Etichettato: fmi WEO ottobre 2017
Il declino economico dei fantastici Quattro
C’è poco da stare allegri a guardare le previsioni del Fmi, diffuse nell’ultimo WEO. Le prime quattro economie del pianeta – il cosiddetto gruppo dei quattro – ossia Cina, Eurozona, Usa e Giappone, esibiscono un andamento poco rassicurante. E poiché queste economie esprimono la gran parte del prodotto mondiale, ecco che l’andamento globale diventa anch’esso poco rassicurante. Anche perché il declino dei fantastici Quattro si accompagna a un timido tentativo di ripresa che promana – o almeno si prevede che promani – dal resto del mondo.
Grafico interessante, quello sopra, perché illustra come la divaricazione fra i Quattro e gli altri si consumerà fra quest’anno e il prossimo. La piccola ripresa della crescita nel 2020 – parliamo sempre di previsioni sia chiaro – che dovrebbe condurre il prodotto globale dal 3% del 2019 al 3,4 nel 2020, sarà dovuto in gran parte agli altri, visto che l’andamento dei Quattro è previsto declinare ancora. Malgrado gli enormi stimoli che queste economie stanno profondendo per rianimare la produzione.
C’è molto da dubitare sulla efficacia di questi stimoli. E tuttavia vale sempre l’obiezione che suona più o meno così: se non ci fossero stati staremmo molto peggio. Argomento che ha il pregio di non poter essere confutato perché non fattuale.
Il fatto che i Quattro siano alle prese con faticosi processi politici – la Brexit e la guerra commerciale fra Cina e Usa – è sicuramente uno dei motivi che zavorra la crescita, ma sarebbe poco avveduto pensare che siano gli unici. C’è da fare i conti con la conformazione, innanzitutto demografica, delle nostre società che casualmente (?) nei Quattro sono parecchio simili. Questi paesi invecchiano mentre si arricchiscono sempre più, anche se meno di quanto vorrebbero o di quanto servirebbe loro per sostenere il peso della loro economia.
Poiché nessuno può far ringiovanire una popolazione e solo con molta difficoltà può motivarla a esprimere una domanda aggregata più robusta, di consumi e investimenti, più robusta, al Fmi non rimane che rispolverare il vecchio ricettario che ieri proponeva politiche monetarie accomodanti, e oggi politiche fiscali sfidanti, con il meraviglioso pretesto dell’ambiente che ha bisogno di cure. Perché sia chiaro che devono pensarci i governi. Ossia gli stessi che ci hanno condotto fino a qua.
Non manca ovviamente il solito mantra per lo sviluppo di “politiche strutturali per mercati più aperti e flessibili” e sui necessari “miglioramenti nella governance” che “possono facilitare l’adeguamento agli shock e aumentare la produzione a medio termine”. Tutte cose bellissime da dire. Farlo è un altro paio di maniche. Ancora più difficile che qualcuno ci creda.
I consigli del Maître: Le retribuzioni “cattive” e le povere famiglie numerose
Anche questa settimana siamo stati ospiti in radio degli amici di Spazio Economia. Ecco di cosa abbiamo parlato.
L’età dei tassi di interesse bassi e quella del debito. Il declino dei tassi di interesse negli ultimi decenni è uno dei grandi temi del nostro tempo, almeno a giudicare dalla quantità di pagine scritte per provare a spiegarne le ragioni. Una delle ipotesi, portata avanti da una ricerca pubblicata dalla Fed di San Francisco, è che tale andamento dipenda da quello demografico. Ecco come sono andati i tassi nell’ultimo ventennio.
L’ipotesi è che l’invecchiamento coincida con un aumento del risparmio e quindi freni la spesa, finendo col rallentare l’economia e quindi generando l’abbassamento del tasso naturale di interesse. Ipotesi, quindi, che fa riferimento a quella più ampia della stagnazione secolare. Sia come sia, è interessante notare come al calo dei tassi abbia corrisposto un notevole aumento del livello totale del debito.
Qualunque sia la ragione, l’età dei tassi bassi ha finito col caratterizzarsi come quella del debito alto. E non è una caratteristica da sottovalutare.
I contratti che deprimono le retribuzioni Il Fmi ha pubblicato un approfondimento molto interessante nel suo ultimo WEO, World economic outlook, nel quale mostra come l’aumento notevole registrato dal dopo crisi dei contratti parti time e a termine abbia finito col provocare una crescita al rallentatore dei salari, pure a fronte di un aumento dei tassi di occupazione e della diminuzione di quelli di disoccupazione. L’analisi del Fondo è stata fatta anche nei diversi settori dell’economia e in diverse economie avanzate.
In cifre, i lavoratori full time e a tempo indeterminato nei settori non manifatturieri, fra il 2007 e il 2014, sono diminuiti dall’81,8% al 77,3, mentre quelli del settore manifatturiero son passati dall’87,2 all’85,9%. A fronte di questi andamenti, si è assistito a una notevole crescita di contratti part time e temporanei nei settori non manifatturieri. I part time son passati dal 9,5 all’11,8%, mentre nel manifatturiero crescevano di appena lo 0,8%, passando dal 5,6 al 6,4%. Quanto al lavoro temporaneo, nel settore non manifatturiero gli addetti sono cresciuti dall’8,6 al 10,3%, a fronte di un +0,5 (da 7,1% al 7,6%) nel manifatturiero. A fronte di questi numeri viene fuori una relazione che mostra come i cali delle retribuzioni siano più sensibili nei settori che hanno meno lavoratori a tempo pieno e indeterminato. Le retribuzioni cattive scacciano quelle buone.
L’occupazione in Italia: solo per gli over 50. Istat, insieme con il ministero del lavoro e l’Inps ha rilasciato i dati del secondo trimestre 2017 sull’occupazione che sono positivi. Nel senso che sono stati creati 437 mila posti, 329 mila dei quali però sono a termine. Inoltre, dopo l’eliminazione dei voucher, si è registrato un aumento del lavoro a chiamata di ben il 73,7%. Ma no nè tutto oro quello che riluce. I dati mostrano un’altra caratteristica.
Come si può vedere la crescita dell’occupazione si è concentrata sugli over 50 e soprattutto degli over 65. Il che fa riflettere. Si capisce bene perché il presidente Istat, nel corso della Giornata della famiglia che si è svolta la scorsa settimana abbia accennato al notevole problema dell’erosione della quota della popolazione 0-24 anni, poco più del 24% della popolazione, che si è dimezzata rispetto al 1926. La denatalità è il principale fattore di squilibrio della nostra società. E l’andamento del mercato del lavoro lo mostra con chiarezza.
Le povere famiglie italiane. La giornata delle famiglie è stata anche l’occasione per avere alcuni dati aggiornati sull’evoluzione dei nuclei familiari nel nostro paese che, in linea con quanto accade anche in altri paesi, stanno mutando profondamente.
Come si vede, le famiglie tradizionali sono in forte decrescita, a vantaggio delle persone sole o dei monogenitori. Ma quello che è interessante osservare è che l’incidenza della povertà è molto aumentata nelle famiglie più numerose.
I numeri sono sconfortanti. Il 26,8% delle famiglie con tre o più figli si trovano in condizioni di povertà assoluta. A fronte di tutto questo, il governo pensa alle pensioni.







