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La versione di Weidmann sul futuro dell’EZ

Poiché è sempre la Germania l’oggetto dell’attenzione di tanti, che ora ammirano il suo innegabile successo economico, ora lo stigmatizzano per gli eccessi dei suoi surplus o per il modo in cui il paese l’ha conquistato, vale la pena leggere le riflessioni di un illustre tedesco che ha la ventura di governare la Bundesbank, ossia l’azionista di maggioranza della Bce che rappresenta al contempo una sorta di ortodossia monetaria che di recente proprio con le pratiche della Bce è andata in urto.

La versione di Weidmann, in tal senso, diventa vieppiù interessante da conoscere quando si riferisca, come è stato di recente, al futuro dell’Unione monetaria europea che i tanti tormenti seguiti alla crisi fa apparire a dir poco complicato, sempre sul crinale di un’improvvisa evoluzione, che può significare – letteralmente – vita o morte per l’imponente costruzione istituzionale edificata negli ultimi sessant’anni.

Mi sorbisco perciò curioso le riflessioni di Weidmann, contenute in uno speech (Aspiration and reality – the situation in the European monetary union) che il presidente della Buba ha tenuto il 15 settembre scorso a Karlsruhe e come sempre mi stupisco del tono, a metà fra l’accademico e il bibliofilo. E poi della scelta delle citazioni: prima Aristotele e poi Mark Twain, quando disse, commentando un necrologio celebrante il suo decesso, che la notizie circa la sua morte erano esagerate. Ovviamente l’annuncio del decesso è riferito all’eurozona, che molti danno (o si augurano) in fase terminale.

Ma anche qui, serve ricordare un po’ di storia. Citando Jean Monnet, Weidmann distingue due visioni che hanno finora guidato il processo dell’unificazione europea. Quella, di cui Monnet fu un grande sostenitore, e che passava dall’economia per arrivare alla politica – si cominciò dalla CECA e si finì con l’euro – e per la quale le crisi sono un fattore di accelerazione, che viene chiamata “La teoria della locomotiva”, e quella che vede nella Buba una decisa sostenitrice, cosiddetta “Teoria dell’incoronazione” (coronation theory), secondo la quale sarebbe stato opportuno che l’unificazione monetaria arrivasse alla fine del processo di integrazione europea. Il timore era che senza la seconda, la prima sarebbe stata condannata a vivere sempre sul crinale della crisi, e non si può dire che le cronache degli ultimi anni non confermino tale timore.

Ciò che in comune hanno  i sostenitori di queste due diverse strategie è che l’Europa disunita non può farcela in un mondo dove, negli anni ’50 come oggi, agiscono grossi player internazionali. E su questo consenso che potremmo chiamare geopolitico, se ne aggiunge un altro, ossia che l’Europa debba essere un luogo di prosperità, convergenza e integrazione. “Numerosi studi – osserva – sono giunti alla conclusione che il mercato unico ha condotto a una maggiore prosperità in Europa”, con ciò volendo dire che l’Unione funziona, ma che adesso è il momento di ripensare il metodo.

Insomma: sui fini sono tutti d’accordo – e stendiamo per adesso un velo su quanto non lo sono – la divergenza è sulle modalità. Il metodo Monnet, chiamiamolo così, viene oggi seriamente questionato e ciò offre a Weidmann la possibilità di esplorare i principi sulla base dei quali l’Unione dovrebbe proseguire il suo cammino, specie adesso che l’addio dell’UK al progetto Ue mette a dura prova la determinazione dei partner a proseguire. E per questo occorre discutere dei principi che dovrebbero animare l’azione comune.

Il primo di questi principi, assai caro a Weidmann e alla tradizione ordoliberale che il governatore della Buba cita espressamente, è il principio della responsabilità. In sostanza il rifiuto di “socializzare le perdite e privatizzare i guadagni“, che negli anni ha condotto a costosissimi bail out di banche in odore di fallimento a spese dei contribuenti. “Chi beneficia del mercato deve anche farsi carico delle perdite”, dice citando Walter Eucken. Ben sapendo che non basta fare le regole – e le cronache sull’applicazione del bail in nel nostro paese sono lì a mostrarlo – ma bisogna pure applicarle. “Se gli attori economici non tengono in conto di doversi far carico delle perdite assumeranno più rischi, che è ciò che ha portato alle ultime crisi finanziarie”, dice il governatore tedesco.

Sulla base di questo principio, vagamente inattuale, si può iniziare a ragionare sul modo per migliorare l’Unione monetaria cominciando dalla constatazione che la costruzione dell’EZ “è unica nel mondo”. Nel bene e nel male. E questa è la ragione della sua vulnerabilità. La sua unicità, ad esempio, si estrinseca nel regime fiscale che rimane di gestione nazionale mentre il coordinamento europeo si riduce a tutta la burocrazia dei vari fiscal compact che produce solo moniti e sfiancanti dibattiti fra i governi e Bruxelles che noi italiani conosciamo bene. “Perché – si chiede Weidmann – non abbiamo scelto il cammino intrapreso da altre aree valutarie come gli Usa o il Canada trasferendo il livello economico e fiscale a livello europeo?”.

Bisognerebbe scomodare la storia per rispondere a questa domanda. Oppure scegliere la risposta più facile, che ha il pregio di aderire ai fatti: gli stati europei semplicemente non vogliono. “Ultimamente Berlino, Parigi e Roma hanno deciso di decidere autonomamente le loro scelte economiche e fiscali invece di prendere queste decisioni insieme a Bruxelles”, dice il banchiere. Ciò in quanto “una politica comune è differente da un mercato comune”. Ed ecco la critica più velenosa alla visione della “Locomotiva”. Aggregare partendo dall’acciaio e dal carbone per finire con l’euro e l’unione bancaria, e adesso pure con l’integrazione del sistema dei pagamenti non basta a dedurne che gli stati, quando poi si tratta di decidere delle tasse e di come spenderle, si facciano “consigliare” da Bruxelles.

Sicché ci troviamo nella situazione, assai difficile da mutare, in cui una politica monetaria comune, e persino un mercato comune, sono associati a una politica fiscale nazionale, appena temperata da norme di coordinamento di cui si infischiano tutti. Mutuando Woody Allen, anche lui citato nello speech, è come se con il matrimonio dell’unione monetaria gli stati europei abbiano tentato di trovare soluzione a problemi che erano incapaci di risolvere da soli.

Questa sorta di rompicapo merita di essere risolto. Weidmann, come tanti, è convinto che l’UE abbia meritato il premio Nobel per la pace nel 2012. Ma è sul come continuare a meritarselo che si consumano le differenze. I teorici della “Locomotiva” suggeriscono che si debba procedere integrando economia e fisco come si è fatto con la moneta. “Ma ci troviamo di fronte allo stesso stop affrontato dagli architetti dell’unione monetaria quando fu fondata: gli stati membri non vogliono rinunciare alla loro sovranità”.

L’alternativa, non essendoci il clima giusto per firmare nuovi trattati, è di applicare quelli che già esistono. Quello che Weidmann chiama “l’approccio decentralizzato”. Che significa? In pratica impedire che i guai di uno stato si riverberino sull’intera unione. Il che somiglia poco alla buona e cattiva sorte che dovrebbe essere alla base dei matrimoni, ma tant’è: noi europei per i matrimoni, evidentemente, non siamo portati. Fuor di metafora, “deve essere possibile in futuro che uno stato pesantemente indebitato possa fallire come soluzione di ultima istanza senza che ciò metta in ginocchio il sistema finanziario e costringere la comunità a un salvataggio”.

“Questa opzione – prosegue – è auspicabile significhi che i mercati dei capitali esercitino la loro disciplina nei confronti della politica fiscale, in modo che per un governo non sia mai necessario fare default”. E questo implica, ad esempio, tagliare il nodo fra debito sovrano e banche residenti, che in fondo è una forma surrentizia di bail out strisciante dello stato da parte del sistema bancario, e che ci riporta al principio fondamentale: quello della responsabilità.

La logica che vale per la politica fiscale, ovviamente, vale anche per la politica monetaria. Anche su questo versante le riflessioni di Weidmann sono coerenti con la sua weltanschauung. La stabilità monetaria consente a un investitore di calcolare correttamente i suoi ritorni sugli investimenti e per questo deve essere perseguita ad ogni costo: dà ordine alle aspettative e quindi agli investimenti. La Bce ha il problema che in questi ultimi anni, e malgrado i cospicui sforzi, non sta centrando il suo impegno di tenere l’inflazione vicina al 2%. “L’inflazione core, quindi al netto della componente petrolio, è ancora intorno all’1%”, dice Weidmann. Ed è solo questo che legittima agli occhi del governatore della Buba il perseguire le attuali politiche monetarie. “Ma non è un segreto che le misure di policy possano produrre più degli effetti desiderati: comportano anche rischi e effetti non previsti”.

Fra questi, oltre alle banche – Weidmann è tutt’altro che tenero con le banche tedesche – c’è anche quello che gli stati si abituino a una banca centrale che copra i loro debiti. Insomma, si indebolisce l’incentivo alla responsabilità individuale che l’attuale framework dei trattati assegna ai singoli stati. “Dobbiamo evitare – sottolinea – di gettare l’Eurosistema nell’acqua”.

Aldilà dei tecnicismi, che Weidmann non lesina, il succo del suo pensiero è molto semplice. Non potendo , al momento, l’eurozona contrattare un nuovo stare insieme, deve usare al meglio ciò che c’è, fino alle sue conseguenze estreme. Ciò allo scopo di ricordare ai politici la promessa che fu fatta al momento dell’introduzione dell’euro, ossia “che sarebbe stato stabile come il marco e che l’unione monetaria sarebbe stata stabile”. “Ricordare le promesse ed essere affidabili e credibili è una precondizione centrale per riguadagnare la fiducia politica nell’Europa”. Insomma, i nostri coniugi devono imparare a camminare con le proprie gambe se vogliono che il matrimonio funzioni. Non sarà poetica, questa visione, ma non è richiesto a un banchiere di essere lirico. Diverso è dire che piaccia.

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La battaglia inosservata che cambierà banche e stati

Prosegue, con implacabile costanza, la battaglia pressoché inosservata che i regolatori hanno ingaggiato ormai da anni per arrivare a una sostanziale rivoluzione del modello che finora – e non è esagerato dirlo – ha retto in piedi le finanze pubbliche di molti stati. Ossia la prassi di molte banche commerciali di acquistare bond pubblici del proprio paese di residenza. L’ultima puntata di questa lunga contesa si è svolta pochi giorni fa, durante l’Ecofin, quando si è consumata l’ennesima spaccatura europea proprio sulla proposta sponsorizzata da alcuni paesi nordeuropei, Germania in testa, di porre limiti al possesso di titoli di stato da parte delle banche. Il fronte del no, nel quale militano Francia e Italia, ha impedito che la proposta evolvesse in norma. Ma sbaglierebbe chi pensa che sia finita qui.

La questione infatti, pure se al momento è stata derubricata dal tavolo dei politici, rimane ben aperta su quella dei regolatori internazionali, e in particolare il Comitato di Basilea, ai quali i politici dell’Ecofin, e non a caso, hanno dichiarato di volersi ispirare. Non si tratta di uno stop, perciò, ma solo di un rinvio. Vale la pena perciò riepilogare il perché e il percome.

All’indomani della crisi del 2010, e in particolare nel 2011, nel nostro paese la tendenza delle banche a comprare titoli di stato è diventata dilagante. Di fronte alla sparizione degli acquirenti esteri le banche commerciali sono diventate grandi prenditrici di debito pubblico italiano, con ciò – a volerla vedere in chiave patriottica – contribuendo a stabilizzare gli spread. Oppure, volendola vedere in chiave più utilitaristica, così facendo le banche si sono riempite di debito “sicuro” che rivestiva il notevole vantaggio di non richiedere accantonamenti prudenziali, e quindi capitale, per essere sostenuto. Questi motivi, probabilmente concorrenti, sono quelli che hanno originato l’idea che occorra spezzare il nesso fra sistemi bancari e stati sovrani.

Il problema, secondo molti, è tutto qua. Da una parte questo sistema garantisce agli stati che qualcuno comprerà i suoi titoli. Dall’altra le banche avranno sempre un investimento “sicuro” e poco costoso in termini di capitale che le renderà meno interessate ad esplorare investimenti alternativi. Questa visione, che la Bundesbank è stata la prima a sponsorizzare, piano piano ha scalato i piani alto della Bce che, non a caso, ne tratta nel suo ultimo rapporto annuale.

“La recente crisi finanziaria  – ha scritto la Bce – ha dimostrato l’inadeguatezza della nozione implicita secondo cui il debito sovrano è privo di rischio, rendendo necessaria una revisione dell’attuale schema di regolamentazione del rischio sovrano. La modifica della regolamentazione finanziaria in questo ambito richiede una soluzione globale che garantisca alle banche condizioni di parità”

Di recente, inoltre, il tema è finito all’attenzione dell’Esm, e anche della Banca d’Italia, che ha pubblicato un paper nel quale si evidenziano i rischi per la stabilità macroeconomica e finanziaria che potrebbero derivare da una regolazione più stringente sulla materia. Quest’ultima è già oggetto di un’attività di revisione della quale si sta occupando il Comitato di Basilea, che agisce nel seno della Bis, e al quale è stato demandato l’incarico di trovare una difficile quadratura del cerchio. Difficile perché bisogna tenere conto degli effetti che tale regolazione potrebbe avere su economie assolutamente differenti, con sistemi bancari differenti e condizioni di finanza pubblica che lo sono altrettanto.

“Il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria – sottolinea la Bce – guida il processo di revisione del trattamento prudenziale esistente per il rischio sovrano a livello internazionale e valuterà le possibili opzioni di policy. Il Comitato di Basilea sta conducendo tale revisione in modo attento, olistico e graduale, con lo scopo di valutare anche le questioni più generali collegate al ruolo dei mercati del debito sovrano, nonché l’impatto che modifiche dello schema di regolamentazione potrebbero avere su tale ruolo e su determinati segmenti di mercato. Occorre soppesare accuratamente i costi e i benefici di qualunque eventuale modifica dello schema di regolamentazione. La valutazione deve tenere conto dell’impatto potenziale della revisione sul funzionamento dei mercati e sulla stabilità finanziaria, nonché degli effetti collaterali che potrebbe avere su altre classi di attività, incidendo sulla capacità di intermediazione delle banche. Inoltre, andrebbero considerate debitamente la funzione di liquidità svolta dalle obbligazioni sovrane e le potenziali implicazioni per la trasmissione della politica monetaria”.

Al di là delle conclusioni alle quali arrivano i diversi soggetti, evidentemente diverse, ciò che conta è che la discussione sia decisamente orientata a verso una decisione che, qualunque essa sarà, provocherà un sostanziale mutamento delle consuetudini finora intercorse fra banche e stati.

Capire se sarà meglio o peggio di adesso non è facile. Però possiamo farcene un’idea.

(1/segue)

Puntata successiva

La Buba smitizza gli effetti della deflazione salariale tedesca

Chi associa alla deflazione salariale tedesca l’origine dei mali dell’eurozona e insieme del successo tedesco, troverà di che riflettere in un’interessante simulazione pubblicata di recente dalla Bundesbank che si pone una semplice domanda: I salari tedeschi più bassi hanno contributi a creare squilibri finanziari nell’eurozona?

Il tema, per una serie di ragioni, è diventato molto popolare in Italia e all’estero. Ormai appartiene alla conoscenza comune la circostanza che negli anni antecedenti alla crisi si fossero formati ampi disavanzi delle partite correnti in alcuni paesi europei a fronti di importanti surplus di quelle tedesche che, in particolare dal 2002 in poi, iniziarono ad impennarsi fino ad arrivare a quasi l’8% del pil nel 2007 (grafico). “Alcuni osservatori – scrivono gli autori – hanno individuato in questi squilibri la radice della crisi del debito nell’euroarea”.

Scopo dello studio è osservare quanto le politiche salariali tedesche, le note riforme del mercato del lavoro approvate fra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei 2000 – abbiamo contribuito all’emersione di questi squilibri. “Come conseguenza – osservano – i salari reali sono diminuiti”. Nel modello sviluppato si prendono in esame nove paesi e si è provato a calcolare la correlazione fra l’andamento in Germania delle variabili connesse alle politiche salariali e al saldo corrente e quello dell’andamento del saldo nei paesi campione. Come premessa vale la considerazione che “gli studi correnti hanno mostrato che la competitività di prezzo, l’occupazione e la produzione aumentano quando il potere contrattuale dei lavoratori diminuisce. Questo provoca un miglioramento del saldo corrente del paese interessato”. Quindi la circostanza che le riforme tedesche abbiano impresso un movimento ascendete al surplus corrente sembra motivata.

“La nostra analisi – sottolineano tuttavia – ha mostrato che il calo del potere contrattuale dei lavoratori tedeschi ha avuto effetti più eterogeni sul saldo corrente dei paesi europei”. In particolare, a fronte del miglioramento del saldo corrente tedesco, “il saldo di conto corrente è caduto in Grecia e in Olanda, mentre si sono avuti effetti positivi in Spagna, Finlandia e Spagna. La risposta di Austria, Italia e Portogallo è stata appena percepibile”. Attenzione: ciò non vuol dire che in questi paesi le cose siano andate bene. In Spagna, lo ricordo, il deficit delle partite correnti è arrivato a sfiorare il 10% del Pil. Ma vuol dire che tale effetto non trova la causa nella deflazione salariale tedesca.

“Una delle possibili ragioni di questi risultati – osservano – è che i legami commerciali fra i paesi differiscono. Mentre risultati negativi sono usualmente il risultato di una competizione diretta fra paesi, effetti positivi possono indicare l’esistenza di catene di valore internazionali. Uno scenario nel quale ciò può verificarsi è quando un paese fornisce beni intermedi a un altro paese, che poi elabora questi beni ulteriormente e li esporta”. Insomma: non esisterebbe un diretto automatismo fra il surplus tedesco e il deficit spagnolo.

Nel passo successivo l’analisi prova a quantificare l’effetto delle politiche salariali tedesche sui saldi di conto correnti degli altri paesi. Per farlo calcola quale sarebbe stato l’andamento del conto corrente tedesco senza le riforme. L’analisi controfattuale che viene sviluppata mostra che la politica salariale tedesca “non ha grande incidenza sugli squilibri osservati in Europa”. Conclusione: “La moderazione salariale tedesca non ha potuto essere il driver principale degli squilibri esterni dell’eurozona”.

Morale della favola: in queste cose si può dire tutto e il suo contrario, e continuare ad avere ragione.

In Germania aumentano la ricchezza e la diseguaglianza

L’ennesima conferma di come aumento della ricchezza e della disuguaglianza nella sua distribuzione camminino a braccetto arriva dalla florida Germania dove fra il 2010 e il 2014 si è assistito all’aumento del reddito medio e al contempo all’aumento della quota di ricchezza detenuta dal 10% più ricco.

I dati sono contenuti nell’ultimo bollettino mensile della Bundesbank che dedica un articolo proprio alla circostanza che “la diseguaglianza nella ricchezza è ancora relativamente pronunciata in Germania”, ossia nell’economia che assai meglio di altre ha affrontato e vissuto la Grande Recessione.

L’articolo è costruito sui dati di una survey, “Households and their finances”, che aggiorna quella precedente, relativa al 2010, alla quale hanno partecipato 4.400 famiglie, 2.191 delle quali avevano già partecipato a quella di sei anni fa. Esibisce quindi una certa continuità nella rilevazione che consente di farsi un’idea più precisa di come siano cambiate le condizioni di vita delle famiglie tedesche nei quattro anni trascorsi fra le due survey.

La prima constatazione dei ricercatori rivela che “la persistenza dei bassi tassi di interesse sui risparmi e l’aumento dei prezzi delle proprietà immobiliari e delle azioni non sembra aver avuto un grande impatto nella distribuzione della ricchezza fra il 2010 e il 2014”. Nel senso che l’aumento di ricchezza ha cambiato poco, se non lievemente peggiorandola, la distribuzione della ricchezza che rimane “non uniforme”. Nel 2014, infatti, il 10% più ricco della popolazione deteneva il 59,8% della riccchezza totale netta a fronte del 59,2% del 2010.

Se guardiamo al dato pro capite, emerge che la ricchezza netta, quindi tolti i debiti, è aumentata nel 2014 arrivando a 214.500 euro a cittadino, a fronte dei 195.000 del 2010. Con l’avvertenza però che la ricchezza netta del 74% dei tedeschi è al di sotto della media. Vale quindi la famosa regola del pollo di Trilussa: la media nasconde profonde differenza che persistono fra i redditi molto alti e quelli molto bassi.

Se guardiamo alla ricchezza mediana, ossia il valore medio fra il reddito più alto e quello più basso, scopriamo che anch’essa è aumentata, arrivando a 60.400 euro nel 2014 a fronte dei 51.400 del 2010. Ricordo ai non appassionati di statistica che una grande differenza fra media e mediana è di per sé una prova empirica della diseguaglianza nella distribuzione.

Il terzo indicatore universalmente utilizzato per misurare la diseguaglianza, ossia l’indice di Gini, misura per la Germania 0,76, o 76% se preferite, laddove zero significa massima uguaglianza nella distribuzione e 100 massima diseguaglianza. Quindi anche qui, sebbene l’indicatore sia rimasto immutato nei quattro anni, si ha la conferma di una situazione distributiva sperequata.

L’analisi inoltre individua una correlazione fra la disponibilità di asset non finanziari – tipo il mattone per intenderci – e la ricchezza. Poiché in Germania solo il 44% delle famiglie possiede un immobile di proprietà, ciò vuol dire che solo una minoranza della popolazione può giovarsi di tale correlazione. Per costoro la ricchezza media si colloca in linea con la media nazionale. Dal che si può dedurne che è proprio la disponibilità di una casa di proprietà a fare la differenza. Infine, la quota di tedeschi che possiede azioni è diminuita dall’11 al 10% nel tempo, mentre gli importi medi si aggirano intorno ai 40 mila euro.

Se dagli asset passiamo ai debiti, scopriamo che il 45% delle famiglie è indebitato, il 21% delle quali ha un mutuo mentre la restante parte è titolare di prestiti non assicurati, come debiti studenteschi, carte di credito o credito al consumo. Nel 9% dei casi considerati, i debiti superano la ricchezza lorda.

Insomma: chi stava bene ora sta meglio, mentre ciò non vale per chi stava peggio. Piove sempre sul bagnato, d’altronde.

Le banche tedesche fra l’incudine della Fed e il martello della Bce

All’ombra della supervisione bancaria della Bce, alla quale sfuggono non essendo state inserite nel dispositivo di vigilanza europeo dell’unione bancaria, numerose banche tedesche si trovano oggi a dover fare i conti con un contesto divenuto d’improvviso avverso. E sono le prime a saperlo.

E tanto è diffusa questa consapevolezza che pure le autorità tedesche hanno giudicato opportuno svolgere una survey sulla capacità di questi istituti di reggere il mercato in un momento in cui i tassi, ormai azzerati, mettono a repentaglio la loro profittabilità che sul margine di interesse lucrava gran parte dei propri guadagni.

Della pratica si sono occupate la Bundesbank e la Bafin, ossia l’autorità di regolazione dei mercati finanziari tedeschi, e l’esito è arrivato lo scorso 18 settembre. La tematica tuttavia era già stata discussa il giorno prima da Adreas Dombret, componente del board della Buba, in un intervento (“Interest rate reversal in the United States and German banks”), che vale la pena leggere perché inserisce in un contesto più ampio le preoccupazioni dei regolatori tedeschi, che sono microeconomiche, ossia correlate al modello di business delle banche tedesche, e macroeconomiche. Queste ultime, in particolare, sono quelle più rilevanti.

“La survey – spiega la nota diffusa dalla Buba – ha mostrato che l’ambiente di tassi persistentemente bassi ha pesato significativamente sulle istituzioni di credito tedesche su tutti gli scenari elaborati in un periodo di cinque anni”. Tuttavia, aggiungono subito, dato il livello di capitalizzazione e di riserve “molte istituzioni saranno in grado di sopportare le tensioni causate dal livello basso-tasso di interesse”. Ricordo che la survey ha riguardato 1.500 banche di dimensione medio-piccole, le cosiddette LSis, ossia less significant institutions. Sono rimaste fuori le 21 principali banche tedesche che ormai sono finite sotto il cappello della Bce e del suo meccanismo di sorveglianza unico (SSM).

La conclusione di Dombret è chiara: la costante di tutti gli scenari osservati è che le banche tedesche devono cambiare mentalità e lavorare sul loro modello di business. Il motivo è presto detto: ci si aspetta che gli istituti di credito subiscano una riduzione dell’utile ante imposte di circa il 25% entro il 2019, pur tenendo conto di previsioni positive per l’economia e incorporando le misure di riduzione dei costi già pianificate. In due dei quattro scenari di tasso di interesse predefiniti, gli utili aggregati sono previsti calo di oltre il 50%. In uno dei due addirittura del 75%.

La survey inoltre conferma che i profitti è molto probabile cadano sensibilmente se l’ambiente di bassi tassi persisterà a causa del restringersi dei margini sui prestiti. Inoltre, malgrado dal 2011 le banche abbiamo ridotto l’ammentare di asset rischiosi nei loro bilanci, hanno al contempo allungato la media della maturity sui loro prestiti, probabilmente per spuntare maggiori rendimenti, esponendosi così a un più alto rischio di default e di mercato che però, osservano i regolatori, dovrebbero essere compensati dall’alto livello di riserve.

La conclusione è che le autorità monitoreranno strettamente queste istituzioni, e in particolare quelle che dipendono pesantemente sull’interest income, ossia sui ricavi da interesse.

Detto ciò vale la pena riportare alcune delle considerazioni espresse da Dombret nel suo intervento, laddove in particolare sottolinea in quale misura le banche tedesche patiscano lo zero lower bound.

Il punto sul quale Dombret insiste è la crescente divergenza fra le politiche monetarie della Fed e della Bce. Ciò ha portato a due conseguenze rilevanti: da una parte l’allargarsi dello spread fra i rendimenti Usa e quelli tedeschi, dall’altra una svalutazione dell’euro. “Le banche tedesche – spiega – devono ricordare che pure se la Fed alzerà i tassi, i tassi bassi nell’eurozona sembra dureranno ancora”. Le banche, di conseguenza saranno esposte a un crescente rischio cambio, che influenza due fattori.

Il primo è il funding gap in dollari che le banche devono coprire. Tale gap viene definito come l’eccesso di asset denominati in dollari delle banche a fronte dei debiti, anch’essi denominati in dollari. Un apprezzamento del dollaro ha impatti su entrambe le voci. “Più grande è questo gap – spiega Dombret – più la banca è esposta al rischio di cambio”.

Il secondo fattore è il disallineamento fra la maturità degli asset denominati in dollari e i debiti denominati in dollari. “Questa mancata corrispondenza misura sia il rischio cambio che il rischio interessi”.

All’inizio della crisi finanziaria sia il funding gap che il disallineamento di maturity erano molto ampi per le banche tedesche. Quando i mercati valutari si essiccarono, le banche tedesche ebbero serie difficoltà a trovare dollari sul mercato, con la conseguenza che dovettero intervenire le banche centrali con alcuni swap euro su dollaro per assicurare un flusso di valuta americana.

Adesso le banche tedesche hanno ridotto la loro vulnerabilità, aggiunge Dombret, ma il loro stock di asset denominato in dollari , rimane “sostanziale” come anche “la scala
dei disallineamenti di durata dei loro investimenti in dollari Usa”.

Ciò con cui dovranno fare i conti le banche una volta che la Fed alzerà i tassi, pure se Dombret assicura che, a patto di condurre l’exit strategy in maniera trasparente, prevedibile e adeguatamente comunicata, gli effetti sulle banche saranno tutto sommato gestibili.

E poi c’è la questione Bce. “E’ improbabile che ci sia un cambiamento dei tassi in Europa”, osserva. Quindi le banche dovranno da una parte fare i conti con le decisioni in evoluzione della Fed, e dall’altra con i tassi bassi della Bce, che abbiamo visto poco salubri per il loro modello di business.

La conclusione di Dombret è affidata al testo di una canzone degli Alan Parsons project: “Un giorno saprete dove siete”.

Per il momento sanno dove sono: fra l’incudine della Fed e il martello della Bce.

Il default greco come palingenesi dell’eurozona

Certo non è di buon auspicio condurre un difficile negoziato con un paese balcanico in concomitanza di un impegnativo centenario e per giunta a Dresda, dove si è svolto il vertice G7 dei ministri finanziari, che più di ogni altra città tedesca evoca paurose memorie di distruzione.

Eppure questa tarda primavera, che sembra preparare un’estate prematura per l’Europa, riserva di questi scherzi che i cacciatori di presagi come me annotano nel taccuino, convinti che aiutino assai più del birignao tecnico a capire quale possa essere l’esito del gran vociare che si spreca per novellare e commentare e minacciare il disastro greco.

Ma l’unica cosa che mi torna in mente, una volta che si abbassi la marea ridicola delle chiacchiere, sono le parole che ormai più di un anno fa disse il governatore della Bundesbank Jens Weidmann discutendo di alcune questioni sistemiche dell’eurozona: il legame fra debito sovrano e banche, il bail-in, il trattamento preferenziale accordato ai bond sovrani. Tutte cose che, come ci raccontano le cronache, sono nel frattempo diventate una realtà. Tranne una: il default di uno stato dell’Unione.

Sempre Weidmann ne accennò in un’altra sua lunga allocuzione dove fece capire con teutonica franchezza che il principio di responsabilità non avrebbe potuto operare all’interno dell’eurozona finché non sarebbe stato possibile per l’unione monetaria “digerire” il default di uno dei suoi stati.

Sicché il negoziato di Dresda, con il Fmi, la Bce, i ministri finanziari, e la Grecia mi appare come uno snodo storico, e non potrebbe essere diversamente stante l’abbondanza di coincidenze, per capire se l’eurozona sia destinata a una palingenesi o a una qualche forma di estinzione.

Il punto dirimente, sul quale sono ragionevolmente certo molti si stiano arrovellando, è in che misura un default del debito greco, ormai in gran parte in pancia ad istituti internazionali, debba coincidere con un’uscita della Grecia dall’eurozona.

Il punto non è semplicemente semantico, in un mondo peraltro (quello finanziario) che sulla semantica basa la sua sopravvivenza. Mandare in default il debito greco e tenere la Grecia nell’eurozona significherebbe in pratica aver la botte piena e la moglie ubriaca. Così come è stato il caso Cipro a far digerire il bail in bancario alle società europee, il default greco sarebbe il modo più eclatante per far capire ai paesi europei che l’indisciplina, alla lunga, non paga. Bruxelles, politicamente, diventerebbe un gigante.

Da questa elementare conclusione deduco che qualcuno ci stia pensando, e anche piuttosto seriamente. E scorrendo l’ultima relazione di Bankitalia ho trovato un’informazione che in qualche modo sostiene la possibilità che tale scenario si possa concretizzare.

In particolare mi riferisco alla tabella che riepiloga il sostegno finanziario che l’Europa ha concesso ai paesi in difficoltà, dove leggo che fa il 2010 e il maggio 2015, la Grecia ha ottenuto 215,7 miliardi di euro, il 120% del Pil 2014.

Questi ultimi, leggo in piccolo in una nota, sono al netto “della restituzione all’EFSF, a febbraio 2015, di fondi stanziati e non utilizzati (10,9 miliardi)”. Con la precisazione che “tali risorse potranno essere utilizzate dalla Grecia fino al completamento del programma per interventi a supporto del sistema bancario, su richiesta della BCE o del Meccanismo di vigilanza unico”.

Converrete che è quantomeno curioso che la Grecia abbia restituito prestiti per oltre dieci miliardi al fondo EFSF appena tre mesi fa. Peraltro a febbraio il nuovo governo era già stato eletto. Quindi è lo stesso governo che oggi tratta che ha preso la decisione di rinunciare a questi fondi.

Ma il punto non è nemmeno questo. Il punto è che, come abbiamo visto, tali risorse possono essere restituite alla Grecia su richiesta della BCE o del Meccanismo di vigilanza unico, quindi sempre della BCE.

Ora proviamo a immaginare cosa succederebbe se il prossimo 5 giugno, quando dovrebbe andare in pagamento la tranche di restituzione al FMI di un prestito, la Grecia non pagasse. Il default di solito non scatta automaticamente, perché le prassi prevedono un mese cosiddetto di grazia. Però il segnale ai mercati sarebbe chiarissimo: il default sarebbe di fatto se non di diritto.

La prima conseguenza potrebbe essere che la Grecia verrebbe tagliata fuori dal mercato dei prestiti a breve, gli unici che si può permettere. In questo caso le banche finirebbero sotto pressione e il governo, dovendo pagare stipendi e pensioni, di conseguenza.

A quel punto potrebbe intervenire la Bce, che con i suoi ELA, ossia i prestiti di liquidità concessi per il tramite della banca centrale greca e sotto notevoli condizionalità, tiene in piedi le banche greche. La Bce potrebbe fare due cose: revocare l’ELA, e quindi dar decorso alla tragedia greca, oppure riattivare i fondi EFSF sotto precise ulteriori condizionalità per dare ossigeno alle banche elleniche.

In quest’ultimo caso al bastone del default, paventato ma non conclamato, seguirebbe la carota dei prestiti.

La perfetta quadratura del cerchio.

 

Il mattone tedesco terremotato dal QE di Supermario

La Buba, il QE e il caldo mattone tedesco. Se fossi un commediografo potrei tratteggiare così l’ultima uscita di Andreas Dombret (“The German real estate market – cause for concern?”), componente della Bundesbank alla Haus & Grund Deutschland.

Ma poiché non ho talento teatrale, a differenza di tanti insospettabili banchieri, devo contentarmi di farvela semplice: fra le tante ragioni per le quali la Buba ha vissuto come una inevitabile seccatura il QE di Supermario, c’è la circostanza che il mercato immobiliare interno della Germania, già surriscaldato, rischi di diventare bollente se, come è ipotizzabile, la manovra della Bce alzerà la già elevata propensione al rischio degli operatori finanziari sempre più alla ricerca disperata di rendimenti.

Dombret esordisce spiegando che “l’economia tedesca è in buona forma”. Ed è difficile dargli torto osservando i dati che presenta all’uditorio. Le imprese tedesche, osserva, hanno i costi sotto controllo, il loro debito non è particolarmente alto e dispongono di un’ampia dotazione di prodotti graditi all’estero. Anche se “l’economia tedesca è supportata dal consumo”. Ma anche qui le prospettive sono buone. La disoccupazione è bassa e i salari reali sono cresciuti anche grazie al crollo dell’inflazione.

Sicché la previsione di dicembre era di chiudere il 2014 con una crescita dell’1%, prevista all’1,6% nel 2015, e forse ancor di più se i corsi petroliferi continueranno a declinare.

Senoché il calo del petrolio mette in fibrillazione i prezzi dell’area, spiega, e fa saltare il target del 2% di inflazione.

Qui scorgiamo la differenza di vedute fra la Buba e gli altri colleghi europei. La Buba non vedeva nessuna necessità di agire così repentinamente, o almeno non con lo strumento di un QE che, sottolinea Dombret echeggiando quanto già detto dal boss Weidmann, “fa aumentare i rischi”:

E nella prima linea dei rischi tedeschi, come più volte la Buba ha osservato, ci sta proprio il mercato immobiliare.

Il perché è presto detto. “Le bolle sui prezzi son particolarmente problematiche quando l’acquisto di asset è finanziato per lo più col credito. L’immobiliare è un esempio calzante”. Al momento i prestiti per mutui pesano circa il 43% di tutti i prestiti al settore privato. Tenete a mente questo dato.

Quando i prezzi dell’immobiliare salgono, spiega Dombret, le banche, pensando che tale trend continuerà, producono credito addizionale alimentando la salita dei prezzi. Meccanismo che molti paesi europei hanno sperimentato sulla loro pelle. Fino a quando la bolla esplode, con le conseguenze che abbiamo imparato a conoscere.

“Per questa ragione noi (della Buba, ndr) monitoriamo il mercato immobiliare molto da vicino”.

Interessante a questo punto capire come si eserciti tale sorveglianza.

Per parlare di bolla, spiega Dombret, devono coesistere tre condizioni: innanzitutto una crescita dei prezzi non giustificata dai fondamentali economici; poi una crescita dei prestiti per mutui e infine, un allentamento delle condizioni sottostanti all’erogazione di credito.

La prima questione richiede un’analisi dell’andamento dei prezzi immobiliari in Germania. Negli ultimi 20 anni, osserva, la dinamica dei prezzi tedeschi è stata moderata rispetto al resto dell’eurozona. “Tuttavia i prezzi sono cresciuti in alcune zone della Germania a partire dal 2010, anche se nel corso del 2014 sono leggermente diminuiti”.

In dettaglio, dal 2010 i prezzi sono saliti in media del 7% l’anno nelle sette principali città tedesche, mentre nelle città di medie dimensioni sono aumentati, sempre in media, ogni anno del 5%. Considerando la Germania come un tutto, la crescita si abbassa al 3% annuo.

Dobbiamo dedurne che siamo in presenza di una bolla? “Per la Germania come un tutto la risposta è no”. E tuttavia “noi stimiamo che le proprietà immobiliari sia sopravvalutate di circa il 20% nelle città medio-grandi, e forse di più nelle città più grandi. Le dinamiche dei prezzi, comunque, si sono indebolite”.

Riguardo il secondo aspetto, ossia i prestiti, Dombret nota che è divenuto più facile finanziare gli acquisti a causa dell’abbondante liquidità a disposizione e i tassi molto bassi.

Il tasso medio per un nuovo prestito è intorno al 2,3%. E poi c’è la circostanza che gli investimenti alternativi al mattone hanno rendimenti molto bassi. Il che può incoraggiare un investitore a far debiti per comprare immobili da mettere a reddito. “Ma gli investitori dovrebbero ricordare – sottolinea – che un alto rendimento implica un alto rischio”.

Ebbene, il volume del credito per mutui “è aumentato costantemente dal 2010, anche se inizialmente con un passo moderato. A novembre 2014 il tasso di crescita anno su anno è stato del 2,5%, più che nella zona euro”.

Nell’insieme tuttavia, osserva, i prestiti per mutui non sono cresciuti eccessivamente. “Questo ci porta al terzo punto: gli standard creditizi per la concessione di mutui si sono allentati?”

La Buba ha condotto un’analisi su 116 banche tedesche, concentrandola in 15 città dove i prezzi sono saliti parecchio e su altre nove dove sono cresciuti meno. I risultati mostrano come “non si intravedono segni di problemi”. “Al contrario – sottolinea – l’indagine mostra come le banche non abbiano allentato i loro standard creditizi, mentre è accaduto il contrario, anche se moderatamente, nel resto dell’eurozona”.

Questo risultato, tuttavia, nasconde alcune implicazioni. La stessa survey, infatti, ha mostrato un’ampia quantità di mutui con un elevato rapporto Loan to value.

Ciò vuol dire che il prestito eccede il mortgage lending value, ossia il valore dell’immobile che la banca mette a collaterale del mutuo. Il che non è di per sé fonte di squilibrio, spiega, visto che il debitore può offrire altri suoi asset a garanzia. “E tuttavia l’alta quota di tali mutui concessi indica che ci possa essere una vulnerabilità strutturale nel sistema bancario tedesco in caso di crisi del mercato immobiliare”.

La Buba, perciò vigilerà sempre più da vicino l’evoluzione del mercato. Tenendo a mente che “la decisione della Bce di comprare bond governativi segna l’inizio di una nuova era nel mercato dei capitali, e dobbiamo tenerlo a mente, visto che ciò comporta un aumento del rischio nella creazione di bolle, non ultimo nel settore immobiliare”. “Il mondo – evidenzia – è diventato un luogo più pericoloso per gli investitori”.

L’immobiliare poi risente particolarmente del deteriorarsi del quadro macroeconomico. Perciò la Buba ha simulato diversi scenari per valutare i rischi sistemici. E se l’ipotesi di uno shock locale del mattone trova le banche tedesche attrezzata, uno shock sistemico del mattone, come peraltro sono stati gli shock degli ultimi vent’anni, le trova incapaci di mantenere i requisiti previsti di capitale.

“E poi – avverte – c’è un’altro pericolo che bisogna tenere a mente:la possibilità di un’inversione nel trend dei tassi di interesse“. Last, but not the least, c’è anche la questione del rischio di cambio.

La vicenda svizzera, che ha provocato lo sganciamento del cambio fisso con l’euro, “potrebbe aver creato problemi a chi si era indebitato in franchi svizzeri”. “Se i default dovessero aumentare le banche potrebbero finire in difficoltà”, anche se, “a differenza di Austria e Polonia i prestiti in franchi svizzera in Germania hanno una dimensione limitata: circa 2 miliardi di euro in valore corrente a fronte dei circa 1.000 rappresentato dai property loan tedeschi”.

Dombret conclude che “bisogna essere preparati per ogni eventualità”.

Io, nel dubbio, tocco ferro.

 

Il terzo passo dell’eurozona: l’unione del mercato dei capitali

Dopo l’unione monetaria e quella bancaria, e non potendo per il momento aspirare alla logica conclusione, ossia l’unione fiscale, l’eurozona si appresta a muovere il terzo passo nel suo difficile e controverso percorso di integrazione: l’unione del mercato dei capitali.

Alcuni premesse ci sono già state, ma l’obiettivo è ancora lontano, come ha opportunamente ricordato Andreas Dombret, banchiere della Bundesbank, in una recente allocuzione al Brookings Institution di Washington (Designing a stable monetary union – progress and
open issues).

E si capisce, leggendolo, che le evidenti discrepanze fra le varie autorità europee, che non risparmiano neanche le banche centrali, non hanno alcun effetto sul dichiarato intento di costoro di arrivare, in un modo o nell’altro, a una profonda unione dell’eurozona, che dopo esser stata monetaria, bancaria, finanziaria e infine fiscale, culminerà in quell’unione politica che in tempi non sospetti ci è già stata preannunciata.

Di fronte a tanta determinazione s’ergono chiassosi e altrettanto vacui gli strepiti di tanti arruffapopoli che hanno gioco facile a promettere il paradiso trovandosi molti di noi all’inferno, ma che ignorano sostanzialmente, o fingono di ignorare, che spezzare il vincolo che ormai lega i paesi eurodotati gli uni agli altri richiederebbe ben altra forza e determinazione che un semplice comizio di piazza. E omettono di dire che tali forze, per loro natura primordiali, sfuggono ad ogni controllo, una volta che siano liberate.

Il caso vuole che Dombret abbia preso servizio alla Buba il 3 maggio 2010, proprio all’indomani della decisione dei ministri finanziari dell’Ue di concedere aiuti per 110 miliardi alla Grecia e trovandosi una settimana dopo, il 10 maggio, di fronte alla controversa decisione della Bce di acquistare bond governativi. Decisioni che molta parte della Buba non apprezzò e che tuttora mostra di non apprezzare, contravvenendo, nella loro opinione, la Bce a quel dogma della responsabilità che per i banchieri centrali tedeschi è l’asset principale che ogni sistema finanziario dovrebbe coltivare per smettere di privatizzare i guadagni e socializzare le perdite.

“Dopo quella settimana  – dice Dombret –  due cose mi divennero chiare: primo che molti osservatori, e in particolare dagli Stati Uniti – avevano sottostimato la volontà politica europea di tenere insieme l’area dell’euro. Secondo che molti, me compreso, avevano sovrastimato la stabilità dell’assetto istituzionale dell’eurozona”.

Mettendo insieme i due punti, osserva, la conclusione non può che essere una: far leva sulla volontà politica per migliorare l’eurozona. Ma come?

Dombret è convinto che aldilà di frange estreme che vorrebbero far saltare il banco, i cittadini europei ancora credano nel sogno dell’eurozona, e con loro la gran parte dei leader politici. Questi ultimi però non hanno determinazione sufficiente a saltare il fosso – probabilmente perché devono farsi eleggere in patria? – e colmare la strana contraddizione per la quale la politica monetaria europea è centralizzata mentre quella fiscale è ancora in mano ai singoli stati. Questo, nell’opione del banchiere, provoca uno squilibrio della responsabilità. Gli stati nazionali tenderanno a fare ciò che per loro è meglio piuttosto che guardare all’eurozona come quel tutt’uno che secondo Dombret e quelli che la pensano come lui sarebbe ideale.

L’Unione fiscale, di conseguenza, rimane ancora solo un bel sogno. Al più si possono invitare gli stati, e con scarso successo come insegnano il caso francese e italiano, a far valere le regole europee. Ma per il futuro prossimo, salvo esperimenti specifici che comunque richiederebbero importanti cessioni di sovranità, il lato fiscale rimane un tabù.

Ciò non vuol dire che si debba abdicare al dogma della responsabilità. Dombret infatti guarda con sospetto sia alla proposta di utilizzare il fondo Esm come provider di risorse per gi investimenti, che a suo dire indebolirebbe il senso politico di quell’organismo, che è innanzitutto quello di fornire fiducia e prestiti condizionati, sia alla recente decisione della Bce di comprare Abs che, socializzando di fatto le possibili perdite, aggiunge un ulteriore pregiudizio di responsabilità all’agire delle banche, che, come fanno di solito, potrebbero essere incentivate a sottovalutare i rischi sapendo che possono scaricarli sulla Bce e, insostanza, sui bilanci degli stati che della Bce sono azionisti per il tramite delle loro banche centrali.

Ma a parte queste divergenze, il punto centrale è che comunque le banche, con l’imminente avvio della supervisione unificata, verranno presto messe sotto la tutela della Bce con l’avvio della supervisioni unificata d’inizio novembre.

E’ chiaro già da adesso, tuttavia, che centralizzare la supervisione bancaria, associandola alla risoluzione e a un meccanismo centrale di tutela dei depositi, è già uno straordinario passo in avanti. Però, dice Dombret, è assai probabile che le banche europee, ancora fragili sul versante della loro profittabilità, dovranno tagliare i costi, essendo costrette ad agire in un contesto di bassi rendimenti, o sennò iniziare a fondersi fra loro per garantirsi la sopravvivenza.

Ma guardando avanti, il problema successivo riguarda proprio la frammentazione del mercato dei capitali nella zona euro. A parte le banche, ormai sotto tutela, c’è una pletora di operatori che nella zona euro fa girare i soldi: fondi, mercati azionari, controparti centrali. Queste entità sono ancora a chiara vocazione nazionale, come le banche d’altronde, e non sono ancora efficienti abbastanza, proprio a causa della frammentazione che esse replicano, di garantire al sistema produttivo i flussi di risorse che pure potrebbero generare. Ciò anche in conseguenza del fatto che le imprese europee sono a vocazione bancaria: chiedono prestiti più che provare a raccogliere capitali.

Invertire questa consuetudine richiede mercati del capitale più efficienti. O, che nel gergo degli internazionalisti è nella stessa cosa, slegati dalle logiche nazionali. Questo è ciò di cui si parla quando si discute di unione del mercato dei capitali, come hanno fatto il presidente della commissione Juncker e Mersch, del board della Bce.

L’integrazione politica, in tempi in cui tutto è economia, a quel punto sarà solo una questione da addetti ai lavori.

La crisi sta finendo (e un anno se ne va)

La crisi sta finendo, dice Andreas Dombret, algido banchiere della Bundesbank, che mi ha fatto venire in mente il glorioso refrain dei fratelli Righeira, mentre leggevo la sua allocuzione tenuta a Dallas il 15 aprile scorso (“The State of Europe: End of the crisis or crisis without end?)

L’estate sta finendo, cantavano quei due simpaticoni che non era neanche maggio. Dombret fa la stessa cosa: dice che la crisi sta finendo, piano piano piano.

Con un bel forse finale.

D’altronde non si può rimproverare al nostro un difetto di prudenza. Semmai un eccesso di piaggeria, quando ricorda che la Fed di Dallas viene considerata, per scrupolosità e saggezza, la Bundesbank americana. Oppure quando ricorda di sentirsi un po’ americano pure lui, visto che ha il doppio passaporto. Oppure quando, senza tema del ridicolo, dice che Dallas è stata sempre nel suo cuore, perché da ragazzino si pasceva pure lui delle disavvanture di J.R e Sue Ellen, eroi dell’omonima e celeberrima serie che spopolò negli anni ’80, tanto che adesso è stata pure riesumata. Sempre perché gli anni ’80 non finiscono mai.

Dal che ho dedotto che oltre ad avere un cuore, il nostro Dombret ha alle spalle un notevole vissuto emozionale inzuppato di sani principi capitalisti. Per cui la sua prudenza germanica, pure quando tratta con ruvidità una certa faciloneria negli eccessi finanziari statinitensi, mai si spinge fino al punto di sollevare dubbi circa il grado di parentela tedesco con i fratelli americani. Che sono forse chiassosi, un filino irresponsabili, ma comunque parenti, pure se alla lontana.

Germania e Stati Uniti si piacciono, insomma, e devono piacersi.

In questo connubio inestricabile, che i banchieri centrali tedeschi sono chiamati a gestire, e pure con una certa allegria, Dombret si muove con insospettabile grazia, parlando a nuora (l’eurozona) perché suocera (gli Usa) intenda. Neanche fosse italiano.

Vale la pena perciò scorrere rapidamente il suo intervento, anche perché ci fornisce un’interessante “inside view”, come la chiama, sullo stato attuale di casa nostra.

“La fine della crisi nell’euro area – dice – si avvicina sempre più, e, cosa più importante, la zona considerata nel suo insieme ha superato finalmente la recessione. Questa ripresa – sottolinea – non è soltanto guidata dai paesi “core”, come la Germania. Alcuni dei paesi colpiti dalla crisi hanno finalmente imboccato la strada per la ripresa e quelli che ancora non l’hanno fatto stanno iniziando a vedere la luce alla fine del tunnel“.

E ancora: “Gli sforzi per realizzare riforme strutturali stanno gradualmente dando frutti. La competitività è migliorata nei paesi periferici e per quasi tutti ormai, tranne che Cipro, si prevede una crescita dell’export quest’anno. Questi progressi si riflettono nel miglioramento dei saldi di conto corrente, che sono tornati positivi”.

Come ogni storia, anche quella narrata da Dombret si può raccontarla in tanti modi, dal lato della luce o da quello dell’ombra. Quindi non occorre stupirsi qualora tanto ottimismo contrasti con la vostra percezione della realtà. Ricordatevi che voi non siete banchieri centrali tedeschi, e che non state neanche parlando agli americani. E ricordate, soprattutto, che l’economia è uno splendido esercizio di retorica.

Che c’entra il fatto che l’uditorio sia statunitense? Chi ricorda le critiche americane dell’anno scorso alle politiche “egoiste” condotte dalla Germania, capirà subito perché Dombret osservi che “la Germania è parte di questa equazione di rebalancing”. “Dal 2007 – osserva – il saldo di conto corrente nei confronti dell’euro-area si è ridotto costantemente dal 4,5% del Pil al 2%. E poiché gli investimenti sono previsti in crescita quest’anno e il prossimo, questo rebalancing dovrebbe continuare”:

E fin qui siamo nel campo della contabilità internazionale. Dombret ha buon gioco nel ricordare che Spagna e Irlanda sono usciti dai programmi di assistenza dei fondi europei di stabilità, e che il Portogallo si prevede ne uscirà quest’anno. “Date un’occhiata alla Spagna – sottolinea – che è un paese di interesse per voi in Texas a causa della sua rilevanza per il Messico”. “La Spagna è in recessione – sottolinea – e ha un tasso di disoccupazione superiore al 25%. E tuttavia sta vendendo i suoi bond a dieci anni a un tasso del 3,29%, non troppo superiore a quello che pagano i bond americani. Questa è certamente una situazione nella quale si potrebbe cercare segni di esuberanza”.

Poi Dombret sposta il tiro sull’argomento che più gli sta a cuore, ossia il ruolo della politica monetaria, che in una filiale della Fed è come parlare di corda a casa dell’impiccato. “Alcuni osservatori – dice – propongono una politica monetaria più espansiva, spaventati come sono dai rischi di deflazione“. Ma, osserva Bundesbank e Bce concordano sul fatto che tale rischio “sembra essere limitato”.

Deflazione a parte, “possiamo osservare che la fine della crisi si avvicina”, anche se “ci sono ancora alcuni ostacoli che possono bloccare la strada. Alcuni li vediamo, altri no”. Fra questi la crisi Ucraina, anche se l’esposizione relativamente bassa delle banche europee, circa 23 miliardi, non suscita particolari preoccupazioni.

“Tuttavia dobbiamo tenere conto delle relazioni che la crisi ucraina ha con la Russia, e la rilevanza dell’economia russa, molto più grande“. Ma soprattutto, “un ostacolo conosciuto è il prolungato periodo di tassi bassi”.

A questo punto ai banchieri centrali americani devono aver fischiato le orecchie. Tanto che Dombret si è affrettato a precisare: “Non fraintendetemi: lo stato corrente della politica monetaria è certamente adeguato, e tuttavia quando i tassi stanno a un livello basso per un periodo di tempo prolungato si possono sperimentare effetti non voluti”. Fra questi Dobret ricorda che gli investitori possono essere spinto a cercare più rischi per avere rendimenti più elevati “e in effetti sembra che questo stia accadendo”.

In particolare Dombret si preoccupa del mercato immobiliare, dove “un forte recupero registrato in alcune aree dell’eurozona ci fa pensare”. “Credo – sottolinea vagamente minaccioso – che tutti noi ricordiamo cosa accadde dopo che esplose la bolla nel mercato immobiliare americano nel 2007”.

A questo punto il fischio nelle orecchie dei banchieri americani devve essersi fatto persistente.

Ma sempre in omaggio alla buona creanza, Dombret parla di casa sua. “Nel mercato delle abitazioni in Germania – spiega – fra il 2009 e il 2012 i prezzi nelle grandi città sono saliti di quasi il 25% e nel 2013 di un altro 8,9%. I calcoli della Bundesbank ci fanno parlare si sopravvalutazioni in alcune aree urbane. Ma se guardiamo nell’insieme, la crescita nel 2013 è stata solo del 4,5%, un livello che non dà tante ragioni di preoccupazione. Ma per me i campanelli d’allarme cominceranno a suonare non appena una rapida crescita dei prezzi delle case sarà accopmagnata da una crescita altrettanto significativa dei prestiti. Ancor di più se tale crescita è accompagnata da un calo degli standard di tali prestiti. Al momento tuttavia questa campane non hanno iniziato a suonare”.

Poi c’è la questione dei mercati azionari. “Nel 2013, molti mercati sono soltanto cresciuti: l’EuroStoxx 50 del 18%, l’FTSE 100 del 14%, il Dow Jones del 28% e il Nikkei di quasi il 57%, e in più è diminuita ache la volatilità”.

Ce n’è abbastanza per temere che siamo entrati in una nuova fase di “esuberanza irrazionale”?

Se ne può discutere, dice Dombret. Ma certo, spiega, i mercati stanno scontando i futuri miglioramenti dei fondamentali economici, forti della convinzioni che i governi faranno tutto ciò che serve per irrobustire la crescita. Ma se così non fosse, avverte, “si può creare un ampio spazio per uno shock da fiducia”, che è un modo elegante per dire che i rialzi possono trasformarsi in repentini ribassi.

Ma soprattutto, tenere i tassi bassi a lungo può generare un effetto psicologico deleterio. Ossia proprio il non fare tutto ciò che è necessario, quindi rimandare gli aggiustamenti. “Le riforme devono continuare a livello nazionale e a livello europeo”.

Fra questi ultimi primeggia il progetto di Unione Bancaria, di recente approvato dal Paramento europeo, che dovrebbe contribuire a risolvere questioni complesse come quella delle banche troppo grandi per fallire.

Dopo una lunga analisi del perché e del percome dell’Unione bancaria, Dombret affronta il problema che più di tutti sta a cuore dei nostri banchieri centrali: il finanziamento dell’economomia. E qui tornano a far capolino gli ABS che, ricorda, nel caso europeo si sono dimostrati più resilienti di quelli americani.

La conclusione è addirittura edificante: “Tornare alla prosperità economica e alla stabilità finanziaria richiede politiche orientate alla stabilità finanziaria. E poi serve una mutua e confidente cooperazione, qualità che viene promossa da istituzioni come l’American council of Germany”. Quindi è inutile che vi spieghi fra chi.

“Così facendo mi auguro che finalmente arriveremo alla fine di una crisi che sembra senza fine”, conclude.

La crisi sta finendo, insomma.

Prima o poi.

Super Target 2, ovvero euro 3.0

Mentre l’opinione pubblica europea si divide e si lacera dibattendo più o meno faziosamente di euro/sì-euro/no, nelle rarefatte alture della superburocrazia dell’eurosistema si piantano paletti geroglifici e sempre più solidi che, di fatto, rendono tale dibatitto un utile esercizio di stile politico, buono per le campagne elettorali insomma, ma ben lungi dalla realtà.

Nascoste fra le pagine più astruse della pubblicistica web, e paradossalmente in bella evidenza, si delineano gli scenari e gli obiettivi dei passi ormai prossimi a venire, che già quest’anno saranno compiuti per poter diventare operativi nel 2015, quando verranno ulteriormente raffinati e condotti a buon fine per il 2017, quando il nuovo sistema Target 2 S sarà ormai una solida realtà.

La S di Target 2 sta per settlement, ma per volgarizzare un po’ la questione, oltremodo noiosa, può essere utile considerarla come la S di super, visto che, di fatto, segnerà un evoluzione del sistema Target 2, ossia il sistema finora utilizzato per regolare la contabilità delle partite fra le banche dell’eurosistema in moneta di banca centrale.

Target 2 viene gestito dall’eurosistema, ossia dalle banche centrali nazionali che aderiscono all’euro, ed è assurto all’onore delle cronache dopo l’esplosione della crisi dei debiti sovrani, quando di fatto l’eurosistema ha funzionato come una camera di compensazione degli squilibri delle bilance dei pagamenti dei singoli stati dell’eurozona. Nella reportistica della Bce, gli squilibri Target sono stati utilizzati come misura degli squilibri interni dei singoli paesi, o, che è lo stesso, come un indice della frammentazione che tuttora affligge l’eurozona.

In pratica, così almeno la racconta la Bundesbank nel suo bollettino mensile di marzo 2011, man mano che la crisi degli spread faceva essiccare le fonti del finanziamento interbancario fra le banche dell’eurozona, le banche centrali nazionali compensavano emettendo proprie passività (quindi debiti) per saziare la sete di liquidità delle proprie banche commerciali. Tali passività corrispondevano a saldi negativi nella contabilità Target 2, a fronte dei quali si ergeva il potente attivo della banca centrale tedesca, conseguenza palese della circostanza che le banche commerciali tedesche avevano riportato i capitali a casa. Quindi non erano più le banche commerciali tedesche a prestare soldi alle banche commerciali del PIIGs, ma la Bundesbank, tramite l’eurosistema, alle banche centrali dei PIIGS, attingendo alla generosità della BCE che intanto apriva i rubinetti.

Man mano che la tensione dell’interbancario si rilassavano gli squilibri dei saldi Target 2 si riducevano.

Scusate la premessa, ma era necessaria per capire anche se per sommicapi cosa sia Target 2, sennò non si capisce cosa sarà Target 2 S.

Prima di arrivarci, però, serve un’altra sottolineatura. Sappiamo, perché ce l’hanno detto e ripetuto in tutte le lingue, che l’unione bancaria è l’evoluzione naturale dell’unione monetaria. Per questo l’ho chiamata euro 2.0. Ciò in quanto mette in comune la moneta bancaria disciplinando (o vorrebbe disciplinare) l’erogazione di crediti da parte delle banche più importanti dell’eurozona con l’obiettivo di spazzare il legame fra queste e gli stati nazionali. Parliamo delle famose 130 banche che verrano sottoposte ad asset quality review e più tardi a stress test.

Tutto ciò, viene detto, al fine di aumentare la fiducia sull’affidabilità delle banche europee, e quindi incoraggiare i prestiti. Che è sicuramente vero, ma non è tutta la verità. L’unione bancaria, come ho già detto, serve a creare un mercato creditizio comune, quindi sempre più integrato, dopo quello che faceva riferimento alla semplice moneta legale.

Cosa rimane, per completare l’integrazione dell’eurozona, dopo aver unificato la moneta legale e quella creditizia? Facile: la moneta finanziaria. L’espressione non è proprio una perla di precisione, ma credo renda bene l’idea.

Per capirlo dobbiamo scendere nei bassifondi della finanza.

Qui si agitano entità che nessuna persona normale incontrerà mai nella sua vita. Non direttamente almeno. Qualcuna abbiamo imparato a conoscerla, quando ci siamo trovati di fronte alle controparti centrali.

Ce ne sono altre che si chiamano Central securities depositories (CDSs). Queste entità si occupano di un passaggio molto importante nella vita della finanza: il settlement. O, detto con parole nostre, il regolamento del contratto.

Il settlement, infatti, consiste nel regolamento delle transazioni che intervengono fra due controparti. Quando due parti si scambiano un’obbligazione lo fanno tramite un contratto. Le entità che si occupano del settlement hanno proprio il compito di regolare questo contratto in base alle condizioni in esso contenute. Quindi il regolamento può consistere nella consegna di titoli o di denaro liquido, in un determinato tempo e in un determinato luogo.

A volte il regolamento prevede l’interposizione di un’altra entità, di solito una banca, che assume il ruolo di custode, ossia conserva i titoli che dovranno essere scambiati al momento del settlement.

Vengo al punto. Al momento ogni paese dell’euroarea ha la sua CDSs che agisce in regime di sostanziale monopolio, con le sue regole e i suoi costi. In Italia, ad esempio c’è (c’era almeno prima che la borsa si vendesse a quella di Londra) il Monte Titoli. Tutto ciò genera ulteriore motivo di frammentazione finanziaria in una zona che già di suo ne soffre parecchio. Per questa ragione è stata studiata l’evoluzione di Target 2 in Target 2 S.

In sostanza si tratta di unificare in un’unica piattaforma, gestita dall’eurosistema, ossia dalle banche centrali che aderiscono alla Bce, tutte le operazione di settlement dell’eurozona, che verranno quindi regolate con moneta di banca centrale proprio come avviene con i vecchi saldi Target 2. In tal modo, come nota la Bce nel suo ultimo aggiornamento sull’integrazione finanziaria, si otterranno benefici sul lato dei costi, dell’efficienza e persino alla stabilità finanziaria. E, aggiungo io, sarà anche più facile far fronte a eventuali scompensi emettendo moneta di banca centrale qualora se ne ravvedesse la necessità. Eventualità che certo non dispiacerà agli scommettitori di professione.

Come si vede, qualunque sia il passaggio (euro 1.0. euro 2.0, euro 3.0) gli argomenti a favore sono sempre gli stessi. Così come anche le conseguenze: cessione di prerogative nazionali a fronte di benefici sovranazionali. Creare un’unione sempre più perfetta, per citare Mario Draghi.

C’è una differenza però. Quando si trattò di entrare nell’euro 1.0 decisero gli stati. L’Unione bancaria (euro 2.0) è stata decisa dalla commissione Ue e approvata dal Parlamento europeo. L’euro 3.0, vedrà la luce (su base volontaria) esclusivamente grazie alle CDSs, 22 delle quali hanno già aderito. Come si può notare, più il processo si raffina, più si allontana dal comune sapere e dall’opinione pubblica che, come ho notato all’inizio, si è accorta solo dopo un decennio di cosa abbia significato l’euro 1.0.

Concludo con due dati di cronaca. Il primo è che fra gli aderenti del T2S c’è anche CDS della Bank of New York Mellon, una delle principali protagoniste del try party repo americano, che evidentemente ha i suoi buoni motivi per infilarsi nelle nostre beghe finanziarie.

Il secondo è che la data è stata fissata: il 22 giugno 2015 l’euro 3.0 vedrà la luce. Quel giorno inizierà la fase di go live, che darà inizio alla fase di transizione che terminerà nel 2017, quando il T2S sarà pienamento operativo.

Chissà che fine avrà fatto nel frattempo l’euro 1.0.