Etichettato: età pensionabile italiana nel confronto internazionale
Si prepara la rivolta delle pantere grigie
La resa dei conti non sarà oggi e neanche domani.
Ma dopodomani sì. Eccome.
Solo che sulle barricate non saliranno, come nella migliore tradizione, torme di giovani arrabbiati, ma arrabbiatissimi anziani, alle prese con condizioni di vita difficili, per non dire misere, frutto di un trentennio abbondante di politiche dissennate e poco lungimiranti, sia sul versante del lavoro che su quello della previdenza.
Fuor di metafora, la questione di come far sopravvivere un esercito di anziani da qui a trent’anni, ossia i giovani di oggi, è uno dei problemi più evidenziati nell’ultimo Pension at glance dell’Ocse, pubblicato pochi giorni fa.
La questione riguarda tutti i paesi avanzati che, pur con le dovute differenze relativa ai diversi sistemi pensionistici, dovranno fare i conti con un invecchiamento “storico” della popolazione, da un parte, che richiederà di destinare agli anziani risorse crescenti sotto forma di welfare (pensioni e sanità in testa) e una carenza endemica di tali risorse, che la crisi del nostro tempo ha aggravato.
Il problema demografico e quello finanziario, in pratica, si intrecciano in una situazione inusitata e potenzialmente esplosiva.
Gli anziani, in teoria, dovranno lavorare sempre di più per tenere in ordine della previdenza, ma non affatto detto che questo basti.
Entro il 2050 l’età media Ocse di pensionamento sarà almeno 67 anni, ma non è affatto detto che le regole previdenziali si accordino con quelle del mercato del lavoro che verrà. Innanzitutto perché prolungare l’età pensionabile ha un effetto diretto sulla possibilità dei giovani di trovare lavoro. Poi perché non basta dire che bisogna lavorare fino a 70 anni perché effettivamente si trovi lavoro fino a quell’età.
A ciò si aggiunga, come scrive che l’Ocse, che “le riforme delle pensioni attuate nel corso degli ultimi due decenni hanno diminuito le promesse di prestazioni pensionistiche per i lavoratori che entrano oggi nel mercato del lavoro”. Con la conseguenza che oggi “il rischio povertà è più alto per i giovani”, visto che, al contrario, per gli anziani di oggi”la riduzione della povertà in età avanzata è stato uno dei maggiori successi delle politiche sociali”.
Insomma, gli anziani di oggi se la passano benino. Il loro tasso medio di povertà è diminuito dal 15,1% del 2007 al 12,8% del 2010 e “il reddito delle persone anziane oltre i 65 anni raggiunge in media l’86% del livello medio di reddito disponibile nel’insieme della popolazione”.
Al contrario, gli anziani di domani dovranno fare i conti, oltre che con il calo generalizzato delle rendite provocato dalle riforme pensionistiche (tutti e 34 i paesi Ocse hanno riformato le loro pensioni negli ultimi anni), con gli alti tassi di disoccupazione odierni e l’alto tasso di precarizzazione, che non offrono nessuna garanzia di riuscire a cumulare un montante contributivo sufficiente ad avere una pensione. E “non sarà sufficiente innalzare l’età di pensionamento per garantire che le persone rimangano effettivamente nel mercato del lavoro”.
I giovani di oggi, quindi gli anziani di domani, si troveranno di fronte a pensioni basse o addirittura inesistenti. “I disoccupati – scrive l’Ocse – le persone ammalate e i disabili rischiano di non potere maturare adeguati diritti alla pensione”.
Altre importanti differenza distinguono gli anziani di oggi da quelli di dopodomani, spiega l’Ocse: il patrimonio, immobiliare o finanziario, di cui possono disporre.
“L’alloggio di proprietà e il patrimonio finanziario integrano le prestazioni finanziarie pubbliche. Nei paesi Ocse, in media, oltre il 75% degli ultracinquantacinquenni sono proprietari di un’abitazione (l’80% in italia), che può rappresentare un notevole contributo al tenore di vita dei pensionati. L’impatto del patrimonio sulla povertà delle persone anziane è limitato poiché il patrimonio finanziario è molto concentrato nella fascia superiore della scala dei redditi”.
Questo in generale, ovviamente, sempre tenendo conto delle differenze fra i diversi paesi.
Rimane il fatto che mentre gli anziani di oggi potranno contare sul salvagente di questo patrimonio, quelli di domani rischiano seriamente di esserne del tutto privi. Chi, oggi, riesce a mettere da parte tanto quanto basta per comprare una casa e addirittura tesaurizzare dei risparmi?
Pure tenendo conto dell’effetto-eredità, ossia della circostanza che molti giovani di oggi entreranno in possesso dei patrimoni dei loro genitori, è chiaro a tutti che non basteranno i lasciti, in mancanza di un reddito, a garantire la formazione di un patrimonio-salvagente da vecchi, da una parte, e di una pensione dall’altra.
A cosa è servito, allora, questo ventennio di riforme? Sostanzialmente a rendere sostenibile la spesa pensionistica. E’ una cambiale pagata al presente, assai più che al futuro.
Se guardiamo al caso italiano, esaminato dall’Ocse, la situazioni di criticità ci investiranno in pieno.
Partiamo da un dato. La spesa pensionistica italiana, nel 2013, ha inciso per il 30% della spesa pubblica, a fronte di una media Ocse del 17% e del 3% dell’Islanda.
La riforma Fornero è servita soltanto a garantire la sostenibilità futura dell’impanto previdenziale, obbligando al passaggio al contributivo per tutti e all’innalzamento graduale dell’età pensionistica. “Dal 2021 – scrive l’Ocse – nessun lavoratore sarà in grado di andare in pensione prima dei 67 anni e dopo l’età pensionabile andrà ben oltre il limite dei 67 anni”.
Questa esigenza nasce da un dato di fatto: l’Italia è il paese che spende più di tutti, il relazione al Pil, per le pensioni. Nel 1990 le pensioni costavano il 10,1% del Pil. Nel 2009 eravamo arrivati al 15,4%, a fronte di una media Ocse del 7,8%, un aumento del 53,3%. Sul totale della spesa pubblica, si è passati dal 19,1% del 1990 al 29,8% del 2009. Un primato assoluto, determinato anche dall’alta percentuale di pensionati in relazione alla forza lavoro. In Italia, infatti, le pantere grigie di oggi pesano il 34,5% a fronte di una media Ocse del 25,5.
E secondo le proiezioni, tale quota di spesa, malgrado le varie riforme, rimarrà sostanzialmente costante fino al 2060.
Il problema, sottolinea l’Ocse, è che “il successo delle riforme pensionistiche si basa fondamentalmente sull’andamento del mercato del lavoro”.
Da qui ne deriva che “l’adeguatezza dei redditi pensionistici potrà essere un problema per le future coorti dei pensionati”. “I lavoratori con carriere intermittenti, lavori precari e mal retribuiti saranno più vulnerabili al rischio povertà durante la vecchiaia. In secondo luogo luogo, oltre alle prestazioni sociali (assegno sociale) per le persone di 65 anni e quelle più anziane l’Italia non prevede alcuna pensione sociale per attenuare il rischio di povertà per gli anziani”.
E qui torniamo alla premessa.
Oggi non succederà nulla e domani neanche.
Ma dopodomani, in assenza di fatti nuovi e in un’epoca di bilanci pubblici al lumicino, saranno le pantere grigie a finire sulle barricate.
Padri e figli, divisi alla mèta
C’è molto più dei semplici numeri, che pure sono scoraggianti, nello scenario sociale che l’Ocse traccia nel suo ultimo rapporto sul nostro paese di cui abbiamo già parlato. Ci sono i padri (e le madri), costretti dalle nuove riforme pensionistiche, ad andare in pensione sempre più tardi, assai più che nel resto dei paesi industrializzati. E ci sono i figli che superano ogni anno il record di disoccupazione giovanile perché i padri non possono lasciare il lavoro.
Ci sono pure i padri che invecchiano, e invecchiando diventano sempre meno produttivi e sempre più costosi, vista la particolarità del nostro sistema retributivo. E ci sono i figli che man mano che invecchiano sono destinati a guadagnare di meno, perché su di loro (e non su altri) si scaricherà quella mitica flessibilità che dovrebbe salvare l’Italia, secondo il noto mainstream economico.
Su padri e su figli incombono come due giganteschi Moloch altrettanti riforme perseguite con straordinaria temerarietà e rara inconcludenza negli ultimi vent’anni: la riforma del mercato del lavoro e quella delle pensioni. Entrambe presenza fissa nell’agenda di tutti i governi, con i risultati che abbiamo tutti sotto gli occhi e che l’Ocse ricapitola bene, concludendo il suo rapporto con l’invito a “proseguire nel percorso delle riforme”.
Come se proseguire a parlare di una cosa di cui si parla da vent’anni sia normale.
Qualche numero servirà a capire la dimensione del problema.
La spesa italiana per le pensioni in rapporto al Pil è la più alta dell’area. Nel 2010 era intorno al 15% del Pil, più o meno quanto era nel 1992, quando iniziò il tormentato percorso di riforme della previdenza in nome della “sostenibilità del sistema pensionistico”.
Vent’anni di riforme, in sostanza, hanno ottenuto di stabilizzare questo peso relativo, tanto è vero, nota l’Ocse, che “il governo progetta di stare sotto il 16% del Pil per i prossimi 50 anni”.
Dovremmo essere contenti? Certo. A patto di non confrontarci con gli altri, visto che l’incidenza delle pensioni sul Pil “rimane alta nel confronto internazionale”.
In cambio di questa fatica ventennale, che di sicuro non finirà con l’ultima riforma del governo Monti, abbiamo ottenuto due cose per nulla commendevoli: l’età più alta di pensionamento dell’area Ocse, e la percentuale più alta di ultra55enni al lavoro da qui al 2020.
Due primati di cui si farebbe volentieri a meno.
Del primo abbiamo già detto, ma è utile ripetere usando le parole dell’Ocse: “La media dell’età pensionabile si presume crescerà dai 61 del 2010 ai 65 anni del 2020, un incremento assai più rapido che negli altri paesi dell’Ue. Questo avrà profonde implicazioni nel mercato del lavoro”.
E qui veniamo al secondo primato: “Nel 2020 la partecipazione degli ultra55enni dovrebbe arrivare al 57% del mercato del lavoro, un notevole incremento rispetto a 38% del 2010”. E’ probabile, scrivono che “la produttività diminuisca a quell’età”. Con grave nocumento per il beneamato Pil.
Come uscirne? “Il mercato del lavoro deve essere flessibile abbastanza da generare un calo dei salari in corrispondenza dell’allungamento della vita lavorativa”: E poiché, come ammette la stessa organizzazione, in alcuni settori, specie quello pubblico, le retribuzioni crescono con l’anzianità, chi dovrà patirla, questa flessibilità salariale?
Pagare salari più alti ai soggetti meno produttivi implica per logica pagare salari più bassi a chi produce di più. Ossia i giovani.
La soluzione Ocse si chiama flexicurity, ossia un sistema di retribuzioni che sia collegato alla produttività e che quindi preveda salari calanti al declinare della produttività lungo tutto il periodo della vita lavorativa.
Detto in parole semplici significa che gli stipendi dovranno essere elastici. Bassi in entrata, perché tanto sono giovani e hanno tempo, crescere se aumenta la produttività, e poi tornare ad abbassarsi in uscita.
Il che proiettato in un sistema previdenziale contributivo (dove quindi si incassa in relazione a quanto versato) significa pensioni basse dopo una vita di stipendi incerti.
Non fa un piega.
Tutto questo nella migliore delle ipotesi.
Nella peggiore avremo una quota crescente di anziani sul mercato del lavoro costosi e poco produttivi, costretti a rimanere in servizio (se sono fortunati) fino a tarda età, per i quali la mèta della pensione sarà sempre più una speranza e uno spauracchio insieme.
E poi avremo una larga massa di giovani che non trovano lavoro perché i posti sono occupati dai loro padri. Ragazzi per i quali la mèta di una vita normale rimane una semplice chimera.
Padri e figli: divisi alla mèta.
