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Le metamorfosi dell’economia: Il tasso di disinteresse

M’interrogo pigramente su una questione che molti giudicherebbero di lana caprina, derubricandola a quello cui somiglia: una curiosità lessicale. Perché, mi domando, il saggio di rendimento del capitale finanziario è stato chiamato interesse? Cosa c’entra l’interesse, che evoca passione, motivazione, attenzione, con un cosa arida come un calcolo?

Poiché alla fine la domanda pare oziosa anche a me, decido di ignorarla. Ma quella, insistente, si ripresenta. Bussa alla porta della mia attenzione, prendendo a pretesto il fatto che, discorrendo di come l’economia stia vivendo la sua metamorfosi più profonda, non possa fare a meno di ragionare su un concetto, il tasso di interesse, che al pari degli altri che abbiamo esaminato – la ricchezza, il valore, la moneta – ha suscitato infinite discussioni, produzioni volumetriche di saggi e persino stigmi religiosi.

Il tasso d’interesse, dunque. Cedo alla curiosità e decido di cercare una risposta.

Non vi stupirà di sapere, conoscendo la mia attitudine alla divagazione, che la ricerca di tale risposta sia partita dall’etimologia. Ripesco da una biblioteca dimenticata il Dizionario etimologico italiano di Francesco Zambaldi, del 1889, che mi sembra vecchio abbastanza per offrirmi una visione remota quanto serve perché l’etimo non sia inquinato dalle distorsioni della modernità.

Qui la voce interesse viene rubricata come una derivazione del verbo essere, nel suo lemma latino esse. “L’infinito esse – leggo – dura nel latino inter-esse, essere fra le cose proprie: quindi stare a cuore: divenne il sinonimo interesse tutto ciò che importa o conviene all’utile, all’onore: poi tornaconto, utilità, affare, negozio, frutto del denaro: il sentimento che sprona a cercare il proprio utile (..)che bada solo al proprio utile e comodo”.

Fiuto un’indizio di risposta, ma ancora non mi basta. Corro sul web a sfogliare pagine più o meno attendibili e trovo un dettaglio che completa il quadro. “L’interesse è ciò che sta in mezzo, è un legame, una giunzione che avvicina qualcuno a qualcosa o a qualcun altro (…). Facile intendere anche l’immagine dell’interesse monetario: passa un certo tempo fra quando il prestito viene dato e quando viene restituito; l’interesse è ciò che (è stabilito) vale quel tempo che sta nel mezzo”.

Provo a farmi un’idea. L’interesse si interpone fra due persone o fra una persona e una cosa. Ha a che fare con l’utilità che traggo da questa interposizione, e nel tempo, per derivazione, ha finito con l’essere misurato dal denaro quando tale interposizione viene mediata da un capitale finanziario utilizzando il tempo come moltiplicatore.

In tal senso, prima ancora della sua valorizzazione monetaria, l’interesse rappresenta un legame fra chi concede il prestito e chi lo prende. Tale legame è la concessione di credito, il più esemplare atto di fiducia (anche economica) che posso compiere. Il debitore ha interesse a prendere a prestito, il creditore ha interesse a dare a prestito. I due interessi hanno motivazioni diverse mentre convergono sull’oggetto dell’interposizione, ossia il capitale. A entrambi interessa una certa somma di denaro. Al creditore perché la rivuole indietro, e maggiorata. Al debitore per le sue ragioni di consumo o investimento.

Questo però rischia di confonderci. Mentre è del tutto evidente quale sia l’oggetto dell’interesse, – il capitale – sul quale calcolo, misurandolo nel tempo, il mio tasso di interesse finanziario/monetario, meno evidenti sono i soggetti che sostanziano l’interesse: il creditore e debitore. L’interesse finanziario, se lo osserviamo da questa angolatura, è la rappresentazione monetaria di un interesse che nasce da una relazione, determinando il prestito e la sua conclusione. Il creditore ha interesse a trovare un debitore e il debitore ha interesse a trovare un creditore. Ancora una volta tendiamo a scambiare il dito – il capitale – con la direzione – l’attivazione di una relazione sociale, che poi viene normata dalle consuetudini.

In tal senso l’affermazione “l’interesse è ciò che (è stabilito) vale quel tempo che sta nel mezzo” che abbiamo visto prima è puramente consuetudinaria e rischia di essere fuorviante. La sostanza della faccenda è che due soggetti effettuano uno scambio, sotto forma di un prestito di denaro, allo scopo di aumentare ognuno la propria ricchezza, ossia la propria utilità. Perché, ricordiamolo, due soggetti non farebbero uno scambio se non vi ravvedessero un utile.

Se la osserviamo da questa angolatura, il tasso di interesse non è altro che la rappresentazione monetaria, lato creditore, dell’incremento di utilità che deriva dalla sua relazione col debitore ed è quello più visibile, perché l’interesse del debitore, ossia il suo incremento di utilità, non è usualmente oggetto di indagine economica. Possiamo avvicinarsi a conoscerlo se magari calcoliamo il tasso di rendimento dell’investimento, che con quel prestito è stato effettuato. Ma è un terreno incerto e non regolabile da un’autorità pubblica, al contrario di quanto accade per l’interesse del creditore. Anche qui, dipende dalle consuetudini. Le società moderne sono molto interessate a conoscere (e regolare) i guadagni del creditore mentre si curano poco di quelli del debitore. Ma non è detto che vada sempre così.

Basteranno un paio di esempi a chiarire. Nel medioevo, quando il prestito a interesse era vietato dalla chiesa cattolica, a Roma era uso camuffare un prestito e il relativo interesse corrisposto, con la creazione di una carica pubblica, non operativa ma puramente onorifica, che veniva assegnata al creditore. In tal modo la retribuzione corrispondente serviva a restituire il capitale e gli interessi maturati. Noi oggi almeno la vedremmo così, perché siamo abituati a pensare che un capitale produca un reddito nella misura di un certo tasso di interesse. Ma forse nel passato il senso economico di questa transazione era assolutamente differente. La dignità di una carica pubblica, ad esempio, poteva essere per il creditore assai più interessante, per le sue ricadute sociali, del semplice tornaconto monetario. La cariche pubbliche venivano vendute, se lo ricordate.

Questo esempio, che ho tratto dal libro di Ignazio Augusto Santangelo (Debito pubblico e crisi finanziarie), mostra l’interesse nella sua forma più pura. Non una semplice remunerazione del tempo durante il quale sono stato privato del mio capitale, ma una relazione fra una persona e un’altra cui corrispondevano diritti e doveri per l’una e per l’altra che possono prevedere anche passaggi di denaro. Due persone in relazione economica condividono un interesse. Sociale, prima ancora che monetario.

Traccia di questo pensiero lo troviamo ancora oggi nei precetti della finanza islamica che vieta formalmente il prestito ad interesse, instaurando una condivisione del rischio fra il prestatore e il prenditore che si sostanzia in una condivisione dell’utile (o della perdite). Un tipo di relazione che Keynes, celiando, stimerebbe ideale, assimilandosi a quella matrimoniale. Ma è proprio in questa relazione che l’interesse assume un senso economico del tutto assente nella versione “secolarizzata” che è invalsa nelle nostre pratiche economiche. Si penserà che ciò sia una raffinata forma di ipocrisia. Ma in realtà questo pensiero è assai diffuso, anche se fuori dalla nostra orbita economica, e ha prodotto un fiorente mercato di strumenti finanziari.

La nostra economia, invece, si basa su un principio opposto, ossia quello del disinteresse. La separazione fra gli agenti economici, di cui lamentava gli esiti nefasti già Sismondi all’inizio del XIX secolo, ha creato un mercato del denaro nel quale sia il creditore che il debitore si limitano a calcolare il proprio ritorno personale obbedendo al principio della capitalizzazione finanziaria e disinteressandosi delle conseguenze sull’altro. Sicché il senso interessante della relazione fra debitore e creditore è stato cancellato dalla quantificazione del tasso di interesse monetario che sarebbe più corretto definire tasso di disinteresse. Il denaro viene scambiato disinteressandosene, e in cambio si richiede una remunerazione sotto la minaccia di conseguenze legali. Creditore e debitore, nel migliore dei casi, si ignorano. Nel peggiore si odiano.

Sono consapevole che tutto ciò vi parrà sommamente astruso, e magari qualcuno si irriterà pensando che faccio filosofia di una cosa terribilmente concreta come il profitto. Ma, vedete, l’economia è filosofia, che poi diventa consuetudine di pensiero e infine tecnica grazie a un lungo percorso di assimilazione istituzionale. E poiché lo scopo di questo libro è contribuire al ripensamento dell’economia, quello che Irving Fisher chiamava “il collegamento fra le idee e le loro applicazioni pratiche”, è necessario ripartire da dove ci siamo messi in cammino, per vedere cosa è successo nel frattempo. Perché poi, infine, la realtà ci presenta il conto.

E non pensate che questo conto sia così difficile da osservare. Anzi è già visibile.

Le cronache del nostro tempo ci hanno mostrato la migliore rappresentazione possibile del nostro tasso di disinteresse: i tassi nominali nelle grandi economie del mondo si sono azzerati e quelli reali in molti casi sono addirittura negativi. Mentre scrivo la zona euro vende circa il trenta per cento delle sue emissioni di bond decennali a tassi negativi  e si discute appassionati e atterriti del rialzo del tasso di sconto  della banca centrale americana di un quarto di punto percentuale. Questa circostanza non può essere derubricata a curiosità della cronaca, essendo invece un evidente segno della storia. Quale migliore manifestazione della coincidenza fra filosofia e tecnica nella corrispondenza del nostro tasso di disinteresse con l’azzeramento del rendimento del capitale? Se il rendimento del capitale è nullo, che interesse posso trarre dalla mia relazione sociale?

La pratica secolare dell’economia del disinteresse, che ha trovato nell’uomo economico razionale, calcolatore e massimizzante, il suo Sigfrido, ha finito col provocare l’azzeramento del tasso di interesse. E poiché i nostri massimi esperti ci spiegano che il tasso di interesse dipende dall’andamento dell’economia, quindi si abbassa quando l’economia è debole e si rialza quando è forte, dovremmo dedurne che il nostro disinteresse ha finito con l’erodere la basi che rendono forte un’economia: ossia che gli agenti economici abbiano voglia di scambiarsi qualcosa convinti che tale scambio li arricchisca. Che abbiano interesse a fare economia, ossia relazionarsi vicendevolmente con profitto reciproco.

Qualcosa che avevamo e che abbiamo smarrito.

Me ne convinco leggendo un paper recente che la banca centrale del Regno Unito ha rilasciato per spiegare il declino secolare del tasso di interesse, che viene motivato da ragioni tecniche, non essendo negli intenti di una banca centrale fare filosofia. Qui osservo un grafico che misura il tasso di interesse reale del mondo dal 1870 in poi sui bond decennali. I dati dicono che il tasso reale non è mai stato a zero come è accaduto dal 2008 in poi, salvo che per un breve intervallo nel secondo dopoguerra, ed è stato negativo durante la prima e la seconda guerra mondiale, a causa evidentemente dell’inflazione bellica. La guerra d’altronde, non è un buon momento per fare economia, prevalendo il conflitto sulla cooperazione. E’ l’apoteosi del disinteresse.

Così l’interesse ridotto a calcolo, ossia ciò che connota lo spirito del capitalismo insieme all’invidia e alla vanità, per ricordare un bel libro di Geminello Alvi (Capitalismo, verso l’ideale cinese), non ha solo stravolto il senso dell’interesse, ma anche il significato. Ma la parola è rimasta, come un simulacro.

Mi chiedo cosa ci sia capitato. Come siamo arrivati a questo punto. E mi torna in mente Zambaldi: “Divenne il sinonimo interesse tutto ciò che importa o conviene all’utile, all’onore: poi tornaconto, utilità, affare, negozio, frutto del denaro: il sentimento che sprona a cercare il proprio utile (..)che bada solo al proprio utile e comodo”. Ecco cosa è accaduto. Esattamente in quest’ordine. L’etimologia, in fondo, è solo un altro modo di raccontare la storia.

(7/segue)

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L’economia ai tempi dello Zero Lower Bound: il congelamento dei debiti

“Un tasso di sconto a zero, o meno, non ha senso economico”, scrive la Banca Mondiale nel suo ultimo Global Economic prospects, mentre discorre dei tanti benefici, e degli altrettanti malefici, cui l’economia deve far fronte nell’epoca dello Zero Lower Bound.

Tempo estraneo alla storia, come la stessa Banca Mondiale sottolinea, rammentando che neanche nei terribili anni ’30 i tassi a breve scesero in territorio negativo, e solo di tanto in tanto, nelle vicende successive è capitato che sulle scadenze brevi i tassi siano diventati negativi.

Stavolta invece la storia ha bussato alla nostra porta. Una grande quantità di paesi, e segnatamente in Europa, pagano tassi negativi sui loro bond pubblici nelle scadenze medio-brevi e questa tendenza, ammesso che mai finirà, potrebbe impattare notevolmente sui nostri costumi economici. Anzi, sulla costituente stessa della nostra economia.

Quest’ultima si basa su un principio assai semplice: la relazione fra il tempo e il tasso di interesse. Per questo la Banca Mondiale scrive che un tasso di sconto zero non ha senso economico.

Qualcuno potrebbe pensare che sto facendo filosofia. Ma non c’è nulla di più concreto della matematica finanziaria a dimostrare che non è così.

Tutte le relazioni economiche che prevedono il dare e il prendere a prestito, dalle quali poi dipendono molte variabili macroeconomiche, si basano sulla matematica finanziaria. E in tutte le formule della matematica finanziaria, che calcolano montanti, sconto, valori attuali, il tasso di interesse è ciò che collega il capitale al tempo, determinando l’ammontare del primo al variare del secondo.

Ciò vuol dire che se il tasso di interesse si annulla, si annulla anche il tempo. Rimane solo il capitale, eterno, costante e congelato in un non luogo economico. Un’entità priva di senso.

Un esempio aiuterà a chiarire.

Mettiamo di avere un debito da diecimila euro che scade fra un anno. Il debitore decide di liberarsi di questo debito, quindi corre in banca e chiede al suo intermediario di calcolare il valore attuale del suo debito, ossia il valore che oggi ha il suo debito, non quello che avrà fra un anno, ossia diecimila euro.

Per calcolare il nostro valore attuale, il nostro banchiere deve usare la formula del valore attuale commerciale, che dice che il valore attuale di un capitale è uguale al capitale finale moltiplicato la differenza fra 100 e il prodotto del tasso per il tempo, il tutto diviso 100. Per gli amanti delle formule, potremmo scriverla così:

VA = [C (100 – rt)]/ 100.

Nel nostro esempio t è uguale a uno, mentre r, nell’età dello Zero Lower Bound, è praticamente zero. Azzerandosi il prodotto fra tempo e tasso, l’operazione produce che il valore attuale del capitale futuro è uguale al capitale futuro. Quindi se volessi estinguere il mio debito oggi pagherei la stessa somma che pagherei fra un anno.

Voi che fareste?

Capite bene che tale circostanza ha conseguenze sul modo con il quale ognuno di noi concepisce le relazioni economiche. Se non ho nessun vantaggio a pagare anticipatamente i miei debiti, perché mai dovrei farlo?

Se dal nostro microlivello economico andiamo a vedere il comportamento di alcuni intermediari, il discorso ha ulteriori implicazioni.

La Banca mondiale parla di “anomalie nella valutazione dei rendimenti e dei flussi dei pagamenti”, utilizzando una formulazione invero astrusa per sottolineare un problema terribilmente concreto.

“Quando il tasso di interesse si avvicina a zero – sottolinea – il calcolo del valore attuale di un flusso di pagamenti diventa sempre più sensibile al tasso di sconto. Infatti il valore attuale di un qualunque flusso di pagamenti può diventare arbitrariamente grande scegliendo un tasso di sconto basso abbastanza”. Al limite zero che abbiamo visto il valore attuale coincide col capitale futuro.

Ciò può generare “contenziosi di negoziazione sul fair value di un regolamento legale. E poiché un tasso zero o inferiore non ha senso economico, un prolungato periodo di tassi di interessi negativi potrebbe creare grandi ambiguità nella valutazione degli asset o dei debiti”.

Problema concretissimo, quindi.

Pensate agli assicuratori. Cosa sarebbe dei loro requisiti patrimoniali se calcolassero il valore attuale dei loro debiti utilizzando un tasso zero?

Semplicemente scoprirebbero oggi di avere un sacco di debiti in più, e ciò potrebbe rendere necessario, ai fini regolamentari, di aumentare i propri requisiti di solvibilità.

Ciò spiega bene perché i regolatori abbiano già sollevato diversi allarmi sul settore assicurativo europeo.

Ma l’evoluzione più sorprendente dell’epoca dello zero lower bound forse dobbiamo ancora scoprirla.

(3/segue)

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La creativa distruzione dei boom creditizi

Poiché non si finisce mai di imparare, ho scoperto leggendo un paper della Bis (“Bank Competition and Credit Booms”) che i boom creditizi possono essere la conseguenza di “un fenomeno di equilibrio”.

Che detta così sembra una beffa, ma invece è la logica deduzione che deriva da un’analisi dei comportamenti degli intermediari bancari, costretti a confrontarsi con un ambiente dove la guerra per la competizione porta con sé alcune conseguenze non intenzionali sulla stabilità finanziaria.

Per cogliere pienamente il senso dell’analisi, bisogna illustrare la divergenza fra l’opinione che ha di tali boom la teoria macroeconomia e le risultanze della realtà. Dove la prima vede nelle facilitazioni creditizie uno strumento capace di generare benefici per l’attività economica, mentre la seconda ci mostra “una crescente consapevolezza che la relazione fra finanza e crescita può essere in pratica instabile”.

“Le passate crisi finanziarie – ricorda l’autore – servono come dolorosi pro memoria che un eccessivo e troppo veloce incremento della finanza può condurre a ritorni declinanti, nella migliore delle ipotesi, e anche a severe perdite di prodotto, quando il settore finanziario è allo sbando”.

Ciò malgrado, è utile comprendere perché “una finanza eccessiva, che è dannosa per la stabilità, possa emergere come un fenomeno di equilibrio”. “Similmente – sottolinea – il ruolo della politica nella navigazione del trade-off  tra crescita e stabilità finanziaria, a differenza di quella tra crescita e inflazione, rimane un territorio relativamente inesplorato”.

In sostanza, pare di capire, non abbiamo ancora maturato la consapevolezza, pur avendoli sofferti sulla nostra pelle, degli effetti distruttivi dei boom creditizi, anche se la teoria macroeconomica ha imparato ad apprezzarne la creatività.

Lascio volentieri ai professori di sciogliere il dilemma fra squilibrio e depressione che agita il nostro tempo economicizzato, perché trovo più interessante approfondire la questione centrale del paper, ossia il fatto che i boom creditizi possano emergere come “condizione di equilibrio”, ossia come la naturale conseguenza dei mercati, in questo caso quello dei prestiti, a trovare il punto di maggiore efficienza.

L’idea la trovo assai interessante perché svela un altro aspetto del nostro pensare economico: il suo giocare a somma zero. La circostanza, vale a dire, che l’equilibrio di un settore finisca sempre col doverlo pagare un altro, in una logica di massimizzazione dell’efficienza.

Alla fine, gratta gratta, rimane questo il problema.

Smetto di tediarvi con le mie considerazioni, e cedo a parola all’autore, certo più titolato di me a dire la sua.

Due forze tendono a determinare lo stato di equilibrio di cui parla il paper. Da una parte l’attitudine delle banche a lesinare prestiti ai clienti “cattivi”, che finiscono così col richiederne di importo sempre più rilevante man mano che le probabilità di ottenerne diminuiscono. Ciò ha un effetto sulla politiche dei costi delle banche e sui clienti “buoni”, che la dottrina chiama “credit rationing result”. In sostanza, il credito diventa più difficile.

La seconda tendenza si innesca quando una banca, che gode di una qualche forma di monopolio sui prestiti, decide di attrarre clienti da un’altra offrendo contratti a condizioni più vantaggiose. La meravigliosa concorrenza, insomma.

Ebbene, abbassare i prezzi dei prestiti fa aumentare i costi di screening dei prenditori, aumentando quindi il credit rationing, per evitare di dare credito a un cattivo debitore.

Senonché, quando “il grado di competizione bancaria è sufficientemente intenso, diviene ottimale per le banche fermare gli screening e provare a dominare il mercato offrendo contratti con grossi prestiti a tutti i debitori”, quindi in maniera indifferenziata. In tal modo l’equilibrio viene determinato a un livello più basso del tasso di interesse e a un più ampio di debito erogato. E una conseguenza più elevata probabilità di default, come ci ricorda l’autore.

“Questi risultati  – osserva – mettono in luce le interazioni fra la stabilità finanziaria, la competizione nell’attività di prestito e la politica monetaria”.

In sostanza il tasso di interesse fissato dalla banca centrale interagisce con il grado di competizione dell’attività di prestito e così facendo determina l’output finale del mercato del debito.

“I credit boom è sempre probabile che accadano quando le banche sono in competizione aggressivamente o quando il tasso della banca centrale è basso”. Al tempo stesso, sottolinea, “un’intensa competitività fra le banche può limitare la capacità della politica monetaria di contenere i boom creditizi e garantire la stabilità finanziaria”.

Insomma: il punto di equilibrio rappresentato dal credit boom, macroeconomicamente efficiente, genera la crisi finanziaria.

La competitività, che dovrebbe garantire il bene, finisce con l’operare il male.

Come Mefistofele nel Faust, ma al contrario.

Ciò dovrebbe dirci molto della natura del nostro pensare economico.