Etichettato: boom creditizi
I soldi facili distruggono la crescita
Sicché viviamo nel paradosso di un tempo affamato di denaro che si ammala in ragione direttamente proporzionale alla quantità che riesce a ingurgitarne. L’inflazione è bassa? Immettiamo denaro. La disoccupazione è alta? Immettiamo denaro. La crescita non riparte? Immettiamo denaro. Il credito è basso? Immettiamo denaro. Non riuscendo a pensare ad altro, ci infliggiamo nuovi ricostituenti a base di denaro, che però finiscono col minare ancor di più il nostro organismo. Sennò non si spiegherebbe perché l’economia rimane debole e volatile.
Questa singolarità non lascia indifferenti i più accorti che, seguendo chissà quanto consapevolmente le impronte dei nostri padri, sono arrivati alla conclusione – una fra le tante che potevamo aspettarci – che i soldi facili, che tecnicamente si chiamano boom creditizi, hanno un effetto deleterio sulla produttività del lavoro. Quindi erodono uno dei capisaldi del nostro modo di produzione della ricchezza fin dai tempi di Adam Smith.
Questo approfondimento si deve a un paper della Bis (“Labour reallocation and productivity dynamics: financial causes, real consequences“) che sviluppa una questione già esaminata nell’ultima relazione annuale, evidentemente meritevole di ulteriori analisi. Per svolgerla è stato considerato un panel di venti economie nell’arco di tempo di un quarantennio.
Il punto è che i boom creditizi spingono a investire nei settori meno produttivi, come ad esempio quello delle costruzioni, a danno di quelli dove la produttività è più alta, come il manifatturiero. Con l’aggravante che il miraggio degli arricchimenti facili incoraggia le persone più dotate verso il settore finanziario, che non si segnala certo per una produttività consistente.
Per di più, dopo che il boom diventa un burst, l’errata allocazione delle risorse nei settori meno dinamici produce effetti prociclici, ossia genera perdite di prodotto, e quindi disoccupazione, assai più elevati rispetto a quanto sarebbe accaduto qualora le risorse fossero state allocate in maniera più efficiente. Tali effetti, viene notato, sono più pronunciati nelle economie avanzate.
“La produttività aggregata rallenta durante il boom creditizio – spiega il paper – innanzitutto perché l’occupazione si espande più rapidamente nel settore delle costruzioni, che strutturalmente incorpora una crescita bassa della produttività, mentre l’occupazione si espande poi lentamente o si contrae nel settore manifatturiero che, al contrario, è strutturalmente ad alta produttività”. Detto in soldoni, tale spostamento di risorse dai settori produttivi a quelli meno produttivi vale circa i due terzi del calo di produttività che si registra durante una fase di boom creditizio.
Ma cosa accade quando la bonanza creditizia finisce? “La media di perdite di produttività per anno nei cinque anni successivi a una crisi è più del doppio di quelle registrate durante il boom: circa mezzo punto percentuale l’anno”.
L’esempio esaminato nel paper è quello della crisi vissuta nel 2007 da Spagna e Irlanda, dove il credit boom si è associato a una rapida crescita dell’occupazione nelle costruzioni e nei servizi di real estate a spese del manifatturiero. “Una volta che il boom è diventato un burst – sottolineano – le economie sono andate verso una dolorosa fase di riequilibrio, per di più con un sistema finanziario danneggiato che forse ha reso ancor più compilcato il processo. In tal senso la riallocazione delle risorse durante il boom è stata chiaramente una cattiva allocazione”.
Provo a sintetizzare: i boom finanziari creano le premesse per dolorosi aggiustamenti, amplificando le conseguenze, una volta che si esauriscono, degli errori commessi durante l’euforia. A farne le spese è la produttività del lavoro, ossia ciò che dovrebbe determinare la ricchezza di una collettività e che, indirettamente, genera effetti sull’occupazione e sul livello dei salari. Ciò fino al punto di provocare una stagnazione che, nello schema esaminato, può durare fino a otto anni.
Le conclusioni del paper offrono ulteriori motivi di riflessione. L’ipotesi di scuola, secondo la quale il rischio di una stagnazione secolare dipenda, nel caso degli Usa, da una deficit di domanda globale già visibile prima della crisi, potrebbe essere sostituita da quella secondo la quale la stagnazione dipende invece dal grande boom creditizio vissuto negli Usa prima della crisi del 2007. Per dirla con le parole della Bis: “La crescita deludente degli Usa prima della crisi, nonostante un grande boom finanziario, può dipendere in parte proprio dal boom”. E poi c’è un altro punto importante: l’analisi microeconomica, ossia l’esame della composizione dei settori produttivi, dice molto di più di quella macroeconomica che tiene l’attenzione sugli aggregati, e in particolare sulla domanda.
Infine, una considerazione che sicuramente appassionerà gli economisti, che ne dibattono da sempre: “Se una politica monetaria allentata contribuisce ai boom creditizi e questi boom hanno effetti di lungo termine sulla produttività, compresi quelli di riallocazione delle risorse, una volta che arriva il bust, allora non è ragionevole pensare alla moneta come un elemento neutrale, nel lungo termine”.
Come indicazione sul futuro, è bene sapere che “i boom e i bust legati a una crisi hanno avuto una durata di 16-20 anni” e i risultati dello studio confermano che le “cattive allocazioni delle risorse richiedono tempo per svilupparsi e persistono a lungo”. Né bisogna sorprendersi, sottolineano, se “la politica monetaria si rivela poco efficace a correggere gli effetti dei bust”. E non solo perché la sua efficacia è limitata dal livello di indebitamento, solitamente elevato dopo un boom creditizio, ma anche perché “la politica monetaria allentata è uno strumento spuntato per correggere la cattiva allocazione delle risorse che si è sviluppata durante la precedente espansione, oltre ad essere stata, in primo luogo, un fattore che vi ha contribuito”.
Ve la faccio semplice: i soldi facili provocano danni, che poi si pensa di risolvere con altri soldi facili. Con la conseguenza che i soldi fanno soldi, favorendo la concentrazione della ricchezza.
Over and over again.
La creativa distruzione dei boom creditizi
Poiché non si finisce mai di imparare, ho scoperto leggendo un paper della Bis (“Bank Competition and Credit Booms”) che i boom creditizi possono essere la conseguenza di “un fenomeno di equilibrio”.
Che detta così sembra una beffa, ma invece è la logica deduzione che deriva da un’analisi dei comportamenti degli intermediari bancari, costretti a confrontarsi con un ambiente dove la guerra per la competizione porta con sé alcune conseguenze non intenzionali sulla stabilità finanziaria.
Per cogliere pienamente il senso dell’analisi, bisogna illustrare la divergenza fra l’opinione che ha di tali boom la teoria macroeconomia e le risultanze della realtà. Dove la prima vede nelle facilitazioni creditizie uno strumento capace di generare benefici per l’attività economica, mentre la seconda ci mostra “una crescente consapevolezza che la relazione fra finanza e crescita può essere in pratica instabile”.
“Le passate crisi finanziarie – ricorda l’autore – servono come dolorosi pro memoria che un eccessivo e troppo veloce incremento della finanza può condurre a ritorni declinanti, nella migliore delle ipotesi, e anche a severe perdite di prodotto, quando il settore finanziario è allo sbando”.
Ciò malgrado, è utile comprendere perché “una finanza eccessiva, che è dannosa per la stabilità, possa emergere come un fenomeno di equilibrio”. “Similmente – sottolinea – il ruolo della politica nella navigazione del trade-off tra crescita e stabilità finanziaria, a differenza di quella tra crescita e inflazione, rimane un territorio relativamente inesplorato”.
In sostanza, pare di capire, non abbiamo ancora maturato la consapevolezza, pur avendoli sofferti sulla nostra pelle, degli effetti distruttivi dei boom creditizi, anche se la teoria macroeconomica ha imparato ad apprezzarne la creatività.
Lascio volentieri ai professori di sciogliere il dilemma fra squilibrio e depressione che agita il nostro tempo economicizzato, perché trovo più interessante approfondire la questione centrale del paper, ossia il fatto che i boom creditizi possano emergere come “condizione di equilibrio”, ossia come la naturale conseguenza dei mercati, in questo caso quello dei prestiti, a trovare il punto di maggiore efficienza.
L’idea la trovo assai interessante perché svela un altro aspetto del nostro pensare economico: il suo giocare a somma zero. La circostanza, vale a dire, che l’equilibrio di un settore finisca sempre col doverlo pagare un altro, in una logica di massimizzazione dell’efficienza.
Alla fine, gratta gratta, rimane questo il problema.
Smetto di tediarvi con le mie considerazioni, e cedo a parola all’autore, certo più titolato di me a dire la sua.
Due forze tendono a determinare lo stato di equilibrio di cui parla il paper. Da una parte l’attitudine delle banche a lesinare prestiti ai clienti “cattivi”, che finiscono così col richiederne di importo sempre più rilevante man mano che le probabilità di ottenerne diminuiscono. Ciò ha un effetto sulla politiche dei costi delle banche e sui clienti “buoni”, che la dottrina chiama “credit rationing result”. In sostanza, il credito diventa più difficile.
La seconda tendenza si innesca quando una banca, che gode di una qualche forma di monopolio sui prestiti, decide di attrarre clienti da un’altra offrendo contratti a condizioni più vantaggiose. La meravigliosa concorrenza, insomma.
Ebbene, abbassare i prezzi dei prestiti fa aumentare i costi di screening dei prenditori, aumentando quindi il credit rationing, per evitare di dare credito a un cattivo debitore.
Senonché, quando “il grado di competizione bancaria è sufficientemente intenso, diviene ottimale per le banche fermare gli screening e provare a dominare il mercato offrendo contratti con grossi prestiti a tutti i debitori”, quindi in maniera indifferenziata. In tal modo l’equilibrio viene determinato a un livello più basso del tasso di interesse e a un più ampio di debito erogato. E una conseguenza più elevata probabilità di default, come ci ricorda l’autore.
“Questi risultati – osserva – mettono in luce le interazioni fra la stabilità finanziaria, la competizione nell’attività di prestito e la politica monetaria”.
In sostanza il tasso di interesse fissato dalla banca centrale interagisce con il grado di competizione dell’attività di prestito e così facendo determina l’output finale del mercato del debito.
“I credit boom è sempre probabile che accadano quando le banche sono in competizione aggressivamente o quando il tasso della banca centrale è basso”. Al tempo stesso, sottolinea, “un’intensa competitività fra le banche può limitare la capacità della politica monetaria di contenere i boom creditizi e garantire la stabilità finanziaria”.
Insomma: il punto di equilibrio rappresentato dal credit boom, macroeconomicamente efficiente, genera la crisi finanziaria.
La competitività, che dovrebbe garantire il bene, finisce con l’operare il male.
Come Mefistofele nel Faust, ma al contrario.
Ciò dovrebbe dirci molto della natura del nostro pensare economico.
