fa è quello dedicato ai paesi centro-sud-orientali dell’Europa, definita regione CEESE. Si tratta di un gruppo di paesi che vanno da Russia e Turchia, fino a Serbia, Romani, Moldova e altri. Il criterio di classificazione è quello dei paesi emergenti, nei quali vengono ricompresi anche i tre paesi baltici, quindi Estonia, Lituania e Lettonia, ormai stabilmente integrati nell’area euro, e tuttavia oggetto pure loro di un report regionale del Fondo monetario.
Un’altra Europa, che si aggiunge a queste due, è quella dei paesi delle regioni nordiche, quindi Svezia, Danimarca, Finlandia e Norvegia, fuori dall’euro (a parte la Finlandia), ma dentro l’Ue. I vichinghi del Nord, proprio come i tre paesi baltici, sono profondamente interrelati, condividendo sistemi finanziari e sociali e realizzando fra loro una notevole convergenza.
Infine, l’Europa d’occidente, che compone il nucleo forte dell’eurozona, quella composta dai nipotini di Carlomagno, che oggi guida (o vorrebbe guidare) il processo di integrazione europeo con i risultati che stanno davanti ai nostri occhi e dei quali si è interessata di recente l’Ocse.
Conoscere meglio le quattro Europe è esercizio utile per comprendere ciò di che parliamo quando parliamo di integrazione europea.
Ciò non vuole dire che poi quello che si capisce finisca col piacerci.
(1/segue)
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