Etichettato: dilemma fra produzione e riproduzione
L’occupazione delle mamme cinesi è merito dei nonni
Poiché si discute sempre più del declino della nostra natalità, cui fa da corollario l’osservazione che le poche donne che ancora diventano madri fanno sempre più fatica a trovare lavoro – eterno dilemma fra produzione e riproduzione – vale la pena scorrere un paper diffuso da Bofit che spiega finalmente uno dei paradossi meno conosciuti dalla letteratura di genere. Quello, vale a dire, che vede convivere una notevole partecipazione delle donne cinesi al mercato del lavoro anche dopo che diventano mamme. Anzi, partecipano persino di più di chi mamma non è.
Tutto ciò, vale la pena sottolinearlo, non dipende dalla generosità dello stato, che, a differenza di quanto accade in diversi paesi europei, non offre praticamente alcun sostegno significativo alla natalità e ancora meno offre aiuti alle donne madri che devono lavorare. Una condizione che le nostre connazionali conoscono molto bene. E tuttavia, a differenza di quanto accade nel nostro paese, la partecipazione al lavoro delle mamme cinesi è “straordinariamente alta”.
Addirittura, i dati Ilo mostrano che la partecipazione delle donne cinesi (anno 2018) è la più alta al mondo, con il 61,3%, ben più elevato di quello statunitense (56%) e persino più di quello dei paesi scandinavi, noto paradiso del welfare dove primeggia la Svezia con il 61%. Quanto ai sostegni, basta ricordare che il periodo di maternità concesso in Cina è di soli 98 giorni, il più basso dell’Ocse e che gli asili sono disponibili dai tre anni in su. Come si spiega questo paradosso?
Come ogni giallo che si rispetti, anche questo ha un colpevole. Anzi, sarebbe più giusto dire che c’è un qualcuno che si deve prendere il merito di questa situazione. E l’onore tocca ai nonni, che si accollano l’onere di badare alla prole mentre la mamma sfacchina al lavoro prima di sfacchinare pure a casa. Anche in questo sicuramente le nostre connazionali si riconosceranno.
E’ proprio il sostegno dei nonni a far la differenza. “Le donne senza il sostegno dei nonni – scrivono gli autori del paper – subiscono un calo sostanziale dell’occupazione dopo il parto, mentre le donne con il sostegno dei nonni sperimentano persino un aumento dell’occupazione”.
E non si tratta solo di questo. Le donne che non possono contare sull’aiuti dei genitori ci mettono “il doppio del tempo per recuperare il lavoro dopo essere diventate madri”. Infine, i ricercatori hanno confermato “le donne affrontano il dilemma se restare al lavoro o dimettersi quando il sostegno all’infanzia dei nonni è assente”. Il solito dilemma, appunto. I grafici sotto raccontano la storia meglio di mille parole. L’acronimo GPC sta per Grand Parental Childcare.

La fortuna dei cinesi – anche in questo gli somigliamo – e di avere tanti nonni. A noi però non bastano a garantire che l’occupazione femminile salga dal suo livello ancora molto basso per gli standard europei. Quindi probabilmente sono in gioco anche altri fattori.
Rimane il fatto che quando il welfare pubblico non c’è, dove esiste si attiva il welfare familiare. Un’applicazione chissà quanto inconsapevole di quel principio di sussidiarietà tanto declamato quanto poco attuato dalla politica nella vita di tutti i giorni. E che il welfare familiare funzioni benissimo – quando c’è – lo dimostra pure l’intesità osservata del lavoro delle mamme che possono contare sui nonni: aumenta persino dopo la maternità.

Un risultato sicuramente sorprendente. Ma che serve a posizionare anche il dibattito, aperto in Cina come in tutto il mondo, sull’opportunità di alzare l’età del pensionamento, che in Cina viene considerata bassa. Ma se i nonni vanno in pensione più tardi, non c’è il rischio che venga a mancare il supporto familiare alle madri lavoratrici? Al dilemma fra produzione e riproduzione se ne aggiunte un altro: quello fra pensione e riproduzione. La coperta, in sostanza, si fa sempre più corta.
Il dilemma fra produzione e riproduzione: il caso canadese
Dunque il Fmi esorta il governo canadese a favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro al fine di aumentare la produzione. Abbiamo già visto quale sia il filo del ragionamento. La versione monoculare del Fondo, ossia focalizzata sul problema della crescita del Pil, trascura di osservare come e quanto l’aumentata partecipazione delle donne alla produzione nazionale abbia influito su un’altra variabile che influenza i destini economici di un territorio, ossia il tasso di natalità. Una disattenzione che racconta molto del modo parziale che usualmente si utilizza per comprendere la realtà.
Sicché mi sono attrezzato di santa pazienza e ho fatto un po’ di ricerca servendomi dei dati pubblicati sul sito dell’istituto statistico del Canada. Lettura defatigante, ma assai utile per provare ad aprire anche il nostro secondo occhio.
Cominciamo con il dato più semplice: ossia la distribuzione della popolazione canadese per classi di età. Un grafico mostra che pure il Canada, come tante altre economie avanzate, deve vedersela con una quota di popolazione over 65 (16,1%) che ha superato quella 0-14enne (16%). Il dato nazionale nasconde grosse differenze locali, ma è sufficiente a farsi un’idea.
Un secondo dato utile lo traggo da uno studio di pochi anni fa, che contiene anche numerose informazioni sull’andamento demografico della popolazione. Ossia il totale fertility rate che, lo abbiamo visto, misura sostanzialmente il numero medio di figli per donna in età di gravidanza. Nel 2011 tale saggio quotava 1,61, un livello simile a quello odierno. Va detto che nel 1981, epoca alla quale risale lo studio, era 1,65 e da lì si è mosso in aumento o in diminuzione di poche unità, per i trent’anni successivi toccando il picco più basso nel 2002, quando è arrivato a 1,51. La stabilità di questo indice lascerebbe dedurre che l’aumento della partecipazione al lavoro non ha influito sulla natalità. Ma è meglio guardare più a fondo per evitare deduzioni affrettate.
Altre due informazioni sono utili per svolgere il ragionamento. La prima è che il tasso di mortalità dei canadesi è diminuito drasticamente fra il 1950 e il 2012, del 53,9% per gli uomini e del 60,7% per le donne. La seconda è che nell’ultimo quarto rilevato (I 2016), l’aumento della popolazione è stato di oltre 106 mila unità, il massimo dal 2009, ma l’incremento naturale, ossia quello derivato dalla popolazione residente, è stato di appena 20mila unità, il resto dipendendo dalla forte immigrazione di rifugiati per lo più siriani.
Questi semplici numeri confermano che neanche il Canada sfugge al pattern che affligge molte comunità nei paesi avanzati: bassa natalità – occorrerebbe un tasso di fertilità superiore a due per avere un saldo demografico attivo – invecchiamento della popolazione, e stagnazione delle nascite, con la popolazione che cresce per lo più in virtù dell’emigrazione. Se questo è lo stato dell’arte, diventa interessante provare a rispondere alla domanda se l’aumentata partecipazione delle donne al mercato del lavoro abbia influenzato questo andamento e in che modo.
Il Fmi ha rilevato che dal 1980, quando il tasso di partecipazione era intorno al 60%, c’è stato un rilevante aumento delle donne al lavoro, che adesso ha condotto il tasso intorno all’82%, fra i più alti al mondo, ma ancora giudicato insufficiente per rilanciare la crescita della produzione.
Torno perciò al documento che analizza l’evoluzione demografica canadese, che ha il pregio di osservare il fenomeno nell’arco di un secolo circa. Un grafico, che traccia l’andamento delle nascite dal 1926, rileva che da allora fino a circa il 1940 il numero delle nascite si è collocato poco sotto le 250 mila unità. La grande espansione si rileva nel secondo dopoguerra, quando arrivano a superare le 450mila, per poi scendere dai primi ani ’60 e arrivare intorno alle 350 mila sul finire del decennio. Da quel momento in poi l’andamento è sostanzialmente piatto, con un piccolo aumento verso le 400 mila nei primi anni ’90 e poi un decrescere verso il livello attuale, che è all’incirca 370.000 unità.
Questo dato però, per essere significativo, deve essere confrontato con la popolazione dei singoli momenti considerati. Le 250 mila nascite del 1926, per essere chiari, vanno confrontati con la popolazione di quel periodo, che era di poco superiore a 10 milioni. Così come le 450 mila superate a inizio dei Sessanta, con i circa 18 milioni di abitanti di allora. Per la stessa ragione le circa 350 mila della seconda metà dei sessata, quando gli abitanti erano circa 20.21 milioni, hanno un peso relativo assai superiore dei circa 370 mila dei giorni nostri, quando la popolazione è superiore a 31 milioni. Lo dimostra il fatto che il tasso naturale di incremento della popolazione è molto basso.
Se guardiamo il grafico della partecipazione femminile al lavoro a partire dal 1953, quando il tasso era di poco superiore al 20%, osserviamo che un quindicennio dopo era quasi raddoppiato proprio mentre il numero delle nascite diminuiva di circa 100 mila unità dal picco dei metà ’50. Anche questo trend è comune a molte economie avanzate. E se non è abbastanza per suggerire un’inferenza, serve comunque ad alimentare il sospetto che molte donne abbiano iniziato a porsi sul serio il dilemma fra dovere produttivo e piacere riproduttivo. Ma dubitando sempre meno che il primo avesse la precedenza sull’altro. Il tasso di partecipazione infatti, da allora, è cresciuto costantemente schiacciandosi leggermente solo nei primi anni ’90, ma sempre mantenendo un’inclinazione positiva, quando, sul versante delle nascite, si osserva un robusto calo che ha portato a circa 300 mila il totale per circa un decennio.
L’evoluzione economica – ossia l’aumento della partecipazione – un effetto chiaro comunque l’ha svolto: è cresciuta l’età della prima gravidanza. “Il calo generale del tasso di fertilità – spiega lo studio dell’istituto canadese – nel corso dei quattro decenni trascorsi è dovuto al relativamente stabile declino nei tassi di fecondità per le età sotto i 30 anni di età. Al contrario i tassi di fertilità per le donne di età superiore ai 30 sono in generale aumentati”. Anche qui, il pattern canadese somiglia a quello di tanti altri paesi. Le donne fra i 30 e i 34 anni, già dalla metà del primo decennio del XXI secolo hanno superato per numero di figli quelle più giovani.
Se osserviamo l’andamento del tasso di fertilità indietro nel tempo e scomposto per le classi di età, osserviamo che il fenomeno più visibile è proprio il crollo del tasso nelle coorti 20-29 anni che si consolida all’inizio degli anni ’60. Nel 2010, per la prima volta nella storia canadese, la coorte 20-24 anni viene addirittura superata da quella 35-39 anni, in crescita dal 1970. Al contrario la coorte 20-24 tocca il suo picco nel 1961 (233,6 figli per mille donne) e il minimo nel 2001 (45,7). Gli anni ’80, poi, sono stati quelli in cui si è osservato il più basso tasso di fertilità per le giovani donne, e non certo a caso: entrava nell’età adulta quella generazione cresciuta con la narrazione circa l’importanza del lavoro femminile per il benessere della nazione. Il dilemma fra produzione e riproduzione perciò, in Canada come altrove, è stato risolto posponendo l’età della gravidanza. E questo non può che avere conseguenze sul numero totale delle nascite.
Il caso canadese ci consente di fare una prima riflessione. Bisognerebbe ricordare, quando si parla delle necessità di aumentare la partecipazione femminile al lavoro, che si sta chiedendo alle donne di fare una scelta sul loro futuro di madri, e sarebbe un atto di pura equità sponsorizzare l’importanza della riproduzione almeno quanto si fa con la produzione. Questo però non succede. Il feticcio della modernità non ammette che si ricordi il prezzo implicito nel suo svolgersi. Pure a costo di realizzare il paradosso di mondo pieno di beni e servizi per sempre meno persone.
(3/segue)
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