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La crisi capovolta nel mondo sottosopra

Nel mondo sottosopra, come chiamano gli australiani il loro meraviglioso territorio, succede che il deficit di conto corrente sia una cosa buona e che il debito pubblico, pur quintuplicandosi, rimanga a tripla A e a rendimenti decrescenti.

Succede pure, nel mondo capovolto, come vediamo noi l’Australia, che una posizione netta degli investimenti fortemente negativa faccia intanto apprezzare il cambio, e che tutto questo combinarsi numerario origini la percezione, fra i tanti investitori, di trovarsi di fronte a uno degli ultimi paradisi sicuri, dove allocare fiumi di denaro che le accoglienti imprese australiane premiano con buoni rendimenti.

Così infine la crisi, nel mondo down under diventa veramente un’opportunità.

Questo pensiero, forse un po’ idilliaco, mi ha accompagnato lungo tutta la lettura del lungo intervento di Guy Debelle, assistant governor della Reserve Bank of Australia del 20 maggio scorso intitolato “Capital flows and the australian dollar”. Roba da secchioni, mi rendo conto, che però mi sono convinto a leggere perché dopo un lungo avventurarmi in Europa non ne potevo più della commedia dell’euro e della tragedia dell’eurozona.

Meglio occuparsi del mondo dei canguri, che peraltro è un bellissimo mondo, almeno stando a come la racconta il nostro banchiere centrale, la cui narrazione conferma, qualora ce ne fosse bisogno, che non è la teoria a fare l’economia, ma la sua applicazione pratica.

L’Australia, spiega il nostro banchiere, è stata sempre destinataria di afflussi netti di capitale dall’estero per quasi tutta la sua storia. Una storia coloniale, è bene ricordarlo, con l’Australia a fare da provider di materie prime per l’Inghilterra essendo parte costituente dell’ancora vigente Commonwealth.

Come tutti i paesi emergenti, ieri come oggi, l’Australia importa capitali ed esporta merci, oltre che sostanziose rendite che una volta arricchivano i redditieri della City e adesso anche qualche magnate americano, giapponese o cinese.

Per finanziare il proprio deficit fra risparmio interno (d’altronde gli australiani sono un terzo degli italiani) e il proprio livello di investimenti i nostri cugini del mondo sottosopra hanno dovuto massicciamente importare capitali dall’estero. Tali afflussi, per dirla con le parole di Debelle, “sono la controparte finanziaria del deficit di conto corrente australiano”. Che però, nel caso in ispecie “è una cosa buona, non cattiva”.

Ciò in quanto i flussi transfrontalieri, attratti dal buon rapporto rischio/rendimento spuntabile in Australia ha aiutato i residenti a sviluppare una capacità produttiva che altrimenti non avrebbero potuto sviluppare. “Più di recente ciò è stato particolarmente evidente osservando il ruolo degli investimenti esteri per incontrare la domanda crescente di materie prime, specialmente dalla Cina”.

La crisi, tuttavia, ha capovolto il mondo sottosopra. O, per dirla in maniera più elegante, le componenti della bilancia dei pagamenti che compongono gli afflussi lordi di capitali esteri, sono mutati dal 2007 in poi.

Nel decennio precedente al 2007 gli affussi netti di capitale in Australia quotavano circa il 5% del Pil (che era, a valore nominale, di circa 1.620 miliardi di dollari americani a fine 2013), con un picco del 7% prima del grande crash. Dopo la crisi gli afflussi netti si sono sensibilmente ridotti sotto il 3%. Il che in un paese “normale” poteva essere fonte di gravi squilibri. Ma non nel mondo sottosopra.

Quello che ha provocato, in Australia, questo repentino dimagrimento delle risorse estere, è che i finanziamenti alle banche locali, che quotavano un rispettabile 5,5% del Pil, sono diventati negativi. Al contrario sono cresciuti notevolmente gli afflussi di investimenti diretti e, per la prima volta, gli acquisti di titoli di debito pubblico australiano.

In sostanza, gli investitori sono fuggiti dalle banche, che nel turmoil post 2007 sono state l’epicentro del panico, in Australia come altrove, e si sono concentrati su investimenti tangibili, come quelli collegati al redditizio settore degli investimenti diretti, e ai titoli di stato, forti di un’invidiabile tripla A e soprattutto di una robusta posizione fiscale.

Se guardiamo ai singoli settori, notiamo che gli afflussi netti al settore privato sono passati dal 5% medio del Pil fra il 1998 e il 2007, all’1,7% del periodo 2008-2013. La fuga dalla finanza ha fortemente penalizzato le banche, passate da un +5,4% medio a un -2%, mentre sono cresciuti i prestiti alle imprese non finanziarie, più che raddoppiati dall’1,6% medio del Pil al 3,8%. I prestiti al settore industriale collegato alle risorse naturali, poi, prima inesistenti, sono cresciuti, fra il 2008 e il 2013, dell’1,6% del Pil. Dal 2011 in poi, gli afflussi a questo settore hanno pesato circa il 70% degli investimenti diretti in Australia.

Il settore pubblico che registrava deflussi netti pari allo 0,1% del Pil nel decennio ante-crisi, ha visto afflussi netti pari al 2,1% del Pil fra il 2008 e il 2013. Se proprio dovevano comprare carta, insomma, i prestatori hanno comprato quella pubblica. Il credito alle imprese australiane, di conseguenza, pure se in ragione ridotta, è stato fornito dai prestatori esteri assai più che dalle banche australiane, che  hanno dovuto rivedere tutta la loro strategia di funding per pareggiare senza squilibri gli sconquassi post crisi.

Lo stesso ha fatto lo stato.

Nel 2007 il debito pubblico lordo quotava circa 58 miliardi di dollari australiani. La crisi (degli altri) l’ha portato a oltre 250 nel 2013, dovendosi far carico il governo di potenti politiche di stimolo nel periodo buio della Grande Recessione. Le emissioni quintuplicate di Commonwealth Government securities (CGS) ha portato la quota di stock di questo debito pubblico in mano agli stranieri da poco meno del 50% del 2000 al 70% del 2013.

Interessante la motivazione che da di questi afflussi il nostro banchiere, secondo il quale i bond pubblici australiani hanno finito col diventare appetibili per gli asset manager che gesticono riserve, fra le quali quelli delle banche centrali. Che il dollaro australiano sia diventato moneta di riserva è di sicuro un fatto degno di nota. Sarà probabilmente merito dei rendimenti di questi titoli, che rimangono alti rispetto agli altri assimilabili garantiti da altre economie a tripla A.

Se guardiamo l’effetto di questa storica ricomposizione dei debiti esteri australiani notiamo due cose: la prima è che, comunque, sono aumentati di qualche punto di Pil fra il 2007 e il 2013, sfiorando ormai il 160%, ma comunque meno degli asset, arrivati al 110% dei Pil nel 2013 da poco più del 100% del 2007. Il risultato è che la posizione netta è rimasta stabile intorno al 55%. Ciò significa che l’Australia è riuscita a navigare in maniera equilibrata l’onda lunga della crisi, durante la quale ha sofferto cospicui deflussi, senza peggiorare la sua sostenibilità estera e senza intaccare quella interna.

Il debito privato delle famiglie, infatti, è rimasto anch’esso stabile, mentre è dimagrito quello delle banche e aumentato quello del settore risorse naturale e dello stato, che evidentemente ha pagato il prezzo più alto, potendoselo però permettere, visto che partiva da un livello di debiti estremamente basso. Inoltre è diminuita la quota di passività a breve termine, mentre è aumentata quella a lungo.

La narrazione del nostro banchiere, perciò, somiglia a una storia di successo, che di questi tempi sembra tanto vera quanto incredibile.

“Il cambio nella composizione dello stock del debito estero – dice – ha avuto un notevole impatto sul deficit dei redditi, ossia la parte del conto corrente che misura il costo netto del servizio di questi debiti”. Malgrado lo stock di debiti sia aumentato, tale deficit “è diminuito fino al più basso livello, in rapporto al Pil da decenni”. Ciò in parte perché i rendimenti pagati sui titoli di stato sono più bassi di quelli pagati sulle obbligazioni bancarie, e perché i tassi, in generale, sono bassi in tutto il mondo. Scambiare debito bancario privato con debito pubblico, perciò, ha avuto anche questo vantaggio.

L’epopea della crisi capovolta, tuttavia, ha il suo lato oscuro, e non potrebbe essere diversamente.

“Sembra improbabile, almeno in termini di settore bancario, che il pattern dei flussi di capitale cambierà tanto presto”, spiega. Ciò significa che le banche difficilmente potranno emettere più debito di quanto facciano adesso. Ciò comporterà che il poco credito che riusciranno a concedere è prevedibile finisca ai settori industriali non legati alle risorse naturali,  che, al contrario, è prevedibile verranno sempre più finanziati dai capitali esteri.

Il settore in questione, peraltro, ha ormai superato la fase del boom degli investimenti ed è previsto entrerà presto nella fase della produzione, che poi è quella che genererà (o dovrebbe) i profitti per gli investitori.

“La combinazione di alti profitti e più basse spese per il capitale condurrà a un aumento della quota di questi profitti che dovranno essere pagati agli investitori”, osserva. E poiché il settore è largamente in mano agli stranieri, questo potrebbe essere accompagnato da un aumento del pagamento di dividendi a questi ultimi, e quindi generare deflussi netti sul conto redditi della bilancia dei pagamenti. Deflussi peraltro denominati in dollari americani, esattamente come i debiti esteri che li hanno originati. E quindi meno richiesta di dollari australiani: l’esatto opposto di quello che è successo negli ultimi cinque anni.

“Il risultato netto che possiamo aspettarci di vedere è una riduzione dei flussi di capitale e una ridotta domanda di dollari australiani, non appena il settore risorse entrerà nella fase di produzione”, conclude il nostro banchiere.

Lato debito estero pubblico, il banchiere nota che tale quota di debito “è storicamente ai suoi livelli più alti” e che gli acquirenti esteri di bond pubblici siano alquanto stanziali nelle loro decisioni di investimento. Quindi la previsione è che la domanda di bond statali rimanga robusta. Non a caso il parlamento australiano ha di recente rialzato il suo debt ceiling. Tanto più che ci sono tanti investitori giapponesi che si indebitano a tasso negativo e potrebbero trovare nella vicina Australia un’ottima occasione di rendimenti a basso rischio.

E tuttavia non basteranno i bond pubblici a salvare la domanda di asset australiani, e quindi dei dollari che li comprano. Esiste al contrario una concreta “possibilità di un declino del dollaro australiano”.

La svalutazione del dollaro australiano avrebbe conseguenze imprevedibili sul faticoso equilibrio raggiunto dai conti australiani. Dovendo pagare rendite all’estero, gran parte delle quali in valuta estera, ciò potrebbe mettere sotto pressione il conto corrente, mentre potrebbe generare una generale riprezzatura del premio sui bond pubblici capace di alterare lo squilibrio fiscale (deficit intorno al 3% del Pil, oggi).

Insomma, la fine della crisi nel mondo di sopra potrebbe segnare l’inizio della crisi in quello sottosopra.

O la fine della ripresa capovolota.

Fate voi.

 

 

Diplomazia dei prestiti esteri: L’impero di Nylonkong

Che si vada verso un Medievo di fatto, se non di diritto, è stata una felice intuizione del filosofo russo Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev, che ne discusse in un testo (“Nuovo Medioevo”) pubblicato nel lontano 1923 a Berlino, dove preconizzava la fine della modernità e l’inizio di un tempo dove “tutti gli aspetti della vita andranno a collocarsi sotto il segno della lotta religiosa, esprimeranno principi religiosi estremi”.

Uno di questi “principi religiosi estremi” è senza dubbio il denaro, che ha creato una diplomazia assai potente e parallela a quella che i giuristi chiamano global polity, ossia la congerie di organizzazioni, statali, sovrastatali e interstatali che regolano le sorti della globalizzazione, idea neo-medievale anch’essa, a ben vedere.

La diplomazia del denaro, che viene declinata con gli investimenti esteri, a cominciare da quelli di portafoglio, ci racconta in conclusione di un nuovo Impero assolutamente coerente con lo scenario del “Nuovo Medioevo”, che ovviamente ha anche una sua capitale: Nylonkong.

La scoperta di Nylonkong si deve ai redattori di Time, e risale al 2008. Coniarono questa fortunata crasi delle capitali dei tre continenti economici che costituiscono l’Impero: New York per gli Usa, Londra, per l’Eurasia occidentale, Hong Kong per l’Oriente, la migliore declinazione possibile della vecchia capitale d’Oriente, Costantinopoli. La lingua ufficiale dell’Impero, quindi, è l’inglese, anche se a Hong Kong (che comunque è un ex territorio britannico entrato nell’Impero inglese ai tempi della guerra dell’oppio) si parla il Mandarino. Il lavoro principale dell’Impero è muovere quantità incredibili di denaro che, come un ponte fatto d’oro, sovrasta e incanta l’Asia e il resto d’Europa, lasciandone tracce assai visibili nei paradisi fiscali più conosciuti.

Le Cayman, ad esempio, anche questo territorio inglese, tanto per cambiare, dove gli Usa, a metà 2013, avevano portato 870 miliardi di dollari di investimenti esteri di portafoglio, oltre dieci volte tanto rispetto ai 71 miliardi del 2001.

Non inganni la circostanza che Nylonkong sia tripartita. La connessione di interessi che lega le tre capitali è talmente fitta che non esagerato parlare di unità nella trinità. La città stato di Hong Kong, che evoca lontani tempi andati, declina il suo spirito in skyline simili allo stato-città di New York, con la vecchia Londra in mezzo, quasi fosse una stazione di servizio dove far ristorare gli inesausti spalloni internazionali. Sosta dalla quale trae notori benefici.

Anche qui, basta far parlare la statistica.

Se si somma il totale degli investimenti di portafoglio delle tre nazioni si superano i 12 trilioni di dollari, che come una morbida ragnatela, avvolgono l’Impero. Le tre città s’imprestano vicendevolmente, si prestano soccorso e condividono affari, costringendo il resto del mondo a mercanteggiare denaro secondo le loro regole. Non a caso le tre città hanno assunto lo status di principali centri finanziari del mondo, traendone ognuna l’evidente beneficio di un Pil pro capite elevatissimo, malgrado le numerose milioni di abitanti che esse ospitano.

Ma ancor più del dato aggregato, è l’esame dei flussi che ci racconta come il denaro spieghi la sua incredibile potenza nei vasti dominion imperiali.

Hong Kong, ad esempio, dedica oltre un terzo dei suoi investimenti di portafoglio, quasi mille miliardi di dollari (966, per la precisione) alla madrepatria cinese. Parliamo di oltre 300 miliardi, che è più di trenta volte di quanto fossero nel 2001. Da notare come tali investimenti siano raddoppiati dal 2009. Ma salta all’occhio come il paradiso fiscale dei cinesi, che il Fmi individua come una delle principali basi d’appoggio dello shadow banking cinese, non disdegni di localizzare 207 miliardi alle solite Cayman, dove evidentemente gli interessi cinesi e quelli americani s’incrociano amorevolmente sotto l’egida benedicente del capitale.

Ma ancora più degni di nota gli investimenti di Hong Kong in Australia, che dopo la madrepatria, le Cayman e il Lussemburgo (il nostro paradiso fiscale) si classifica in quarta posizione fra i luoghi di interesse degli investimenti della città-stato con una trentina di miliardi di dollari, persino più della Corea del Sud (17 miliardi).

Sarà merito della solidarietà anglofona, come lascia supporre anche il corposo flusso di investimento che l’Australia attrae dal Regno Unito  (94 miliardi) e, ovviamente, dagli Stati Uniti (336 miliardi).

Ciò spinge la longa manus dell’Impero fino all’estremo del Pacifico e ne sintetizza bene  la pervasività. L’Australia, dal canto suo, ricambia affettuosamente, visto che la gran parte dei suoi investimenti di portafoglio (536 miliardi) si distribuiscono fra Stati Uniti (per lo più sul mercato azionario) e Gran Bretagna.

La posizione geografica delle tre capitale, inoltre, è squisitamente strategica. La città stato asiatica è il ponte ideale con il Giappone, antesignano della deriva asiatica del capitalismo americano. Il Giappone, infatti, è uno dei più grandi compratori di asset americani fin dagli anni ’80. Ma non solo. Oggi, dei suoi 3.224 miliardi di investimenti di portafoglio all’estero (giugno 2013) l’America ne assorbe 1.042, la Gran Bretagna 183,278 e l’Australia un’altra ventina. Un po’ più della Francia e della Germania. Noi italiani appena 3,3 miliardi, al livello dell’India e dell’Indonesia.

Le solite Cayman un altro centinaio, concentrati nel mercato azionario.

E’ in questo sposarsi per interesse, intrecciando legami finanziari nei quali le banche anglossasoni sono insieme officianti e controparti, che l’Impero trova la sua ragion d’essere, di fronte alla quale i goffi tentativi europei, culminati nell’eurozona, sono un pallida emulazione. L’Asia e l’America sono l’enorme tenaglia rispetto alla quale l’eurozona è poco più di una nocciolina. Una provincia dell’Impero. Un luogo di villeggiatura.

Tralasciamo per un attimo i flussi finanziari, in fondo sono solo soldi. Assai più importante per capire quanto siano intime le tre città osservare la ragnatela di collegamenti sotterranei che le compagnie di telecomunicazioni hanno steso sotto gli oceani e che tessono le connessioni di Nylonkong.

La sola Hong Kong è il punto di snodo di dieci cavi sottomarini (FLAG Europe-Asia (FEA), SeaMeWe-3, FLAG North Asia Loop/REACH North Asia Loop, APCN-2, Asia-America Gateway (AAG) Cable System, Tata TGN-Intra Asia (TGN-IA), Asia Pacific Gateway (APG), Asia Submarine-cable Express (ASE)/Cahaya Malaysia, EAC-C2C, Southeast Asia Japan Cable) che la collegano a maglia stratta con l’Asia che conta e a maglia larga, ma molto performante, con i centri angloamericani.

Nell’età di internet questi collegamenti valgono più dell’oro. Sono le strade ferrate della modernità.

E sarebbe bene chiedersi chi li gestisce e a chi appartengono.

Ma questa è una storia che vi racconterò un’altra volta.

(4/fine)

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