I mille volti della frammentazione globale

Le parole hanno peso, oltre che significato. E questo peso connota lo spirito di un tempo che finisce col formare il nostro. Perciò è molto interessante osservare – il grafico che apre questo post ne è l’esito – come l’uso (e l’abuso) che tutti noi facciamo di alcuni termini, nel nostro quotidiano discorrere (deglobalization, reshoring, onshoring, nearshoring, friend-shoring, localization, regionalization), abbia finito con l’esasperare la tendenza alla frammentazione che ormai affligge la nostra società globale.

Quanto questa tendenza sia un frutto di percezione, come gran parte di ciò che anima il nostro discorrere, o sia un fatto reale (ammesso che realtà e percezione siano cose diverse) è discorso che ci porterebbe troppo lontano e che certo non può essere contenuto nella spazio limitato di questa pagina. Ci basti sapere che una fiorente letteratura economica si sta occupando di provare a quantificare il costo di questa frammentazione negli scambi internazionali di beni e servizi, collocandola in un range che va dallo 0,2 al 12 per cento del Pil, a seconda dello scenario considerato. Giudicate voi se queste simulazioni sono utili.

Il grafico sopra è stato pubblicato nell’ultimo World outlook del FMI, che evidente prende questo indice molto seriamente, per discorrere dei rischio che la frammentazione può generare nel mercato delle commodity, uno di più delicati del nostro ordine globale, come ci ricorda la rinnovata “paura” energetica seguita all’esplosione del conflitto in Medio Oriente.

L’analisi del Fmi riguarda 48 commodity, sia energetiche che agricole, e formalizza uno scenario nel quale il sistema degli scambi fra due blocchi antagonisti venga continuamente frammentato. I due blocchi sono quelli costruiti usando come base teorica il voto all’Onu sulla guerra in Ucraina. Altri scenari, più miti, vengono ovviamente contemplati.

Senza bisogno di farla troppo lunga, è sufficiente arrivare subito al punto. Anzi, ai punti. Il primo: “Le commodity sono molto vulnerabili a scenari di frammentazione. Come esempio viene ricordata la circostanza che i tre maggiori fornitori di minerali pesano circa il 70 per cento della produzione complessiva.

Il secondo punto è che “c’è una crescente frammentazione nel mercato delle commodity”, nella forma di crescenti restrizioni al commercio di questi beni. Le parole pesano, appunto, e sono insieme causa ed effetto. Queste restrizioni erano in aumento anche prima del conflitto ucraino.

Il terzo punto, che ci tocca molto da vicino, è che “la frammentazione può causare grandi cambiamenti di prezzo”. Ed ecco che torna a galla il collegamento che avevamo già intravisto fra inflazione e de-globalizzazione, che ha come coda anche “una maggiore volatilità di prezzo”. A sua volta la volatilità fa impazzire le aspettative, ed ecco l’inflazione che si avvita su se stessa.

Non finisce qui, ovviamente. I paesi che vivono grazie all’esportazione di commodity hanno tutto da perderci, dalla frammentazione. Se poi guardiamo ai minerali strategici per la transizione energetica, rendere gli scambi più complicati la rende ovviamente più costosa.

Chiunque abbia orecchie per intendere, insomma, dovrebbe aver compreso che le mille vie attraverso le quali la frammentazione può agire conducono tutti alla stessa destinazione: un danno permanente al benessere. Incredibilmente, continuiamo a parlarne. E quel che è peggio, (non) agiamo di conseguenza.

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