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Diplomazia dei prestiti esteri: L’impero di Nylonkong

Che si vada verso un Medievo di fatto, se non di diritto, è stata una felice intuizione del filosofo russo Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev, che ne discusse in un testo (“Nuovo Medioevo”) pubblicato nel lontano 1923 a Berlino, dove preconizzava la fine della modernità e l’inizio di un tempo dove “tutti gli aspetti della vita andranno a collocarsi sotto il segno della lotta religiosa, esprimeranno principi religiosi estremi”.

Uno di questi “principi religiosi estremi” è senza dubbio il denaro, che ha creato una diplomazia assai potente e parallela a quella che i giuristi chiamano global polity, ossia la congerie di organizzazioni, statali, sovrastatali e interstatali che regolano le sorti della globalizzazione, idea neo-medievale anch’essa, a ben vedere.

La diplomazia del denaro, che viene declinata con gli investimenti esteri, a cominciare da quelli di portafoglio, ci racconta in conclusione di un nuovo Impero assolutamente coerente con lo scenario del “Nuovo Medioevo”, che ovviamente ha anche una sua capitale: Nylonkong.

La scoperta di Nylonkong si deve ai redattori di Time, e risale al 2008. Coniarono questa fortunata crasi delle capitali dei tre continenti economici che costituiscono l’Impero: New York per gli Usa, Londra, per l’Eurasia occidentale, Hong Kong per l’Oriente, la migliore declinazione possibile della vecchia capitale d’Oriente, Costantinopoli. La lingua ufficiale dell’Impero, quindi, è l’inglese, anche se a Hong Kong (che comunque è un ex territorio britannico entrato nell’Impero inglese ai tempi della guerra dell’oppio) si parla il Mandarino. Il lavoro principale dell’Impero è muovere quantità incredibili di denaro che, come un ponte fatto d’oro, sovrasta e incanta l’Asia e il resto d’Europa, lasciandone tracce assai visibili nei paradisi fiscali più conosciuti.

Le Cayman, ad esempio, anche questo territorio inglese, tanto per cambiare, dove gli Usa, a metà 2013, avevano portato 870 miliardi di dollari di investimenti esteri di portafoglio, oltre dieci volte tanto rispetto ai 71 miliardi del 2001.

Non inganni la circostanza che Nylonkong sia tripartita. La connessione di interessi che lega le tre capitali è talmente fitta che non esagerato parlare di unità nella trinità. La città stato di Hong Kong, che evoca lontani tempi andati, declina il suo spirito in skyline simili allo stato-città di New York, con la vecchia Londra in mezzo, quasi fosse una stazione di servizio dove far ristorare gli inesausti spalloni internazionali. Sosta dalla quale trae notori benefici.

Anche qui, basta far parlare la statistica.

Se si somma il totale degli investimenti di portafoglio delle tre nazioni si superano i 12 trilioni di dollari, che come una morbida ragnatela, avvolgono l’Impero. Le tre città s’imprestano vicendevolmente, si prestano soccorso e condividono affari, costringendo il resto del mondo a mercanteggiare denaro secondo le loro regole. Non a caso le tre città hanno assunto lo status di principali centri finanziari del mondo, traendone ognuna l’evidente beneficio di un Pil pro capite elevatissimo, malgrado le numerose milioni di abitanti che esse ospitano.

Ma ancor più del dato aggregato, è l’esame dei flussi che ci racconta come il denaro spieghi la sua incredibile potenza nei vasti dominion imperiali.

Hong Kong, ad esempio, dedica oltre un terzo dei suoi investimenti di portafoglio, quasi mille miliardi di dollari (966, per la precisione) alla madrepatria cinese. Parliamo di oltre 300 miliardi, che è più di trenta volte di quanto fossero nel 2001. Da notare come tali investimenti siano raddoppiati dal 2009. Ma salta all’occhio come il paradiso fiscale dei cinesi, che il Fmi individua come una delle principali basi d’appoggio dello shadow banking cinese, non disdegni di localizzare 207 miliardi alle solite Cayman, dove evidentemente gli interessi cinesi e quelli americani s’incrociano amorevolmente sotto l’egida benedicente del capitale.

Ma ancora più degni di nota gli investimenti di Hong Kong in Australia, che dopo la madrepatria, le Cayman e il Lussemburgo (il nostro paradiso fiscale) si classifica in quarta posizione fra i luoghi di interesse degli investimenti della città-stato con una trentina di miliardi di dollari, persino più della Corea del Sud (17 miliardi).

Sarà merito della solidarietà anglofona, come lascia supporre anche il corposo flusso di investimento che l’Australia attrae dal Regno Unito  (94 miliardi) e, ovviamente, dagli Stati Uniti (336 miliardi).

Ciò spinge la longa manus dell’Impero fino all’estremo del Pacifico e ne sintetizza bene  la pervasività. L’Australia, dal canto suo, ricambia affettuosamente, visto che la gran parte dei suoi investimenti di portafoglio (536 miliardi) si distribuiscono fra Stati Uniti (per lo più sul mercato azionario) e Gran Bretagna.

La posizione geografica delle tre capitale, inoltre, è squisitamente strategica. La città stato asiatica è il ponte ideale con il Giappone, antesignano della deriva asiatica del capitalismo americano. Il Giappone, infatti, è uno dei più grandi compratori di asset americani fin dagli anni ’80. Ma non solo. Oggi, dei suoi 3.224 miliardi di investimenti di portafoglio all’estero (giugno 2013) l’America ne assorbe 1.042, la Gran Bretagna 183,278 e l’Australia un’altra ventina. Un po’ più della Francia e della Germania. Noi italiani appena 3,3 miliardi, al livello dell’India e dell’Indonesia.

Le solite Cayman un altro centinaio, concentrati nel mercato azionario.

E’ in questo sposarsi per interesse, intrecciando legami finanziari nei quali le banche anglossasoni sono insieme officianti e controparti, che l’Impero trova la sua ragion d’essere, di fronte alla quale i goffi tentativi europei, culminati nell’eurozona, sono un pallida emulazione. L’Asia e l’America sono l’enorme tenaglia rispetto alla quale l’eurozona è poco più di una nocciolina. Una provincia dell’Impero. Un luogo di villeggiatura.

Tralasciamo per un attimo i flussi finanziari, in fondo sono solo soldi. Assai più importante per capire quanto siano intime le tre città osservare la ragnatela di collegamenti sotterranei che le compagnie di telecomunicazioni hanno steso sotto gli oceani e che tessono le connessioni di Nylonkong.

La sola Hong Kong è il punto di snodo di dieci cavi sottomarini (FLAG Europe-Asia (FEA), SeaMeWe-3, FLAG North Asia Loop/REACH North Asia Loop, APCN-2, Asia-America Gateway (AAG) Cable System, Tata TGN-Intra Asia (TGN-IA), Asia Pacific Gateway (APG), Asia Submarine-cable Express (ASE)/Cahaya Malaysia, EAC-C2C, Southeast Asia Japan Cable) che la collegano a maglia stratta con l’Asia che conta e a maglia larga, ma molto performante, con i centri angloamericani.

Nell’età di internet questi collegamenti valgono più dell’oro. Sono le strade ferrate della modernità.

E sarebbe bene chiedersi chi li gestisce e a chi appartengono.

Ma questa è una storia che vi racconterò un’altra volta.

(4/fine)

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L’euro e la crisi gonfiano il portafoglio (e il mattone) dei tedeschi

Non è mai sintomo di buona educazione sbirciare i portafogli altrui, col pretesto magari che il nostro è vuoto. E se è probabilmente vero, come ha scritto qualcuno, che l’invidia è uno dei motori immobili del capitalismo, è vero pure che dovremmo imparare ad essere qualcosa di più della semplice somma dei nostri istinti, specie quando allignano nelle parti basse.

Questo mi dico e mi ripeto mentre leggo il bollettino mensile della Bundesbank del febbraio scorso, che dedica alcune pagine all’evoluzione del portafoglio finanziario delle famiglie tedesche e poi di un’altra fonte di ricchezza che non entra in un portafoglio, ma di sicuro ne influenza il peso relativo: il mattone.

Tutto questo sempre in uno spirito non di invidioso risentimento, ovviamente, ma di curiosa ficcanasaggine.

Comincio dagli asset finanziari, che dicono molto del carattare di un popolo. Il dato aggregato illustra quanto l’avvento della moneta unica abbia giovato alle finanze tedesche. Anzi, per dirla con le parole della Buba, “gli asset finanziari delle famiglie tedesche sono aumentati significativamente dal lancio dell’Unione monetaria”.

A far data dal 1999, quando l’euro iniziava a vagire, a finire al terzo quarto del 2013, vediamo il portafoglio finanziario familiare gonfiarsi da 3.257 miliardi a 5.070, un incremento di oltre il 55% in 15 anni, che vuole dire una crescita costante media della ricchezza finanziari del 3,66% l’anno.

Anche se poi in realtà non è andata così.  Negli anni 2001-2 e 2008-9 il flusso di crescita di è interrotto, ritracciando persino verso il basso. Alla fine del 2008, tanto per dire, la montagna di soldi era diminuita del 3,9% rispetto all’anno prima. Ma è stato un momento. L’anno successivo la montagna era già tornata più alta e solida di prima.

Interessante però vedere come sia cambiato l’assortimento, in questo portafoglio.

Prima della crisi il 30% di questa ricchezza si rivolgeva al mercato monetario, che arriverà al 34% al picco dell’incertezza. All’interno di questa quota sono cresciuti i depositi a vista a fronte di un calo, in un ambiente di tassi declinanti, nei depositi a lungo termine.

Fra gli investimenti a lungo termine, si nota l’andamento, parallelo a quello osservato per gli strumenti monetari, in assicurazioni e forme pensionistiche complementari, mentre è declinata considerevolmente la quota di ricchezza investita in bond a lungo termine ed azioni, scesa dal 35% del 1999 al 22,3 del terzo quarto 2013. Le famiglie tedesche, insomma, oltre alla virtù della frugalità hanno maturato una certa diffidenza verso il rischio come conseguenza della crisi. La decisione di investire in forme assicurative e previdenziali, poi, conferma questa simpatica evoluzione.

La crescita della ricchezza ha riguardato anche gli asset non finanziari che “hanno registrato una marcata crescita dal 1999 in poi”. Questi effetti, spiega la Buba, “sono probabilmente da attribuire in larga parte alla proprietà residenziale che fa la parte del leone fra le attività non finanziarie delle famiglie e che è aumentata in valore negli ultimi anni”. Dal 2010, infatti, è cresciuta la domanda di mutui per comprare abitazioni, incoraggiata dai tassi bassi.

La questione del mattone preoccupa non poco la Buba, che ha imparato bene la lezione su quanto sia rischiosa una crescita incontrollata dei corsi immobiliari. La banca centrale tedesca, infatti, ne ha fatto materia di approfondimento anche in questo bollettino, notando che “il prezzo delle case in Germania continua il suo forte trend di crescita”. Tuttavia, malgrado le rilevanti pressioni sui prezzi osservate in alcune aree e per alcune tipologie di case, “considerando la Germania nel suo insieme, siamo ancora nella situazione che i prezzi delle case non generano grandi rischi macroeconomici”.

Sarà. Rimane il fatto che i prezzi, considerando un campione di 125 città, sono cresciuti del 6,25%, nel 2013, rispetto al 2012. Il che, confrontando con l’andamento del mercato immobiliare nel resto dell’eurozona, fa della Germania un caso più unico che raro. “Tutto ciò – scrive la Buba – fa sì che la proprietà residenziale sia diventata di un quinto più costosa da quando è iniziata l’accelerazione dei prezzi, dal 2010”. Ma significa anche, aggiungiamo noi, che chi aveva mattone nel 2010 ha visto crescere il media il valore del suo immobile del 20% in tre anni.

Quindi, volendo fare due conti della serva (che notoriamente è una ficcanaso) una famiglia tedescha dotata di immobile e asset finanziari ha potuto contare su una crescita della sua ricchezza di tutto rispetto, fra il 2010 e il 2013, sommando il circa 10% degli asset finanziari (i 3,66% l’anno medio nominale che abbiamo visto) e un altro 20% sugli immobili. Quindi se la mia famiglie tedesca avesse avuto 100 euro investiti in attività finanziarie e 1000 in mattone, a fine 2013 avrebbe 1.210 euro: un guadagno del 21% nominale.

Non è stato solo l’euro a fare la fortuna della Germania, insomma.

Anche la crisi è stata utile.