Etichettato: svezia
Le quattro Europe: l’artiglio vichingo
Se la guardate da un planisfero fisico, la penisola scandinava somiglia a un gigantesco artiglio, scaturito dall’immensa landa russa, arroccato sopra la testa dell’Europa, e in particolare sulla Germania. Una propaggine quasi, a simboleggiare il destino di fratellanza che genera, volenti o nolenti, la prossimità.
Una sorte che la storia più volte ha sperimentato, come ricordano bene i finlandesi che dovettero combattere le feroce guerra d’inverno del ’39, e più tardi subìta dai Paesi Baltici, occupati dall’Urss, mentre la Germania nazista si accasava in Danimarca e Norvegia, con la Svezia che da un lato sosteneva i finlandesi contro i sovietici, e dall’altro riforniva di ferro i nazisti. Negli anni della guerra, insomma, l’artiglio vichingo servì alla Russia tanto quanto alla Germania.
La Storia ovviamente poi è cambiata. Ma la geografia no. E questo ricordo lontano è una buona chiave di lettura per comprendere il presente della terra dei vichinghi. La regione nordica, come la chiama il Fondo monetario internazionale, che qualche tempo fa le ha dedicato un report che ci consente di scoprire un’altra Europa, quella dell’estremo nord che è anche estremo occidentale dell’oriente post-sovietico.
Un mondo che vive di un suo proprio modello economico – il cosìdetto modello scandinavo – e di una sua area d’influenza che, oggi come ieri, trova nel mar Baltico, e nei paesi che su di esso affacciano, la sua naturale esposizione. Geografica, innanzitutto. Ma anche bancaria e industriale. E sul Mar Baltico si affacciano anche la Polonia e la Germania, che come sanno gli appassionati sono anch’esse legate da profonde ragioni storiche e geopolitiche.
L’Europa del Baltico, delimitata dall’artiglio vichingo è un’altra Europa a sé, che giova raccontare seguendo la filigrana disegnata dal Fondo monetario, nostro moderno Virgilio nei foschi gironi della contabilità internazionale.
I fantastici quattro dell’estremo nord – Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia – , così come la trinità baltica rappresentata da Estonia, Lituania e Lettonia, condividono innanzitutto un destino economico. Anche questa non è una novità. Gli appassionati di storia ricorderanno che i paesi scandinavi (all’epoca la Danimarca comprendeva anche l’Islanda) condivisero persino un’unione monetaria ai tempi del gold standard, iniziata nel 1872 e finita nella tragedia della Grande Guerra.
Due guerre mondiali dopo, i nostri vichinghi hanno ripreso a parlarsi, forti di una somiglianza – questa sì – potenzialmente prodromica di una qualunque convergenza. Ma di unione monetaria non parlarono più, manco per sbaglio.
Pensate che nel 1952 fu creato il primo organo consultivo ove i quattro paesi, compresa l’Islanda, avrebbero potuto far esperimenti di convergenza. La prima riunione del Nordic Council si svolse in Danimarca a febbraio del ’53. Un anno dopo, a luglio del ’54, fu creato il Nordic market labor, e nel 1958 il Nordic passoport Union, mentre già dal 1955 era attiva la Nordic convention on social security.
Insomma, i nordici si stavano avviando con decisione verso un mercato reale integrato. Finché, nel 1959 non decisero di abbandonare i piani. Nel frattempo era nata la Comunità economica europea e la seduzione dell’ideale europeo, evidentemente, fece breccia.
Ciò malgrado, la cooperazione fra i paesi nordici non si è mai interrotta. Né formalmente – sono stati creati diversi organismi interministeriali – né sostanzialmente. Mentre la diplomazione tesseva la sua tela, infatti, le economie si integravano sempre più profondamente, guidate dalla più potente delle forze: l’appetito del profitto. Ecco nascere il mondo di oggi, dove gli intrecci bancari fra le banche nordiche diventano l’altra faccia dell’artiglio vichingo, che dalla fine dell’unione sovietica ha trovato il suo cardine nelle piccole repubbliche baltiche.
Oggi i Nordic 4, come li chiama il Fmi, sono al top della classifica Ocse per alto livello di ricchezza e bassa disuguaglianza sociale, esprimono un ambiente molto favorevole al business, grazie ai loro elevati gradiente di competitività, e hanno persino in comune finanze pubbliche che godono di ottima salute: il deficit quasi non esiste e il livello medio del rapporto debito/pil quota intorno al 40%, persino cresciuto ma solo a causa della crisi del 2008, che ha costretto gli stati, qui come altrove, ad aprire i portafogli per salvare il sistema bancario. Di nuovo. I cultori della materia ricorderanno la crisi bancaria svedese degli anni ’90.
Fin qui, i vichinghi sembrano la bella copia dei baltici.
Molto di questo stato di grazia, paradossalmente, la regione nordica lo deve proprio alla crisi bancaria del ’90, che servì loro di lezione. Superata la crisi, a caro prezzo, i nordici, chiamiamoli così, riportarono la normalità nella gestione fiscale che ha consentito loro di superare la tregenda del 2009 (la Finlandia perse il 9% di Pil, per dire) senza che venisse scalfita la loro nomea di “safe heaven”. E ciò pure a fronte di uno dei welfare più costosi della storia, grazie soprattutto a un livello di incassi fiscali vicino al 60% del Pil.
Così tanto stato sociale – ecco che riecheggia l’utopia sovietica – e insieme così tanto capitalismo, come nella dirimpettaia Gran Bretagna.
Questo strano ibrido economico ha fatto scuola e da sempre suscita una ragionevole invidia nelle altre società europee. Ma il segreto del successo della regione nordica contiene anche i rischi che si vanno rannuvolando sopra la penisola.
Essendo un’economia molto aperta, l’Europa vichinga ha tessuto profondi link non solo con le regione vicine, a cominciare da quelle baltiche, ma con tutto il globo. La somma di import ed export, per le quattro nazioni, oscilla fra il 62 e il 70% del Pil, e poi ci sono le connessioni finanziarie, quelle che preoccupano di più.
Oltre a condividere strettissimi legami morganatici fra loro, i Nordic 4 sono l’interfaccia finanziaria dei paesi baltici, sia per gli investimenti di portafoglio che per quelli diretti, e quindi i propalatori di un contagio che, da questi ultimi, può facilmente diffondersi.
Un pregevole box del Fmi disegna la ragnatela che oppone i vichinghi al resto del mondo, tessuto col filo degli investimenti diretti, di portafoglio e dei flussi commerciali. L’analisi del fondo rileva che i paesi nordici sarebbero fra i primi a subire gli effetti di uno shock che dovesse colpire i loro partner. Questi ultimi sono diversi. La ragnatela scandinava arriva dappertutto, di qua e di là dall’oceano.
Sul versante bancario, invece, gli shock partirebbero dai paesi verso i quali i nordici sono più esposti, quindi innanzitutto i paesi baltici. Ed è proprio la rilevanza degli asset bancari, che arrivano a superare il 400% del Pil in Danimarca, e i profondi intrecci che le banche dei Nordic 4 condividono la principale fonte di rischio.
E questo non dipende soltanto dal fatto che le banche scandinave siano generose prestatrici estere. Ma anche dalla circostanza che prestino parecchio anche a casa propria.
Tanta generosità, di conseguenza, ha creato un doppio rischio per il sistema scandinavo: quello di shock importati dall’estero, a causa di problemi nei paesi debitori, e shock generati dall’interno che a loro volta potrebbero comunicarsi ai paesi debitori.
“Il grande sistema bancario nordico – osserva il Fondo – supporta un livello relativamente elevato di debito privato”. Sempre in Danimarca, infatti, il livello di debiti sul reddito delle famiglie sfiora il 300%, in pratica il doppio degli altri paesi Ocse, mentre per le imprese la palma delle più indebitate spetta a quelle svedesi, che a fine 2011 quotavano debiti totali pari a circa il 150% del Pil. Sempre per la cronaca, vale la pena rilevare che i debiti delle famiglie sul reddito sono aumentati del 60% fra il 2000 e il 2011. Nessuno, nemmeno i nordici , è sfuggito alla bengodi del credito di inizio secolo.
Questa consuetudine, di avere bilanci privati carichi di debiti, è un’altra costituente del modello scandinavo, dove le famiglie in particolare (ma anche le imprese) condividono una rilevante ricchezza patrimoniale, rappresentata dal mattone o dai fondi pensione, che però è poco liquida e quindi soggetta agli stress da valutazione.
La grande paura, anche questa comune ai Nordic 4, è quella di un calo delle quotazioni immobiliari che possa accelerare il de-leveraging bancario e mettere sotto pressione le banche. Rischio tutt’altro che peregrino, visto che nella regione, in media, i prezzi delle case sono cresciuti di più del 120% fra il 1995 e il 2007. Dopo la crisi i prezzi hanno continuato a salire in Norvegia (+10%), mentre sono crollati del 30% in Danimarca. Al contrario sono rimasti stabili in Finlandia e Svezia.
Quindi è comprensibile perché “lo sviluppo dei prezzi delle case pone un rischio sulla stabilità macroeconomica, in un contesto di bilanci delle famiglie sotto pressione”. Le stime del Fmi, infatti, “suggeriscono che i prezzi delle case nei Nordic 4 siano sopravvalutati”, anche se in maniera disomogenea. Vale la pena ricordare che un calo di valore del mattone ha effetti su vari settori: dal consumi privato agli investimenti, che necessariamente ne risentirebbero, lato fiscale (meno incassi per il governo collegati al mattone) e infine sulla capacità di prestit delle banche.
Tanto teme quest’eventualità, il Fmi, che ha anche condotto delle stime, secondo le quali un calo dei prezzi degli immobili del 10% avrebbe come conseguenza una diminuzione del Pil aggregato fino al 2,5% in Danimarca, con gli investimenti residenziali privati a picco, in Svezia, del 28,5%.
Questo è forse il modo più semplice a cagione del quale l’artiglio scandinavo incardinato sui paesi baltici, qualora subisse uno shock, può facilmente affondare l’Europa.
Ma non è certo l’unico.
Ho già detto dell’ampiezza del sistema bancario nordico. Ebbene: a tale ampiezza corrisponde una notevole fame di finanziamenti che, in gran parte non arrivano dai depositi, ma dal mercato. Il Loan-to-deposit ratio, ossia il rapporto fra i prestiti e i depositi, supera il 200% in molte banche nordiche, che ritroviamo anche fra le top 20 nella classifica di questo indicatore. “Come ha dimostrato la crisi del 2008 – nota il Fmi – questa alta dipendenza dal mercato dei capitali ha aumentato la vulnerabilità del sistema bancario nordico agli shock da liquidità e di finanziamento”.
Ricapitolo: le banche nordiche sono al centro di una ragnatela di prestiti, interna e internazionale, che trova nei rischi del mercato immobiliare dell’area e nel pesante indebitamento privato, nonché nella sua stessa dimensione il fattore potenzialmente destabilizzante dell’economia regionale.
Fra i rischi “interni” a questo sistema bancario, merita una menzione quello inerente al largo utilizzo di covered bond, tramite i quali le banche nordiche attingono al mercato dei capitali (wholesale funding) emettendo obbligazioni in valuta nazionale ed estera. Le sei banche più grandi della regione avevano emesso 460 miliardi di covered bond a fine 2012, ossia il 70% del totale emesso nella regione e il 33% del totale dei convered bond emessi nel mondo.
Arma a doppio taglio, i covered bond, in quanto asset assicurati, visto che finiscono col ridurre, in caso di risoluzione bancaria, i fondi a disposizione per i bail in, oltre che generare un sovrappiù di costi per le banche che non li usano.
Tutto ciò viene complicato dal fatto che le banche nordiche sono profondamente interrelate fra loro. Il Fondo calcola che l’85% del totale delle esposizioni bancarie e dei depositi sono originati all’interno dei Nordic 4, così’ come il 75% dei bondo sovrani detenuti da queste banche sono di questi paesi.
Questo operare “più come banche regionali che come banche nazionali”, che individua meglio di ogni altra retorica l’artiglio vichingo, porta con sé una rilevante concentrazione di rischi. Basta un semplice dato per capirlo: quattro delle sei banche principali dell’area sono svedesi, e detengono asset pari al 120% del Pil dell’intera regione. Quindi un problema svedese ci mette pochissimo a diventare un problema nordico tout court, come peraltro è già accaduto negli anni ’90. Per questo il Fondo suggerisce di accumulare buffer fiscali comuni, da una parte, e di creare un sistema regionale di risoluzione bancario comune.
In sostanza il Fondo suggerisce di creare una base fiscale comune, se non formale almeno lato risorse, e una unione bancaria per limitare i rischi. Anzi, mentre che c’è definisce la recente Unione bancaria dell’eurozona “un’opportunità”. Che detto a paesi che condividevano un’unione monetaria fino a cent’anni fa individua l’Europa nordica/baltica come l’ennesimo esempio non riuscito di integrazione istituzionale sovranazionale.
Se neanche paesi che condividono così tanto in economia, dal sistema bancario, ai debiti, ai mercati immobiliari, e persino alle controparti estere, non si sono convinte a integrarsi in un’area comune, come può riuscirci l’eurozona?
Mi sorge il sospetto che tutti noi siamo vittime di un ricordo, che poi è diventato sogno.
Il sogno europeo.
Ovvero l’eredità dei nipotini di Carlomagno.
(4/segue)
Leggi la prima puntata Leggi la seconda puntata Leggi la terza puntata Leggi ultima puntata
Lo spettro della crisi bancaria che aleggia sulla terra dei vichinghi
Nei primi anni ’90, quando le crisi bancarie in Europa non erano alla moda come ai giorni nostri, le cronache registrarono con sorpresa e sgomento il crack bancario che colpì la Svezia. Uno dei paesi più in salute dell’area, finì in un vortice deflazionario che mise a dura prova tutto il sistema, costringendo il governo a farsi carico di un salvataggio che si stima sia stato superiore al 3,6% del Pil.
Nel 1993 il deficit/Pil dello Stato schizzò al 12%. Il Pil si contrasse, fra il 1991 e il 1993, del 2% l’anno, i consumi privati dell’1,6% e gli investimenti del 12%. Il prezzo più caro lo pagò il mercato immobiliare, che sempre fra il 1991 e il 1993 crollò del 26,5% l’anno.
D’altronde il mattone era stato, come al solito viene da dire, il grande protagonista del boom svedese degli anni ’80.
Cos’era successo? Anche la Svezia, come gran parte del mondo occidentale, era stata investita dalla pressante ondata di liberalizzazioni del sistema finanziario partita dagli Stati Uniti. Le banche svedesi, fino ad allora pesantemente represse, sperimentarono l’euforia del credito facile a basso costo. Iniziarono a prestare senza freni, indebitandosi anche parecchio, specie all’estero, per saziare la fame di denaro della società. E quando gli svedesi non bastarono più, cominciarono a prestare anche all’estero.
Qualche numero aiuterà a capire la dimensione del fenomeno. Fra il 1985 e il 1990, il mattone crebbe del 18,2% medio l’anno, grazie anche alla disponibilità della banche a prestare fino al 100% del valore dell’immobile. I titoli azionari crebbero di valore per circa il 17% medio l’anno. I debiti delle famiglie e delle imprese aumentarono esponenzialmente, trainati dall’illusione che i prezzi degli asset sarebbero saliti in eterno.
Sempre la solita storia di boom and bust.
La bonanza finì fra il 1989 e il 1990. Anche stavolta, a innescare lo sgonfiamento della bolla fu una banca centrale, la Bundesbank, che decise di alzare i tassi per finanziare la riunificazione tedesca, provocando il terremoto dello Sme e la successiva uscita della Svezia (nel ’92), dopo che la banca centrale aveva provato a frenare il crollo della propria valuta alzando a sua volta i tassi, arrivati fino al 9%.
Dopo l’uscita dallo Sme, la corona svedese subì una pesante svalutazione che ebbe effetti devastanti sul debito estero degli svedesi. La bolla si sgonfiò ed esplosero le sofferenza bancarie, costringendo lo stato al salvataggio.
Il resto è storia.
La crisi fu superata e si trasformò in uno spettro che ogni tanto fa capolino nei peggiori sogni degli svedesi.
Senonché oggi questo spettro ha guadagnato consistenza.
Se confrontiamo i numeri di ieri con quelli oggi, rilasciati dal recente Staff report del Fondo Monetario, le similarità sono allarmanti.
Cominciamo dal mattone. Già l’Ocse ha rilevato che la Svezia si trova in una situazione immobiliare di prezzi sopravvalutati e in crescita. Situazione molto rischiosa.
Il Fmi fa un passo avanti. Secondo le sue stime, l’immobiliare svedese è sopravvalutato di almeno il 15%, con i prezzi che sono più che raddoppiati dalla metà degli anni ’90: addirittura sono aumentati in termini reali di circa il 140% fra il 1995 e il 2007 e da allora sono rimasti stabili.
Una delle cause di questo boom è stato il blocco del settore delle costruzioni, che negli anni ’80 era stato uno dei grandi protagonisti dell’espansione degli investimenti, e che invece appare ancora sotto lo shock. L’offerta di nuova costruzioni non arriva neanche alla metà di quella dei tempi d’oro.
I costruttori, evidentemente, sognano lo spettro più spesso degli altri.
Un grafico mostra in effetti che le nuove costruzioni sono stagnanti, e ciò, a fronte di una domanda sostenuta, ha fatto risalire i prezzi senza sosta.
Questo per quelli che il passato non influenza il presente.
Come se non bastasse, le banche sono tornate alla grande a concedere mutui. Non più fino al 100%, come ai vecchi tempi, ma fino all’85%. Con la conseguenza che i debiti delle famiglie, in rapporto al reddito, sono schizzati al 180% del reddito disponibile.
A fine anni ’80, quando le famiglie erano pesantemente indebitate, tale percentuale non aveva raggiunto neanche il 140%.
Per trovare di che prestare, le banche svedesi son tornate a chiedere denaro all’estero, con il risultato che i fondi all’ingresso denominati in valuta straniera sfiorano il 60% del Pil, a fronte del 15% circa di fine anni ’90. Un livello mai raggiunto neanche a fine anni ’80. Con l’aggravante che tali prestiti sono spesso a breve termine e in dollari.
Tanta opulenza ha fatto gonfiare gli asset bancari, arrivati al 400% del Pil, uno dei livelli più alti al mondo il relazione alla dimensione dell’economia, l’85% dei quali concentrati in quattro banche. Buona parte di tali asset (150% del Pil) sono allocati all’estero e ciò fa della Svezia il secondo paese al mondo, dopo la Svizzera (260%) per asset esteri. Il 56% di tali asset sono nei paesi dell’area nordica.
Tutto questo fiume di denaro, come accadde all’epoca della crisi, ha avuto effetti esplosivi anche sul mercato azionario svedese cresciuto persino più del’immobiliare. Fatto 100 il livello dei titoli azionari nel 2004, a fine 2012 l’indice segnava una crescita del 75%.
Tutto questo ha avuto i prevedibili effetti benefici sul Pil, trainato in gran parte dai consumi privati, cresciuti di quasi il 2% nel 2012 (come a fine anni ’80) e dall’export.
Il saldo del conto corrente, infatti, è abbondantemente positivo. Il che implica che quello del conto finanziario sia negativo. La Svezia, infatti, è tornata di nuovo ad essere una grande esportatrice di capitali, esattamente come a fine anni ’80. Con la differenza, rispetto ad allora, che gran parte di questi prestiti sono finiti concentrati negli altri paesi dell’area nordica e in piccola parte del Baltico (circa il 4% del totale dei prestiti).
Tale dinamica è chiaramente rappresentata sul conto finanziario della bilancia dei pagamenti. Nel 2012 gli asset esteri della Svezia ammontavano a 373 miliardi di corone e il saldo finanziario era negativo per 106 miliardi. Mentre sul lato redditi delle partite correnti si sono registrati ricavi netti per 80 miliardi di corone.
Per adesso l’estero ripaga.
Ma se smettesse?
Il fatto che la Svezia non abbia nulla da temere dai Pigs, non vuol dire che non ne abbia da altri. Ognuno, evidentemente, ha i Pigs che si merita.
Nel suo caso a spaventare gli analisti sono le sorti della Danimarca, della Finlandia e della Norvegia. Tutti paesi con buoni fondamentali, per carità. E tuttavia non così buoni. La Norvegia, stima il Fmi, ha un mercato immobiliare sopravvalutato di almeno il 40%. E in Danimarca le famiglie hanno raggiunto il 300% di debiti sul reddito disponibile.
Non è così remota la possibilità che si possa innescare una contrazione. E basterrebbe un default di magnitudine 10, ossia che riguardasse appena il 10% degli asset esteri in questi tre paesi, per provocare, secondo una simulazione del Fmi, un deleveraging di 57,2 punti. Vuol dire che le banche svedesi dovrebbero vendere asset fino a questo livello per mantenere il coefficiente Tier 1 al 10%. E vendere significa far crollare i prezzi. Ciò potrebbe provocare perdite per le banche fino all’8,1% del Pil.
La domanda che però inquieta gli analisti è un’altra: cosa succederebbe se improvvisamente il mercato immobiliare collassasse? L’imminenza delle azioni di rientro dalle varie exit strategy e la crisi dell’eurozona ancora in corso, rendono tale domanda talmente pressante che gli esperti si sono affrettati a fare una simulazione.
La crescita dei prezzi immobiliari è stato un altro fattore comune delle economie nordiche, con la Finlandia prima della lista, L’indice dei prezzi finlandesi, che quotava 100 a fine anni ’90, ora ha superato 200. Così come è un altro fattore comune l’alto livello di indebitamento delle famiglie, con la Danimarca in testa, come abbiamo visto.
In questa situazione, prezzi sopravvalutati e debiti elevati, l’esplosione di una bolla è un evento assai più che probabile.
Un’altra simulazione illustra bene cosa accadrebbe in tal caso. Un declino del 10% dei prezzi del mattone potrebbe condurre alla perdita di 2,5 punti di Pil per la Danimarca, 1,9 per la Finlandia e 1,2% per la Svezia.
Poi ci sarebbero gli effetti su famiglie, banche e imprese. e anche qui ci viene in aiuto la storia. Sebbene oggi le autorità dicano che le banche svedesi hanno capienza sufficiente ad assorbire una crisi dei corsi immobiliari, l’estensione e interrelazione del sistema bancario svedese con gli altri paesi del nord fa temere l’insorgere di una pesante crisi regionale. Lo stesso fondo individua potenziali costi fiscali per eventuali salvataggi per svariati punti di Pil.
Peggio della crisi degli anni ’90.
Tutte queste simulazioni, al di là della loro attendibilità, significano solo una cosa: i vichinghi sono finiti nell’occhio del ciclone.
Il fantasma cominciano a vederlo in tanti.
