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Come eravamo e come non saremo più: l’Italia che potrebbe essere di fronte alla transizione demografica

Da oltre dieci anni, molto prima quindi che il tema diventasse mainstream, questo blog racconta della difficile transizione demografica di fronte alla quale si trova il nostro paese e che ormai inizia a mostrare le sue prime risultanze comprensibili.

Nel 2050, ossia fra una generazione, se i trend attuali non muteranno – ed è molto difficile che accada – saremo un paese con molti meno abitanti e una quantità di popolazione in età da lavoro inferiore di circa un milione rispetto a quella che avevamo un secolo prima, nel 1950, quando però la popolazione era molto più bassa rispetto a quella che avremo nel 2050.

Che significa tutto questo? Che saremo un paese in larga parte abitato da anziani, e pochi under 15, con un tasso di dipendenza, ossia il rapporto fra la somma di bambini e anziani e la popolazione in età da lavoro quasi uno a uno: per ogni dieci persone in età da lavoro si stima vi saranno otto fra bambini e anziani. In pratica una catastrofe. Non solo fiscale – diventerà un grosso problema avere una previdenza sostenibile e una sanità accettabile – ma anche produttiva, e, dulcis in fundo sociale. Che futuro può immaginare una società abitata in parla parte da vecchi?

Secondo alcune stime presentate da Andrea Brandolini, vice capo del dipartimento economia e statistica di Bankitalia, audito dalla Commissione parlamentare di inchiesta che sta cercando di comprendere gli effetti economici e sociali derivanti dalla transizione demografica, in questa situazione di popolazione e popolazione in età lavorativa, il pil nel 2050, decrescerà notevolmente.

Vale la pena concedersi un breve excursus nella teoria della crescita e la sua contabilità. Il Pil di un paese cresce grazie al contributo di quattro fattori: 1) la quota di popolazione in età da lavoro; 2) la quota di popolazione occupata, misurata dal tasso di occupazione; 3) il numero di ore lavorate in media da ogni occupato; 4) la produttività oraria, quantità di beni o servizi prodotta con un’ora di lavoro.

Dal 1950 al 2024, dice Brandolini, il pil reale pro capite è aumentato di 6,7 volte, con un tasso medio annuo del 2,6%, in gran parte attribuibile al miglioramento della produttività del lavoro. Dividendo i vari periodi in sottoperiodi, si può osservare come il rallentamento della produttività sia stato il driver principale del rallentamento osservato dei tassi di crescita.

Quindi nei primi 25 anni di questa storia che si proietta per un secolo siamo stati meno numerosi, ma molto giovani e produttivi. Nei successivi 25 anni, quando già la transizione demografica iniziava ad innescarsi, la crescita della produttività si è più che dimezzata insieme al pil, che si è sostanzialmente azzerato nel terzo venticinquennio, che è quello che ci conduce alla nostra attualità. Per il futuro c’è poco da stare allegri: “Nei prossimi venticinque anni, se i tassi di occupazione, gli orari di lavoro e la produttività oraria rimanessero immutati sui livelli attuali, il calo della popolazione in età da lavoro implicherebbe una diminuzione dell’input di lavoro e quindi del PIL dello 0,9 per cento all’anno. La riduzione del PIL pro capite sarebbe più contenuta, lo 0,6 per cento annuo, per effetto della parallela flessione della popolazione complessiva”.

Poiché è certo che non saremo più giovani come negli anni Cinquanta, ciò che possiamo fare per contrastare gli effetti avversi di questa demografica vagamente mortifera è imparare a restare giovani a lungo. Non stirandosi le rughe: ma, ad esempio, aumentando i tempi di lavoro, quindi ritardando il pensionamento. Non solo. Sarebbe utile (tenete presente i quattro fattori che determinano la crescita) aumentare i tassi di occupazione.

Su questo fronte il nostro paese ha ampi spazi di miglioramento. Non solo perché la partecipazione delle donne al lavoro, rispetto alla media Ue, rimane bassa, specie al Sud dove pure sarebbe salutare, ma anche perché abbiamo un numero imbarazzante di giovani, oltre il 15%, che non studia ne lavora. E poi ci sono gli anziani: anche il loro tasso di partecipazione è ben al di sotto della zona euro. E’ vero altresì, e va ricordato, che abbiamo una notevole quota di lavori che è difficile fare superata una certa età.

In breve se vogliamo avere un futuro economico capace di sostenere la nostra popolazione anziana, per la quale la spesa pubblica diventerà largamente insufficiente, gli italiani devono partecipare al lavoro più numerosi e lavorare di più. Tutto il contrario della vulgata che è stata diffusa negli ultimi cinquant’anni, al suono di pensioni anticipate e sussidi di vario genere.

C’è anche la variabile immigrazione da considerare, che fino ad oggi è stata l’unica voce che ha tenuto in un minimo equilibrio la nostra situazione demografica.

Senza immigrati la nostra decrescita demografica, e tutto ciò che essa comporta, sarebbe stata assai più pronunciata. Basta solo un dato: nel 2024 gli stranieri rappresentavano il 10,4% dell’occupazione totale, con punte del 15,1% fra operai e artigiani e addirittura il 30,1% fra il personale non qualificato. In futuro si prevede che questi ingressi continueranno – si stima un flusso di cinque milioni di persone nel prossimo quarto di secolo – ed è ovvio che saremmo sempre più una società multiculturale. Quindi magari dovremmo attrezzarci per attrarre anche cervelli, non solo braccia. Vaste programme, considerando che non siamo neanche in grado di offrire ai cervelli italiani prospettive interessanti.

Ricordando come eravamo e non saremo più, possiamo iniziare a pensare a come potremmo essere domani e decidere di impugnare il nostro futuro anziché farcene divorare.

Proviamo a immaginarlo, regalandoci un esercizio di previsione possibile, che sarà tanto più probabile quanto più andremo in questa direzione, innanzitutto credendoci. Saremo un paese abitato in prevalenza da anziani che continuano a lavorare fino a tarda età senza più coltivare il miraggio di una vita inattiva da pensionati, che non ci possiamo più permettere. Il rapporto di questi anziani col lavoro sarà molto diverso da quello che avevano quando erano più giovani, ma ci sarà.

Questi anziani saranno in grado di aiutare i pochi giovani che ci sono rimasti a trovare la loro strada, grazie alla loro esperienza e i loro patrimoni, investendo sui ragazzi, anziché limitandosi a spesarli.

Le donne saranno sempre più in grado, grazie a politiche illuminate, di conciliare lavoro famiglia e anche se magari non potranno avere più di un figlio, perché sono avanti con gli anni, potranno adottarne altri con facilità, aiutando così persone che senza di loro non avrebbe avuto opportunità.

In questo paese, che finalmente ha ritrovato il gusto di progettare il futuro, la produttività crescente del lavoro consentirà di avere una crescita robusta capace di sostenere il welfare di cui così tanto ha bisogno una popolazione anziana, perché non tutti hanno la fortuna di invecchiare bene.

E alla fine dei conti, anche se saremo di meno non saremo meno di prima, perché avremo imparato che uno non vale necessariamente uno. Può valere anche di più.