La retromarcia del commercio internazionale
In quest’aria da anni ’30 che si respira in ogni dove, dai discorsi dei politici alle fantasia di certi economisti, scoprire che il commercio internazionale va peggio di quanto si pensasse – che comunque non era granché – aggiunge solo l’ultimo tocco di colore allo spirito del tempo. Oggi come allora, si è indebolita la filigrana che legava gli uni agli altri i paesi del mondo del mondo, della quale il commercio internazionale altro non è che la cartina tornasole, la prova provata degli interessi internazionali che negli scambi trovano la loro ragion d’essere e il loro essere.
Osservare questa filigrana sbiadire conferma solo il fatto che i paesi stanno sempre più subendo la seduzione di fare ognuno per sé, dimenticando la terribile lezione di ottant’anni fa, che sul miraggio dell’autarchia costruì economie chiuse che finirono con l’inimicarsi l’un l’altra. Oggi la seduzione del recinto confortevole – ma poi lo sarà davvero? – alimentata dalle pressioni migratorie e dall’astenia economica ha ripreso piede e sarà interessante vedere cosa deciderà il popolo americano a novembre, quando dovrà decidere il nuovo presidente. La storia ci ricorda che, sempre nei nefasti Trenta, le decisioni americane ebbero un peso notevole nell’evoluzione – o meglio involuzione – del commercio internazionale. E poiché la storia non si ripete, ma si somiglia, sarà interessante osservare quanto somiglierà al passato.
Nel frattempo contentiamoci di leggere i dati raccolti dal Banca d’Italia e pubblicati nella sua ultima relazione annuale. “Il commercio mondiale di beni e servizi nel 2015 – scrive – si è espanso a un ritmo inferiore al 3%, circa un punto in meno rispetto alle previsioni formulate all’inizio dell’anno dalle istituzioni internazionali”. A invertire la tendenza ribassista non è bastata l’accelerazione degli scambi che si è registrata nell’area euro e negli Usa, a conferma del fatto che la spinta delle economie emergenti allo sviluppo degli scambi internazionali rimane l’autentica variabile strategica iin questo inizio di secolo. Il “netto ridimensionamento dell’interscambio cinese” ha pesato parecchio, e “l’indebolimento del commercio mondiale è proseguito nei primi mesi del 2016”.
La Cina, quindi. I grafici prodotti da Bankitalia certificano un’evidenza che ha il sapore della storia. “In Cina – osserva infatti – per la prima volta dalla fine degli anni ottanta del secolo scorso, le importazioni di beni sono scese in volume (-0,7 per cento nel 2015) a causa del rallentamento dell’economia e della minore domanda di semilavorati destinati alla produzione per i mercati esteri”. Sorte peggiore hanno avuto le esportazioni, calate del 2,2%, “penalizzate dalla perdita di competitività connessa sia con l’apprezzamento del cambio in termini effettivi nominali, sia con l’esaurirsi della capacità di penetrazione nei settori tradizionali e nelle economie avanzate”.
Il risultato di questi movimenti è stato che la crescita delle importazioni mondiali si è allineata a quelle del Pil, a fronte di valori storici nell’ordine di 1,5 fra gli anni 1976-2011. A contrastare questa tendenza dovrebbero servire le iniziative di liberalizzazioni degli scambi, che però hanno per lo più carattere regionale. I vari trattati, che così tante resistenze hanno provocato nelle opinioni pubbliche interessate, dovrebbero essere la panacea di questo mal di scambio che affligge il mondo. Ma pochi scommettono sul loro successo. L’anno scorso inoltre Stati Uniti, Cina e Ue hanno aderito al Trade Facilicitation Agreement promosso dal WTO che si propone di ridurre gli oneri amministrativi connessi agli scambi. L’auspicio è che da lì provenga una spinta al commercio. Ma si sa, chi campa di speranza…