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I tormenti sotterranei dell’Islanda
Essendo un’isola di origine vulcanica, non dovremmo stupirci che l’economia islandese ricalchi per simpatia la fisiognomica del suo territorio, manifestandosi perciò in improvvise e violente esplosioni, che ricordano quelle dei suoi celebrati geyser, ed eruzioni che fessurano il territorio creando gravi spaccature e nubi terrificanti.
La nube vulcanica del 2010, che oscurò per una settimana il traffico aereo europeo, in tal senso, non è poi così diversa, quanto agli effetti, dall’eruzione del debito estero islandese, che scoppiò, violenta e improvvisa come un geyser, fra il 2008 e il 2009 facendo sprofondare la piccola isola nei marosi di un salvataggio internazionale e l’Europa in una delle sue ansie stagionali.
Poi dopo gran rumore, l’eruzione del debito islandese finì, dimenticata come quella vulcanica del 2010, lasciando solo a pochi appassionati osservatori di monitorare gli scossoni di quel territorio tormentato. Quindi ai vulcanologi, innanzitutto, anche se nella loro declinazione finanziaria.
Costoro, avendo a che fare con l’Islanda, che è isola vulcanica, devono guardare al profondo della sua costituzione economica per trovare traccia dei sommovimenti che minacciano la vita ordinata della superficie. Perché i tormenti islandesi, prima di manifestarsi con la loro spettacolarità, covano a lungo sottoterra.
Perciò è opportuno, di tanto in tanto, tornare ad affacciarsi a sud dell’Oceano Artico e fiutare l’aria che tira.
Personalmente lo spunto me l’ha dato un recente intervento del governatore della Banca centrale, Már Guðmundsson (“Economic outlook, monetary policy, and credit ratings”), che mi fatto venire voglia di ripescare l’ultimo staff report del Fmi sull’Islanda pubblicato a luglio e pressoché ignorato da tutti. Sempre perché i vulcani non sono mai degni di interesse se non eruttano.
Tale difetto d’attenzione, tuttavia, non è segno di lungimiranza. Un anno dopo l’ultimo mio viaggio in Islanda, ho trovato un paesaggio pressoché immutato e, semmai, un intensificarsi dell’attività sotterranea che ha finito col convincermi che non è saggio ignorarla.
Le questioni che avevo trovate aperte un anno fa sono rimaste tali. L’Islanda deve ancora fare i conti con un situazione estera assai complessa, che si regge soltanto perché sono in vigore rigidi controlli dei capitali, che di fatto tengono in equilibrio la bilancia dei pagamenti. Poi deve far fronte a un difficile deleveraging delle famiglie, imbottite di mutui insostenibili, per il quale il governo ha varato un piano di aiuti pubblici che vale l’8% del Pil. E infine deve continuare a gestire una correzione fiscale importante, per non rischiare di veder sfumare gli sforzi fatti finora.
Tutto questo agitarsi sotterraneo, in superficie si manifesta paradossalmente con una crescita del prodotto che viene quotata intorno al 3% quest’anno e addirittura al 3,5% l’anno prossimo. Col che il turista occasionale, ossia l’osservatore mainstrem, troverà di che rassicurarsi visto che un dato positivo del prodotto, in tempi in cui cresce risicato e stanco, è di per sé una buona notizia. Ma tale constatazione sarebbe, appunto superficiale.
La prima crepa si osserva con chiarezza solo che si guardi alla composizione del prodotto che, dice il nostro banchiere centrale, è previsto in crescita costante fino al 2016, sempre al livello del 3%, ma con un contributo dell’export netto che da estremamente positivo, ancora per il 2013, diventa improvvisamente negativo. “Come conseguenza – spiega – il notevole surplus di conto corrente che abbiamo visto in questi anni produrrà un piccolo deficit nel 2016”. E un deficit di conto corrente quando si ha una montagna di debito all’estero non è un buon viatico. “L’Islanda ha bisogno di mantenere un surplus di conto corrente nei prossimi anni”, osserva non caso.
Abbandono per un attivo il governatore e mi immergo nella lettura dello staff report del Fmi, che al tema della sostenibilità esterna dedica un approfondimento e la prima cosa che noto è che le proiezioni del Fmi sono assai più generose, forse perché più datate, di quelle della banca centrale. Laddove quest’ultima stima un current account negativo nel 2016, il Fmi vede un saldo positivo addirittura per il 3,4%, per poi limare lievemente fino al +2,1% del Pil nel 2019.
Un dettaglio non da poco, visto che le analisi di sostenibilità del Fmi si basano su queste previsioni e quindi anche l’ipotesi che il debito estero, al 264% del Pil, nel 2013 declini fino al 153% nel 2019.
Sulla situazione estera, inoltre, impatta notevolmente la questione dei controlli di capitale che prima o poi il governo dovrà rimuovere se vorrà tornare a far parte della comunità finanziaria internazionale. Ma è ciò che può derivarne che spaventa i vulcanologi finanziari: una volta che l’Islanda “libererà” l’enorme lago di liquidità di non residenti congelato in patria dopo la crisi, cosa succederà alla bilancia dei pagamenti? Il timore è che partano deflussi capaci di destabilizzare il sistema, come peraltro è successo con l’eruzione del 2008.
Questo dilemma si inserisce in un contesto in cui la NIIP (posizione patrimoniale netta degli investimenti, ossia la differenza fra gli asset detenuti dai residenti all’estero e quella detenuta dai non residenti in Islanda) è negativa per il 51% del Pil, sempre che vadano a buon fine i vari contenziosi provocati dal fallimento delle vecchie banche e altre entità fallite dopo il 2008. Un livello, nota il Fmi, “migliore dell’Irlanda, della Lettonia o della Polonia, ma peggiore dei paesi vicini”.
Lato interno, “il debito pubblico è cresciuto bruscamente a causa della crisi finanziari a e rimane elevato”. Alla fine del 2013 si stima fosse circa al 90% del Pil, che vi sembra poco solo perché pensate al nostro e non ricordate che prima della crisi era del 28,5%. In pratica è più che triplicato. Ma non sarebbe poi tutto ‘sto gran problema l’indebitamento pubblico, anche perché oltre il 75% è detenuto dai residenti, se non si fosse aggiunto a quello privato, che l’allegra crescita di mutui immobiliari degli anni scorsi, peraltro molti dei quali indicizzati all’inflazione, ha fatto esplodere.
In effetti il rischio fiscale più rilevante per il governo islandese è quello rappresentato dall’enorme stock di garanzie offerte dopo l’esplodere della crisi ai creditori delle varie entità, private, pubbliche e parapubbliche in debito di risorse. Si parla di una robetta da 1,2 trilioni di corone, più o meno il 71% del Pil, per tre quarti denominate in valuta nazionale, l’84% delle quali sono state emesse per l‘Housing financing fund (HFF) e la National power company. Ricordo che l’HFF era l’istituto pubblico che concedeva mutui indicizzati e che ora appare semplicemente in dissesto.
Al momento, tuttavia, il debito complessivo delle famiglie quota circa il 100% del Pil e circa l’80% della ricchezza disponibile, in calo di 20 punti dal picco del 2010. Assai più dimagrito, il debito corporate quota circa il 150% del Pil, più che dimezzato dal picco del 350% del 2008.
Con un tale livello di debito, pubblico e privato, è chiaro perché la questione dell’inflazione sia attentamente monitorata. E perché il nostro banchiere centrale sottolinei che “l’inflazione è stata sotto il target per nove mesi consecutivi (che è del 2,5%, ndr), ed è il secondo periodo più lungo da quando il target fu adottato nel 2001, ma non è escluso che possiamo superare il record del periodo novembre 2002 ottobre 2003 visto che le previsioni stimano che il tasso rimarrà sotto il target almeno fino ai primi mesi del 2015”. E ciò spiega pure perché di recente la banca centrale abbia tagliato i tassi dello 0,25%.
Dulcis in fundo, c’è la questione del cambio. La corona islandese vive in una sorta di paradiso artificiale in attesa che si definiscano gli accordi sulle banche fallite e la rimozione dei controlli di capitale, pur essendosi apprezzata dopo il crash post 2008. Il Fmi stima che sia ancora sottovalutata fra l’8 e il 16% e ciò malgrado rischiando, qualora la liberalizzazione dei capitali intervenga disordinatamente, ulteriori deprezzamenti che suonerebbero come un tuffo nel passato per la piccola Islanda.
Tutto ciò dovrebbe bastare a convincersi che i vulcani in Islanda sono in piena attività.
Pure se non si vede.
Ma poi, com’è finita in Islanda?
C’è stato un momento che la gloriosa informazione democratica ha trasformato l’Islanda nell’unico baluardo contro i satrapi della speculazione.
Accadeva un paio di anni fa. E molta gente si convinse che davvero l’Islanda stava innovando le relazioni economiche internazionali e quelle politiche. Fece scalpore, per dirne una, l’idea di scrivere la nuova Costituzione on line. Ma fece ancora più scalpore la notizia che un piccolo paese europeo stava ripudiando parte del suo debito estero, cosa che fu raccontata come default statale e fregatura per il soliti poteri forti.
Molti celebrarono questa notizia come il trionfo del popolo contro l’avidità dei banchieri e della finanza.
E giù applausi.
Senonché, dopo gli applausi, l’Islanda è scomparsa dalle cronache.
Ma com’è finita laggiù?
Aldilà della letteratura dell’epoca, che pure è suggestiva, vale la pena, sommessamente, ricordare che proprio mentre ripudiava parte del suo debito estero, creando una piccola crisi internazionale che coinvolse Gran Bretagna e Olanda, l’Islanda si faceva prestare dal Fondo Monetario quei due-tre miliardi di euro necessari a non far sprofondare l’isoletta nell’Oceano Artico. Quindi accendeva altri prestiti sovranazionali.
Chiaro che ancora oggi il Fondo, che ha prescritto all’Islanda la solita cura da cavallo per avere accesso ai suoi prestiti, monitori molto attentamente l’andamento dell’economia nel paese. E vale la pena leggere l’ultimo staff report pubblicato pochi giorni fa perché è una splendida cartina tornasole di cosa succede a un paese quando l’economia va a picco. Buono a sapersi, visto che la Weltanschauung sull’evoluzione delle crisi che si sta affermando nel dibattito europeo prevede che gli stati possano tranquillamente fallire, proprio come una banca.
E allora vediamo.
Nel 2008, quando le banche islandesi collassarono a causa della loro pesante esposizione verso i titoli tossici, successero innanzitutto due cose:
1) il cambiò collassò, con svalutazione della corona per oltre l’80% in termini nominali, mentre l’inflazione schizzò al 18%.
2) Il Pil si contrasse del 12% e il debito pubblico, pompato allo sfinimento dopo la nazionalizzazione delle banche, passò dal 30% al 100% (dato 2011).
Vale la pena sottolineare che il collasso delle principali banche islandesi ha finito col provocare anche quello della Banca centrale islandese, che aveva pompato credito nelle banche garantito dagli attivi delle stesse. Spariti questi, sparì anche il capitale della Banca centrale, che di conseguenza ha dovuto essere ricapitalizzata dallo stato, per la gioia del debito pubblico. Alcuni studiosi calcolano che solo tale ricapitalizzazione sia costata allo Stato circa il 17% del Pil.
Le autorità islandesi, d’intesa con il Fondo monetario, misero in campo notevoli restrizioni dei movimenti dei capitali per fermare il crollo della moneta e allo stesso tempo misero in piedi un piano di riequilibrio fiscale per riassorbire l’esplosione del debito. Quindi finanza repressa e cura da cavallo contro la sbornia da debito privato (che come al solito finisce in capo allo Stato) che aveva fatto sballare le banche.
Il male (liberi capitali e debito a go go) e la cura (controlli sui capitali e deleveraging).
Quattro anni dopo, scrive il Fondo, si vedono i primi risultati e l’economia sta gradualmente tornando alla normalità. I controlli di capitali hanno messo fine “al circolo vizioso svalutazione-inflazione”. Il consolidamento fiscale “ha condotto a un avanzo primario del bilancio pubblico e a una correzione verso il basso del debito”. Si è passati da un deficit del 6,5% a un surplus dello 0,9% “senza intaccare troppo il modello di welfare nordico”.
Le banche islandesi, che adesso sono tenute sotto stretta sorveglianza (prima avevano accumulato asset per il 900% del Pil facendo quello che volevano) appaiono ben capitalizzate con sofferenze declinanti, dal picco del 18,3% all’attuale 6,4%.
Il debito privato, di famiglie e imprese, è in calo. Anche la posizione esterna è migliorata, il che ha permesso all’Islanda di accumulare riserve superiori all’ammontare del proprio debito a breve. Nel 2011 è tornata la crescita e l’inflazione si è normalizzata (intorno al 3%). L’Islanda, di conseguenza, è tornata nel perimetro della finanza normale.
Le agenzie di rating sono tornate a prezzare il suo merito di credito e il mercato l’ha di nuovo accolta fra le sue ampie braccia. Nel 2011 e nel 2012, infatti, sono stati emessi bond denominati in dollari, per la gioia del debito estero.
Solo che la cura portà sempre con sé i germi di altre malattie.
La corona islandese, scrive il Fondo, si è deprezzata del 40% in termini reali, portando un notevole miglioramento di competitività. La svalutazione della corona ha favorito molto le entrate da turismo, più che da vendita dei beni. Ma soprattutto la svalutazione “ha ridotto il costo unitario del lavoro, compensando gli aumenti salariali e incoraggiando l’afflusso di investimenti diretti”.
Per dare un’idea quanto sia diminuito il costo reale del lavoro, basta osservare che, fatto 100 il livello dei salari nel 1995, nel 2007 l’indice quotava 200. Due anni dopo era tornato a 100 e ora è poco sopra. In pratica le retribuzioni reali sono tornate indietro di vent’anni, malgrado l’incremento nominale sia stato, dal 1998 al 2011, il più alto dell’area.
Questo tanto per capire chi paga il conto, quando un paese va a gambe per aria.
Se guardiamo alla crescita, viene fuori che il livello del Pil è ancora sotto il 10% del picco raggiunto prima della crisi, e dopo esser cresciuto del 2,9 nel 2011 e dell’1,6% nel 2012, ora soffre a causa dell’indebolimento della domanda estera. E non solo. La cura per dimagrire dai debiti sta facendo soffrire anche il consumo e gli investimenti domestici, anche perché lo Stato, alle prese con il consolidamente fiscale, non può spendere granché.
Quanto al controllo dei capitali, se fa bene alla bilancia dei pagamenti e al settore finanziario, fa male alla fiducia, scrive il Fmi, e limita gli investimenti. E questo alla lunga può danneggiare il paese, scrive il Fondo, che nota “i lenti progressi nella rimozione dei controlli di capitale”.
Sembra di capire che la cura (i controlli di capitale) stia diventando il male.
Vi sembra schizofrenico? E’ l’economia, bellezza.
Il passato, peraltro, porta con sé un pesante fardello. Le banche sono ancora gonfie di asset “cattivi”, dovendo fare i conti con una gran quantità di prestiti di valutazione incerta la cui liquidazione, scrive il Fondo, “condurrà alla distribuzione di un largo stock di asset domestici, il 40-50% del Pil, a non residenti”, per la gioia della bilancia dei pagamenti.
In più il paese galleggia su una montagna di liquidità di provenienza off shore affluite in Islanda ai tempi della bonanza e ora bloccata dai controlli valutari che cerca disperatamente impieghi redditizi e mette sotto pressioni il valore degli asset interni, a cominciare dal mercato immobiliare. Questa montagna di soldi, circa il 22% del Pil, è previsto rimanga in Islanda almeno fino al 2016, un anno dopo il precedente impegno, vista la riluttanza del governo ad allentare la morsa dei controlli sui capitali. Riluttanza comprensibile, ma che il Fondo stigmatizza, invitando il governo a una credibile road map per arrivare a una normalizzazione di tali controlli.
Poi c’è la questione dei debiti interni, a cominciare da quelli delle famiglie, che, malgrado il calo, sono ancora alti, circa il 110% del Pil.
Gli islandesi si erano riempiti di mutui, seguendo l’euforia immobiliare del tempo, che le banche concedevano con tasso legato all’inflazione. Sicché quando l’inflazione è schizzata in su, i debiti delle famiglie hanno seguito la stessa traiettoria. E non parliamo di piccole cifre. Il Fondo calcola che l’85% dei mutui esistenti fu stipulato fra il 2005 e il 2007, al picco dell’euforia.
Dopo la crisi è intervenuta una sentenza di tribunale che ha definito illegali questo tipo di prestiti, che ha condotto a una loro ristrutturazione, in virtù della quale il debito delle famiglie è sceso del 14% e quello delle imprese del 45%. Ma per tornare alla normalità, ossia a un debito sostenibile, il percorso è ancora lungo. Negli anni ’90, quando scoppiò la crisi bancaria nei paesi scandinavi, ci vollero otto anni di faticoso deleveraging perché i debiti di svedesi e finlandesi diminuissero del 30%.
Tale mole di debiti ha avuto un impatto molto forte sui consumi privati, ancora sotto del 20% rispetto al picco pre crisi e altrettanto vale per gli investimenti domestici. Col risultato che la crescita del Pil è prevista modesta per i prossimi anni.
Tale rallentamento mette a rischio il consolidamento fiscale, sul quale pesano anche alcune situazioni tuttora irrisolte.
Una di queste è la gestione dell’Housing financing fund (HFF), ossai dell’organismo statale che concedeva mutui indicizzati all’inflazione e che adesso, anche in conseguenza del mutato orientamento giuridico islandese, perde un sacco di soldi, che richiedono trasferimenti statali per circa lo 0,2% del Pil solo per matenere lo status quo e potrebbe condurre a una robusta iniezione di capitali pubblici per portare i suoi requisiti patrimoniali al 5%.
L’ente statale, infatti, ha accumulato perdite per 52 miliardi di corone dal 2008, il suo livello di capitalizzazione è basso (il 3,2% a fine 2012) e le sue sofferenze ancora alte (il 14,8%). Con l’aggravante che l’ente statale dei mutui è profondamente interconnesso con i fondi pensioni, che avevano investitito massicciamente nelle sue obbligazioni “statali”.
Insomma: è la punta di un iceberg.
E allora, com’è finita in Islanda?
E’ finita che nel pieno della crisi, nel 2009, dopo aver chiesto l’assistenza del Fondo Monetario, il governo chiese pure di entrare nell’euro sperando nel solito “dividendo” della moneta unica.
Ora il nuovo governo, vincitore delle elezioni dell’aprile scorso, ha bloccato i colloqui con l’Ue.
Chissà come mai.
