Fra il dire e il rilocalizzare c’è di mezzo il commercio mondiale

Il grafico che apre questo post ci racconta dell’aumento di frequenza nell’uso dei termini che hanno a che fare con la rilocalizzazione produttiva (reshoring, nearshoring e altre amenità) usati dalle imprese di recente nelle loro comunicazioni. Ciò a dimostrazione del fatto che se ne parla sempre più spesso. Ma questo non vuol dire che poi si faccia. Non ancora almeno. Fra il dire è il fare, infatti, oltre al classico mare del proverbio, in questo caso c’è un robusto flusso di commercio mondiale che solo di recente inizia a mostrare segnali di stabilizzazione e che certo nessuno ha voglia di terremotare per una questione di principio.

I flussi commerciali internazionali, misura molto indicativa della globalizzazione, si stanno infatti riportando sia pure con una certa fatica, anche a causa dell’aumento delle restrizioni e dei contesti politici sempre più avversi, verso le tendenze storiche e le proiezioni svolte dagli esperti della Bce, dal cui ultimo Bollettino sono stati estratti i grafici, “prevedono una graduale ripresa della crescita del commercio
mondiale (esclusa l’area dell’euro) al 3,0 per cento nel 2024 (in aumento rispetto all’1,1 per cento del 2023), sostanzialmente in linea con l’elasticità unitaria a lungo termine del commercio mondiale rispetto al PIL mondiale”.

Quest’ondata di ottimismo, chiamiamola così, lascia intravedere che quest’anno arriveremo finalmente a una sorta di normalizzazione delle tendenze, dopo gli shock, diversi e profondi, che ci ha inflitto la pandemia, che hanno prodotto una sorta di infarto nei sistemi produttivi, e quindi negli scambi, globali.

Il risultato di tanti terremoti è stato il sostanziale schiacciamento degli scambi internazionali l’anno scorso. Un po’ come dopo un terremoto, la superficie economica del pianeta si è assestata. E questo assestamento ha avuto l’effetto di un notevole rallentamento.

In questo contesto, ancora fragile e per giunta minacciato da correnti avverse che complottano sotto la superficie delle cose, ha preso piede il dibattito, per adesso ancora molto più teorico che pratico, sulla rilocalizzazione produttiva, che sicuramente ci farà compagnia a lungo specie se dalle elezioni americane dovesse venire fuori un presidente poco amichevole nei confronti di Pechino e quindi delle passate relazioni commerciali.

In questo caso la sottile lastra di stabilità che si è formata in superficie, e che ci consente di pattinare a velocità più sostenuta verso i tassi di crescita previsti potrebbe facilmente incrinarsi, con tutte le conseguenze del caso.

Una catena produttiva non si cambia a chiacchiere: servono tempo e molti investimenti. Perciò gli alfieri della rilocalizzazione dovrebbero anche dirci, quando ne tessono le lodi, che ciò in prima battuta significa diminuire gli scambi. Nessun pasto è gratis, insomma. Specie quando viene dall’estero.

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.