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La corsa verso la ricchezza nel secolo XXI

Un amico, che ben conosce la mia vocazione di storico della ricchezza, mi ha segnalato un bell’articolo apparso sull’Economist del 6 gennaio scorso che pone sul tappeto una interessante questione che dovrebbe impegnare tutti noi curiosi in una riflessione.

Il titolo, che pone subito il tema, è “How to get rich in the 21th century”. Come diventare ricchi ai nostri giorni, insomma. Comprendete perché ho letto voracemente, l’articolo trovando molte informazioni utili e anche un paio di conclusioni che nel mio piccolo avevo intravisto nella mia opera di ricerca e messo in evidenza nel mio libro.

La prima conclusione, davvero storica, è che “lo stato è adesso molto più attivo nello sviluppo dell’economia di quanto non sia stato nei decenni recenti”. La seconda, che dal mio punto di vista è una conseguenza, è che l’impegno finanziario degli stati – che possiamo misurare osservando la quantità del loro indebitamento – è molto più elevato.

I governi di molti paesi, insomma, specie fra gli emergenti, hanno investito somme enormi per “pagare” la strada che hanno determinato fosse la migliore per perseguire il loro sviluppo. E questo per economie piccole, come la Cambogia o il Kenya, può essere un ottimo viatico verso il default. Come è successo di recente, ad esempio, in Etiopia.

Anche paesi più grandi, l’articolo pone l’esempio di India e Indonesia farebbero molta fatica ad affrontare un drastico peggioramento della loro economia. In sostanza i loro spazi fiscali, per una serie di ragioni, si sono ridotti. Se guardiamo ai paesi più ricchi, ad esempio l’Arabia Saudita, si osserva che sono ancora nel mezzo di una difficile transizione economica, che li rende ancora dipendenti dalla rendita energetica.

La terza conclusione è che il modo in cui si produce la ricchezza è cambiato. I paesi emergenti hanno puntato tutto sulla manifattura per provare a colmare il gap con gli avanzati, ma la loro evoluzione industriale sembra abbia preso nuovi percorsi. Invece di spingere sul pedale dell’aumento della produttività, molti di questi paesi hanno deciso di scommettere sulle miniere, utilizzando le occasioni offerte dalla transizione energetica, il turismo e l’assemblaggio. Tutta roba a basso valore aggiunto.

La morale della storia che il giornale trae da questa rappresentazione è che la corsa per la ricchezza nel secolo XXI sarà molto più accidentata di quella del passato.

Ma quando mai è stata facile? Quello che sembra facile, osservato a posteriori, deve esser sembrato difficilissimo ai contemporanei. E probabilmente se sfogliassimo un articolo dell’Economist degli anni ’90 ne avremmo contezza.

Su un punto però l’analisi dell’Economist tocca un punto sensibile. L’espansione dell’attivismo dei governi. Ciò che dovremmo chiederci è se tale crescente vocazione verso le politiche economiche pubbliche non rischi di scoraggiare le iniziative dei privati. Se ha senso che alcune economie, specie quelle emergenti, facciano affidamento su una mano pubblica per costruire i contesti regolatori o definire le politiche commerciali, dobbiamo sempre ricordarci che esiste sempre la possibilità che questo generi assistenzialismo ed inefficienza. La ricchezza ha molto a che fare con ciò che fanno gli individui, innanzitutto, e poi con quello che fanno gli individui quando si riuniscono in strutture istituzionali.

La storia ci mostra che la ricchezza si produce con più facilità nei paesi dove si lascia spazio all’inventiva delle persone, ben regolate da un sistema pubblico che offre garanzie di sicurezza, una certa forma di sostegno agli investimenti e certezza del diritto.

La vera domanda perciò che dobbiamo farci, circa il futuro della ricchezza, è se prevarranno realtà socio-politiche siffatte, delle quali i paesi occidentali pure se con alcuni limiti sono stati apripista, o se invece no. Perché se così non fosse allora avrebbe ragione l’Economist. Si preparerebbero anni difficili.