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Le banche tedesche fra l’incudine della Fed e il martello della Bce
All’ombra della supervisione bancaria della Bce, alla quale sfuggono non essendo state inserite nel dispositivo di vigilanza europeo dell’unione bancaria, numerose banche tedesche si trovano oggi a dover fare i conti con un contesto divenuto d’improvviso avverso. E sono le prime a saperlo.
E tanto è diffusa questa consapevolezza che pure le autorità tedesche hanno giudicato opportuno svolgere una survey sulla capacità di questi istituti di reggere il mercato in un momento in cui i tassi, ormai azzerati, mettono a repentaglio la loro profittabilità che sul margine di interesse lucrava gran parte dei propri guadagni.
Della pratica si sono occupate la Bundesbank e la Bafin, ossia l’autorità di regolazione dei mercati finanziari tedeschi, e l’esito è arrivato lo scorso 18 settembre. La tematica tuttavia era già stata discussa il giorno prima da Adreas Dombret, componente del board della Buba, in un intervento (“Interest rate reversal in the United States and German banks”), che vale la pena leggere perché inserisce in un contesto più ampio le preoccupazioni dei regolatori tedeschi, che sono microeconomiche, ossia correlate al modello di business delle banche tedesche, e macroeconomiche. Queste ultime, in particolare, sono quelle più rilevanti.
“La survey – spiega la nota diffusa dalla Buba – ha mostrato che l’ambiente di tassi persistentemente bassi ha pesato significativamente sulle istituzioni di credito tedesche su tutti gli scenari elaborati in un periodo di cinque anni”. Tuttavia, aggiungono subito, dato il livello di capitalizzazione e di riserve “molte istituzioni saranno in grado di sopportare le tensioni causate dal livello basso-tasso di interesse”. Ricordo che la survey ha riguardato 1.500 banche di dimensione medio-piccole, le cosiddette LSis, ossia less significant institutions. Sono rimaste fuori le 21 principali banche tedesche che ormai sono finite sotto il cappello della Bce e del suo meccanismo di sorveglianza unico (SSM).
La conclusione di Dombret è chiara: la costante di tutti gli scenari osservati è che le banche tedesche devono cambiare mentalità e lavorare sul loro modello di business. Il motivo è presto detto: ci si aspetta che gli istituti di credito subiscano una riduzione dell’utile ante imposte di circa il 25% entro il 2019, pur tenendo conto di previsioni positive per l’economia e incorporando le misure di riduzione dei costi già pianificate. In due dei quattro scenari di tasso di interesse predefiniti, gli utili aggregati sono previsti calo di oltre il 50%. In uno dei due addirittura del 75%.
La survey inoltre conferma che i profitti è molto probabile cadano sensibilmente se l’ambiente di bassi tassi persisterà a causa del restringersi dei margini sui prestiti. Inoltre, malgrado dal 2011 le banche abbiamo ridotto l’ammentare di asset rischiosi nei loro bilanci, hanno al contempo allungato la media della maturity sui loro prestiti, probabilmente per spuntare maggiori rendimenti, esponendosi così a un più alto rischio di default e di mercato che però, osservano i regolatori, dovrebbero essere compensati dall’alto livello di riserve.
La conclusione è che le autorità monitoreranno strettamente queste istituzioni, e in particolare quelle che dipendono pesantemente sull’interest income, ossia sui ricavi da interesse.
Detto ciò vale la pena riportare alcune delle considerazioni espresse da Dombret nel suo intervento, laddove in particolare sottolinea in quale misura le banche tedesche patiscano lo zero lower bound.
Il punto sul quale Dombret insiste è la crescente divergenza fra le politiche monetarie della Fed e della Bce. Ciò ha portato a due conseguenze rilevanti: da una parte l’allargarsi dello spread fra i rendimenti Usa e quelli tedeschi, dall’altra una svalutazione dell’euro. “Le banche tedesche – spiega – devono ricordare che pure se la Fed alzerà i tassi, i tassi bassi nell’eurozona sembra dureranno ancora”. Le banche, di conseguenza saranno esposte a un crescente rischio cambio, che influenza due fattori.
Il primo è il funding gap in dollari che le banche devono coprire. Tale gap viene definito come l’eccesso di asset denominati in dollari delle banche a fronte dei debiti, anch’essi denominati in dollari. Un apprezzamento del dollaro ha impatti su entrambe le voci. “Più grande è questo gap – spiega Dombret – più la banca è esposta al rischio di cambio”.
Il secondo fattore è il disallineamento fra la maturità degli asset denominati in dollari e i debiti denominati in dollari. “Questa mancata corrispondenza misura sia il rischio cambio che il rischio interessi”.
All’inizio della crisi finanziaria sia il funding gap che il disallineamento di maturity erano molto ampi per le banche tedesche. Quando i mercati valutari si essiccarono, le banche tedesche ebbero serie difficoltà a trovare dollari sul mercato, con la conseguenza che dovettero intervenire le banche centrali con alcuni swap euro su dollaro per assicurare un flusso di valuta americana.
Adesso le banche tedesche hanno ridotto la loro vulnerabilità, aggiunge Dombret, ma il loro stock di asset denominato in dollari , rimane “sostanziale” come anche “la scala
dei disallineamenti di durata dei loro investimenti in dollari Usa”.
Ciò con cui dovranno fare i conti le banche una volta che la Fed alzerà i tassi, pure se Dombret assicura che, a patto di condurre l’exit strategy in maniera trasparente, prevedibile e adeguatamente comunicata, gli effetti sulle banche saranno tutto sommato gestibili.
E poi c’è la questione Bce. “E’ improbabile che ci sia un cambiamento dei tassi in Europa”, osserva. Quindi le banche dovranno da una parte fare i conti con le decisioni in evoluzione della Fed, e dall’altra con i tassi bassi della Bce, che abbiamo visto poco salubri per il loro modello di business.
La conclusione di Dombret è affidata al testo di una canzone degli Alan Parsons project: “Un giorno saprete dove siete”.
Per il momento sanno dove sono: fra l’incudine della Fed e il martello della Bce.
Redde Rationem: l’anno della resa dei conti
S’inizia così, sotto auspici foschi, l’autunno del 2014 che prelude a un inverno in cui il nostro scontento minaccia di trasformarsi in pura infelicità.
L’estate trascorsa, pigra e deflazionaria come s’intravedeva già da primavera, ci consegna un mondo incerto, in bilico sul crinale di una depressione incipiente che gli artifizi delle banche centrali, Fed in testa, hanno travestito nutrendo un boom insensato dei valori mobiliari e timidi rimbalzi di alcuni mercati immobiliari, che hanno restituito alle corrispondenti popolazioni l’illusione di un rinnovato benessere che, essendo di natura puramente monetaria, è illusorio anch’esso, come la moneta di cui si alimenta.
Senonché ogni bel gioco dura poco, e quello della fantafinanza, ossia del denaro virtuale che alimenta ricchezze virtuali, è destinato a soccombere alla logica, questa si stringente, del decumulo cui è destinato tanto affastellarsi numerario di titoli e obbligazioni per i quali il redde rationem, e quindi la resa dei conti, per quanto dilazionato e anzi opportunamente allontanato, verrà prima o poi a conclamarsi, allorquando i tanti creditori degli ancor maggiori debitori inizieranno a convincersi sul serio che la loro ricchezza è scritta sull’acqua limacciosa di un debito incerto.
Tale stato dell’anima, che il mondo ha già sperimentato non più tardi di sei anni fa, si erige e si fortifica ogni qual volta leggiamo di un dato scoraggiante, è evidente, ma al tempo stesso e a differenza del passato, fra quest’anno e il prossimo ci sono alcuni appuntamenti salienti nei quali la campanella della fine ricreazione suonerà più squillante e spaventosa del solito, chiamando gli svogliati scolari che devono governare a decidere e a metterci la faccia, dopo essersi nascosti per un settennio dietro quella del governatore della Bce e degli altri banchieri centrali.
Ciò spiega perché la terza stagione di TheWalkingDebt, che inizia oggi, sarà dedicata al Redde Rationem, dopo che la prima è stata dedicata all’analisi degli squilibri, e la seconda al tentativo di riequilibrio, riuscito solo in parte, delle innumerevoli partite debitorie/creditorie che circolano per il mondo. Si tratterà di capire se la pulsione deflazionaria nella quale si sono infilate le economia dell’Occidente, riuscirà ad essere invertita dalle politiche monetarie espansive della banche centrali, divenendo così inflazionaria quel tanto che serve a trasformare finanze pubbliche ormai avviate verso l’insostenibilità, con grave nocumento per la credibilità degli stati, verso percorsi di risanamento cui certo gran parte della responsabilità è assegnata al Grande Miraggio di quest’epoca economicizzata fino allo sfinimento: la crescita.
Tutti dicono, e con buona ragione, che solo la crescita può salvare le nostre economie. Ma non specificano che ciò dipende dal fatto che abbiamo creato un’economia che, dipendendo dal debito, abbisogna di un reddito crescente per poterlo ripagare. E poiché la crescita dei debiti è ormai fuori controllo, essendo di fatto impagabili, logica vorrebbe che fosse altrettanto fuori controllo anche la crescita, ossia potenzialmente infinita. Ma è chiaro a tutti che così non è e perciò ci si accontenta della versione affievolite di tale utopia, ossia una crescita capace di rendere sostenibili i debiti, intendendosi con ciò il pedissequo soddisfacimento di questa o quella formuletta scritta dagli economisti.
Purtroppo la realtà non sempre obbedisce alla fantasia, per quanto quest’ultima ci s’intigni. E così la pigrizia della nostra società, ben disposte a indebitarsi ma poco vogliose di ripagare questi debiti, oggi ha generato l’ansia di riforme strutturali che ormai coinvolge tutto il mondo, disegnando così una nuova mitologia dove i vecchi non invecchiano, le persone non si ammalano e i giovani nascono già istruiti, visto che soldi pubblici per soddisfare queste pretese ormai non ce n’è più. A patto di fare le riforme, il sol dell’avvenire tornerà a splendere su di noi.
Aldilà del mito, tuttavia, la realtà sempre in agguato ci ricorda tre appuntamenti della stagione che comincia oggi che sarebbe poco saggio ignorare e che qui riepilogo, segnando ognuno un momento topico del nostro redde rationem, personale o sociale che sia.
Il primo, peraltro imminente, è l’avvio della supervisione Bce sulle banche europee che partirà dal primo novembre, dopo che, in ottobre, verranno svelati gli esiti dei temutissimi stress test che Francoforte ha svolto negli ultimi mesi sui pezzi grossi del credito europeo. Ad ottobre, quindi, sapremo quali e quante banche dovrebbero essere ricapitalizzate, e soprattutto da chi, visto che sul tema la confusione in cielo è assai grande.
Gli ultimi due appuntamenti riguardano gli Stati Uniti, che piaccia o no, sono i signori dell’economia contemporanea. Il primo si consumerà alla metà di marzo 2015, quando scadrà la proroga del tetto sul debito deciso dai politici americani a fine 2013, dopo che il mondo ha patito, e non poco, gli esiti dello shut down e le paure di un possibile default, per quanto tecnico, degli Usa.
Il secondo momento americano è quello di metà 2015, quando secondo gran parte degli osservatori la Fed dovrebbe iniziare a rialzare i tassi di interesse. Che ciò possa scatenare una resa dei conti dolorosa è chiaro a tutti, basta vedere cosa è successo con la prova generale di un anno fa.
Questo è il quadro che ci attende, e che naturalmente verrà arricchito dalla cronache, sempre imprevedibili. Come si comporrà lo scopriremo insieme.
Buona lettura e grazie per l’attenzione.