Nella globalizzazione che cambia, fra i due litiganti i terzi godono

Chi dubitasse della saggezza dei proverbi, dovrebbe leggere l’interessante discorso che Gita Gopinath, vice direttore del Fmi, ha presentato lo scorso 7 maggio allo Stanford Institute for Economic Policy Research, nell’ambito di una serie di incontri dedicati alla discussione sul futuro del sistema monetario internazionale. Piatto ricco, quindi. Nel quale è assolutamente consigliato ficcarsi – sempre a proposito di proverbi – perché se ne trae un ottimo nutrimento intellettuale, oltre ad aggiornare i dati e le tendenze recenti della globalizzazione.

Il titolo dell’intervento è infatti “Geopolitics and its Impact on Global Trade and the Dollar”, in pratica l’universo mondo, col vantaggio di essere contenuto in una dozzina di pagine con molte figure. L’ideale per un mondo sempre meno alfabeta.

Fra queste figure ho scelto quella che apre questo post perché conferma, appunto, un vecchio proverbio che vale da sempre e quindi anche oggi: fra i due litiganti il terzo gode. Nella sua versione aggiornata dovremmo parlare di terzi più che di terzo, ma il principio rimane lo stesso.

Fuor di metafora, il Fmi osserva che il peggioramento delle relazioni fra Cina e Usa ha finito con l’avvantaggiare alcuni paesi – e fra questi si segnala il Messico – verso i quali all’aumento della quota di importazioni dagli Stati Uniti ha corrisposto da un lato l’aumento di importazioni dalla Cina e l’aumento di investimenti esteri cinesi sul loro territorio.

Diciamolo meglio. Questi paesi “connettori”, come li chiama il Fmi, hanno venduto più merci negli Usa, ma ne hanno comprato di più dai cinesi, che hanno spostato anche investimenti diretti su di loro. Questa interessante tipologia di scambi può assumere diverse forme. Esempio: la Cina apre in Messico una fabbrica di semilavorati per automobili che alimenta con materie prime importate dalla Cina e che vengono esportati negli Usa. In sostanza questi paesi fanno il lavoro che prima facevano i cinesi per gli americani.

Questa interposizione ovviamente allunga la catena di fornitura e quindi tende ad aumentare i costi, e chissà quanto migliora la produttività. Sicuramente i paesi connettori ci guadagnano, e i politici che promuovono questi processi possono dire che adesso fanno near-shoring, ossia si approvvigionano da paesi “amici”.

Si tratta, insomma, di un espediente intelligente per alzare la voce senza farsi troppo male. Ma rimane da vedere se basterà a garantire quell’ordinato movimento di scambi che serve a mantenere in piedi il commercio internazionale. Che il tempo volga al brutto è noto a tutti, e basta vedere l’aggiornamento del numero di restrizioni che i vari paesi impongono agli scambi globali.

Non bisogna spaventarsi troppo: la globalizzazione trova sempre le strade dove rivolgersi, come dimostra il piccolo esempio dei terzi che godono fra i due litiganti. Anche perché queste osservazioni devono essere condotte sul lungo periodo, per capire quanto siano profonde. E al momento la storia tifa per la globalizzazione, non il contrario.

Questo non vuol dire che vada tutto bene. Ma che può andare molto peggio. E quanto pare stiamo facendo del nostro meglio per provarlo.

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