Etichettato: redde rationem

La ricerca dell’equilibrio diventa pratica d’equilibrismo

Al sole di un’estate ormai ingiallita e fredda, sbiadisce l’incanto della narrazione che ci ha impegnato lungo la bella stagione. Ora che siamo ai titoli di coda, allo spettatore distratto rimane solo la vaga inquietudine di chi debba affrontare i rigori della realtà, che d’improvviso si scopre assai più complessa e minacciosa di come l’avevano figurata le voci fuori campo.

Dimenticata la Grecia, ormai scomparsa fino a nuovo ordine dai radar dei contastorie, purgata la Cina, che infine si è rassegnata a una maggiore penetrazione dei capitali esteri (anche se solo per il tramite delle banche centrali) nella sua valuta, rimane solo la Fed, che dovrà rispondere all’annosa domanda se alzerà i tassi oppure no, versione contemporanea dell’amletico dilemma ormai degradato a pura contabilità.

Intanto che aspettiamo, si scopre l’emergenza brasiliana, che ovviamente in molti si sono affrettati a ricollegare a quella cinese, e quindi corollario della narrazione estiva, dimenticando quanto ramificata e complessa sia la ragnatela che unisce i paesi emergenti, ormai in palese crisi, a quelli cosiddetti avanzati, a cominciare dagli europei. Si dimentica, ma è solo uno degli esempi possibili, che le banche spagnole hanno circa 140 miliardi di esposizione verso il Brasile, che adesso dovranno reggere la tensione derivante dal declassamento a spazzatura del rating sovrano.

La crisi brasiliana, che s’iscrive di diritto al cronicario dell’economia internazionale, contribuisce a rafforzare l’opinione che ormai, qualunque cosa si faccia, siamo destinati a subire costantemente perturbazioni. Sicché finisce che l’osservatore esausto rivolga l’occhio speranzoso oltre Atlantico, dove alligna il gigante nordamericano, da un sessantennio giudicato, a torto o ragione, il salvatore del mondo. O, guardandola in altro modo, colui che il mondo finisce sempre con l’inguaiarlo.

Autorevoli esperti invitano la Fed a non alzare i tassi perché, dicono, l’economia non è ancora normale, con ciò sottintendendo che l’agognata normalità, ossia una situazione di equilibrio, prima o poi ritornerà. Ma sanno benissimo che così non è.

L’ideale dell’equilibrio economico ormai si è tramutato in pratica d’equilibrismo. Politici, banchieri e uomini d’affari affrontano la quotidianità percorrendo un filo sottilissimo teso sopra le fauci di mercati affamati, ingordi e paurosi, per di più dovendo fare i conti con popolazioni vecchie, stanche e sazie, che l’illusione della politica monetaria allentata è costretta a mantenere artificialmente vispe, raggiungendo finora l’unico risultato visibile di trasformarle in scommettitori.

Ricordo uno scritto di Einaudi del ’33, dove “lo spediente monetario”, così veniva definito, viene assimilato a “giocare al casinò di Montecarlo”. Ma soprattutto mi torna in mente un passo che ho incontrato nel corso dei miei vagabondaggi libreschi dell’estate e che ho trovato la migliore analisi del nostro stato attuale di cose: “Il mantenimento di bassi saggi d’interesse durante la grande crisi era stata perfettamente conforme ai princìpi tradizionali dell’economia politica; ma, a partire da quel momento, il danaro “a buon mercato” cominciò ad essere considerato non più come uno degli strumenti da applicarsi solo in caso di necessità, ma come caratteristica essenziale della teoria “moderna” che sosteneva essere i bassi saggi d’interesse sempre necessari per impedire depressioni e compensare tendenze al
ristagno secolare”.

Questo parole sono state scritte nel 1954, dopo un ventennio di tassi tenuti bassissimi, per quanto positivi, a differenza di oggi che la teoria del ristagno secolare è tornata di moda. Con la differenza che allora vi era una demografia favorevole e le economia tendevano al pieno impiego. Oggi è il contrario.

Tutto ciò per dire che la storia si somiglia, pure se non si ripete, e ogni volta ci troviamo di fronte a policy maker imbottiti di teoria, convinti di fare la cosa giusta, il cui scopo dichiarato è quello di mantenere un equilibrio che rimane solo teorico, mentre la pratica racconta di disastri temuti, evitati, conclamati, malgestiti il cui esito finale è un sentimento crescente di precarietà. Lo stato d’animo dell’equilibrista, più o meno talentuoso che sia, che deve proseguire sempre temendo di cadere.

Sicché il sentimento che tutti noi ormai frequentiamo d’abitudine, e che la cronaca si preoccupa di confermare, è quello della crescente insicurezza, che ci riporta ai tempi di Ricardo, quando l’economia era la narrazione di un mondo spietato e destinato sostanzialmente alla miseria.

Il senso del bad equilibrium, in cui noi tutti abitiamo e che intitola la quarta stagione di questo blog, è precisamente questo.

Buon inizio di stagione.

 

 

Pubblicità

Il redde rationem sfocia in un bad equilibrium

Questo post chiude e in qualche modo riepiloga la terza stagione del nostro blog, dedicata al redde rationem, ossia alla resa dei conti dell’economia globale che, come abbiamo osservato in questi mesi, ha compiuto decisi passi in avanti culminando nell’eruzione della crisi greca.

Quest’ultima, per non essere declassata al rango di epifenomeno, merita di essere osservata nella sua costituente più profonda, che poi è comune praticamente a tutte le economie che abbiamo esplorato insieme in questi mesi: l’ipoteca del debito che chiama altri debiti per essere sostenuto.

Questa situazione, che è sistemica, si declina un conflitto che è politico, ma che viene analizzato con la lente dell’economia, come è logico che sia, visto che si discute di contabilità. Ma il fatto che il debito sia un problema politico, pure se viene narrato con la parole, che sono politiche anch’esse ma travisate, dell’economia dovrebbe essere il centro della nostra attenzione.

Succede invece che il discorso venga spostato sulle tecnicalità, che sono la coperta più o meno corta con la quale viene dissimulata la questione del debito, che a sua volta è la catena che piano piano, accorciandosi, ci sta strangolando e ci conduce verso un’evidenza che chiunque abbia buon senso conosce già: a un certo livello i debiti diventano inesigibili. Tutti.

Questo è il senso profondo della resa dei conti. Il redde rationem altro non è che l’accettazione che i conti si devono regolare, pure a costo di cancellare i debiti. L’alternativa è continuare in un contesto economico di relazioni falsate da montagne di capitale fittizio – i crediti inesigibili – che continuano a circolare per il mondo generando relazioni debito/credito fondate su una fiducia teorica che chiede costanti rassicurazioni, ieri dagli stati, oggi dalle banche centrali, ormai costrette ad azzerare il senso stesso dell’agire economico pur di non spaventare l’Idra dei mercati.

Anche qui, basta osservare la crisi greca per averne contezza e i suoi esiti. La richiesta dei greci di un haircut forse era sbagliata nei modi e nei tempi, ma che il Fmi sia arrivato alla stessa conclusione dovrebbe farci capire che è insensato ostinarsi a scrivere nei nostri bilanci economici debiti che forse si pagheranno fra un secolo, come usava una volta con i debiti di guerra. E basterebbe ricordare i danni provocati dall’inesigibile debito tedesco dopo il primo dopoguerra e per i vent’anni successivi per dimostrarlo.

L’istanza del debitore, tuttavia, non può essere scissa da quella del creditore, pena uno squilibrio peggiore di quello che si va a sanare. Il debitore ha il diritto di poter pagare i propri debiti, e quindi essere titolare di un debito che si possa pagare sul serio, così come il creditore ha il diritto di essere pagato. Al tempo stesso il debitore ha il dovere di pagare i propri debiti, così come il creditore ha il dovere di favorire tale pagamento.

Questo difficile bilanciamento di diritti e doveri richiede certamente una cornice istituzionale per essere sostenuto, ma soprattutto necessita di pazienza e buona volontà. Ossia tutto il contrario di ciò di cui dà prova l’economia internazionale.

Basta un semplice esempio per averne contezza. Nel mondo in cui viviamo, succede che la Francia presti denaro alla Spagna che lo presta al Brasile. Quindi, al di là dei nomi che sono solo un esempio fra i tanti possibili, che il paese più ricco presti denaro al più povero, che a sua volta sostiene quello più povero di lui.

Questa sarabanda di prestiti ha come unico movente il margine di interesse. Ossia lo spread sui rendimenti. Il paese più ricco prende un rendimento minore prestando a quello a lui più vicino, perché lo giudica meno rischioso, e quest’ultimo, dovendo ripagare i suoi debiti, presta a quello più povero di lui che dovrà pagare di più il prestito perché più rischioso. Sicché finisce che il più povero deve sostenere i debiti di quello meno povero di lui, che deve a sua volta ripagare il più ricco guadagnandoci pure qualcosa. Per un semplice proprietà transitiva, ciò implica che il più povero debba sostenere il più ricco: tutto il contrario di come suggerisce il senso economico comune.

A monte di questa girandola di relazioni più o meno false, c’è il Grande Debitore, ossia gli Usa, che si può permettere di estendere all’infinito i suoi debiti perché nessuno gliene chiederà mai il conto, per motivi che sono essenzialmente politici, con ciò svelandosi la profonda falsità del dibattere economico.

In questo gioco truccato qualcuno vede nel dilemma fra democrazia e mercato l’arco lungo il quale si muove il pendolo della storia. Ma a ben vedere anche questo è un falso problema. La lotta fra democrazia e mercato, di cui ancora una volta il caso greco è una perfetta rappresentazione, a ben vedere non è altro che un conflitto fra fazioni che usano il denaro per decidere chi debba gestire il denaro. La retorica democratica e quella dell’economia di mercato sono due facce della medesima medaglia. Una medaglia coniata sull’incudine della massimizzazione del profitto dal martello dell’uomo economico, al fuoco sempre più freddo dell’interesse composto.

Se questo è lo scenario, forse sarebbe saggio attingere all’esempio di culture più antiche della nostra, che della cancellazioni dei debiti facevano un momento che consacrava il senso della socialità. Quel senso che abbiamo ormai smarrito e che è stato sostituito dalla paura del redde rationem, come ha confessato un eminente politico europeo quando gli hanno chiesto cosa aveva fatto decidere al termine di una trattativa infinita l’accordo greco. La paura, ha risposto, nulla più.

Ma vivere nella paura non porta nulla di buono. Porta a un’economia schizofrenica e sconclusionata, ostaggio di statistiche farlocche e costruzioni matematiche che non capisce più nessuno ma tramite le quali si vuole regolare l’esistenza. Conduce semplicemente alla disperazione proprio perché si dice di volerla evitare.

Sicché, in mancanza di un autentico redde rationem, rimane solo l’attualità. Un oggi eterno dove tutti pensano più o meno ipocritamente di fare l’interesse dell’altro in nome del bene comune mentre il risultato dimostra il contrario. Un bad equilibrium, lo chiamano gli economisti.

Ossia il titolo della prossima stagione del blog che ripartirà a settembre.

Bon voyage.

Il nuovo film dell’estate: la Fed, la Cina e la Grecia

Come in un vecchio film di Sergio Leone, quindi avvincente e pieno di primi piani, i registri del mainstream, pressati dai venti fischianti del redde rationem che ormai non possono più essere ignorati e tantomeno sottovalutati, stanno scrivendo la sceneggiatura del nuovo grande successo dell’estate 2015: la Fed, la Cina e la Grecia.

Un copione denso, cervellotico e pieno di azione, dove la crisi greca suggerisce alla Fed di rimandare l’exit strategy, ormai sempre più comedy, mentre la Cina affronta il suo personalissimo 1929, con le borse a perdere a doppia cifra similmente a quel disgraziato ottobre, come hanno scritto in tanti.

Oppure, a secondo dell’angolatura della telecamera, un film dove l’indecisione dell’economia americana, certificata dalle ultime minute della Fed di giugno, rischia di trasferirsi sulle aspettative dei mercati, peraltro spaventati dal rallentamento cinese e dal rischio Emergenti, vieppiù aumentato dopo che il dollaro si è apprezzato a causa del QE della BCE, ma soprattutto perché la zona euro, e anzi l’Europa tutta è in crisi, sempre a causa della Grecia.

Insomma, la Grecia: ma davvero?

No, invece il problema è la Cina, suggerisce un altro sceneggiatore, che siccome si è riempita di debiti che non sa neanche gestire, sta vivendo il dramma di un riequilibrio brutale quanto salutare. Peccato però che tale riequilibrio sia capacissimo di trasmettersi per contagio prima alle altre economie asiatiche e poi alle banche americane, che la Cina hanno generosamente sovvenzionato in questi anni, mentre la Cina riforniva lo Stato americano comprando i suoi bond. E figuratevi l’Europa, che sta in mezzo e ha pure lei rifornito generosamente le banche cinesi, e che deve sempre fare i conti la la Grecia.

Sta a vedere che la Grecia è l’ombelico del mondo.

Assisto deliziato alle riprese di questo capolavoro estivo e mi preparo a godermelo, visto che durerà a lungo.

Non crediate che esageri. La crisi greca dura ormai da cinque anni, e la previsioni del Fmi diffuse di recente illustrano che se tutto va bene ci vorrà un cinquantennio prima che la situazione si normalizzi in quel disgraziato paese.

E la Fed? Sfoglio le 25 pagine di minute dove si analizza la situazione dell’economia americana e internazionale e l’unica cosa che capisco è che ci sono posizioni, fra i banchieri, assolutamente diverse fra loro: non c’è intesa neanche su quanto l’economia Usa stia in salute, e figurarsi su quando alzare i tassi. Ciò su cui tutti sono d’accordo sono prudenza e moderazione, ricordando pure che pure se il tasso verrà alzato, in ogni caso il FOMC sarà sempre pronto a tornare sui suoi passi. Il che mi fa sorridere: quanto deve essere fragile il mondo globalizzato nel quale viviamo se persino alzare i tassi americani di mezzo punto solleva tanti timori?

Ma li alzeranno poi questi tassi? L’attesa per il rialzo dei tassi Usa assomiglia a quella di Godot. Nella minuta c’è scritto che serviranno ulteriori miglioramenti nel mercato del lavoro e che ci sia abbastanza fiducia che l’inflazione torni al 2% nel medio termine. Quindi ne deduco che non succederà a settembre come si prevedeva (capite bene: c’è la crisi in Grecia e ancora doveva scoppiare quella in Cina) però forse a fine anno o magari meglio nel 2016, come i sempre solerti “non officials” fanno trapelare sulla stampa specializzata.

Anno nuovo, vita (monetaria) nuova.

La sensazione è che, come la crisi greca, la politica monetaria americana sia sostanzialmente bloccata nella stanca ripetizione di se stessa.

I torbidi cinesi, poi, sembrano fatti apposta per durare in eterno. Adesso i cinesi sono entrati nella fase in cui viene invocata l’azione del governo mentre la banca centrale allenta la liquidità. Ennesima replica stanca di episodi a noi assai noti.

Gli osservatori più attenti, e sin da tempi non sospetti, hanno sottolineato quanto fosse fragile il miracolo cinese, che ormai da anni si nutre di se stesso, come un cannibale. Dal 2008 in poi l’economia cinese non è più stata la stessa e ha piantato le basi robuste della rovina. E adesso ci mancava pure la crisi greca. Non sono i cinesi quelli che hanno investito in Grecia massicciamente comprando porti e chissà cos’altro?

Il film dell’estate, per il quale si prevedono repliche in autunno e inverno e chissà per quanto ancora, dovrebbe solo ricordarci una cosa molto semplice, che in tanti dimenticano con troppa facilità: siamo tutti interconnessi. Le politiche delle banche centrali, ormai ostaggio di se stesse come mostra l’attendismo della Fed, hanno ulteriormente infittito e intricato la maglia delle relazioni debito/credito che i diversi paesi del mondo hanno tessuto negli ultimi decenni.

Chi pensa di scamparla dal diluvio universale che potrebbe provocare la generale resa dei conti, sempre in corso di preparazione, è un seguace ignaro di Noé, senza avere però nemmeno l’arca. Così come l’idea della crisi greca che spaventa gli Usa somiglia a quella del battito d’ali della farfalla che scatena un tifone in Australia.

Siamo tutti legati in una fitta rete che imprigiona il mondo in un caos di relazioni economiche, fragili e violente, e pure costretti a farci piacere questa sorta di matrimonio, in salute e in malattia. Sia quando ci sono le riprese che quando arrivano le crisi.

Finché morte non ci separi.

Il fiato corto dell’economia internazionale affretta la resa dei conti

“Non sorprende che le valutazioni dei mercati stiano cambiando”, dice il direttore generale della BIS Jaime Caruana, alla presentazione della relazione annuale 2015, che l’istituto svizzero vede stupefatto e atterrito come l’anno in cui l’impensabile ormai è diventato ordinario. E non tanto e non solo perché stiamo vivendo un tempo in sembrano cambiare le coordinate stesse dell’agire economico, ma perché ciò malgrado, sembra che stiamo correndo felici verso il redde rationem, di cui la crisi greca è un piccolo assaggio.

Servirebbe una vista lunga, perciò, capace di compensare il fiato corto dell’economia internazionale. E quindi politiche coordinate che mettano mano non solo agli squilibri, che sono il frutto del fiatone che affligge ognuno di noi, ma all’infrastruttura stessa dell’economia, a cominciare da quel sistema monetario internazionale, che potremmo immaginare come il sistema idraulico del capitalismo, che si è mostrato, oltre che inesistente, pericolosa fonte di contagio, visto che alla fine trasmette i suoi impulsi – i tassi bassi o negativi – dove magari non servirebbero, contribuendo perciò a peggiorare gli squilibri.

Sono belle parole, perdute però nel vento di un dibattito che non riesce a uscire dalle coordinate delle quotidianità, quando invece servirebbe capacità prospettica.

Sicché l’analisi di Caruana e della Bis la si apprezza se la si interpreta seguendo la doppia filigrana della cronaca e del processo storico, laddove la prima mutevole e caotica, s’interseca in un movimento che non è esagerato definire secolare, che vede l’eterno pendolo fra il lavoro e il capitale oscillare verso quest’ultimo, con legioni di cittadini stupefatti e arrabbiati, che non accettano e insieme subiscono questo smottamento.

I fatti dell’anno passati è facile riepilogarli. Quelli che contano non sono più di tre: “Il prezzo in dollari del petrolio è sceso di circa il 50% nella seconda metà del 2014; la moneta statunitense si è apprezzata significativamente e in modo generalizzato; infine – forse lo sviluppo più inusuale – i tassi di
interesse a lungo termine sono calati ulteriormente, entrando perfino in territorio negativo in alcuni
mercati”. Per darvi un’idea di cosa significhi, considerate che 2.000 miliardi di bond pubblici, per lo più europei, sono scambiati a rendimento negativo, in una inusuale, eppure ormai normale, prassi che vuole la tosatura dei creditori come condizione del presunto riequilibrio.

Se considerate che questi 2.000 miliardi sono una fetta significativa dei 30 trilioni di debiti che gli stati hanno cumulato finora, dopo la grande corsa iniziata nel 2008, comprenderete perché è così dirimente che i tassi restino bassi a lungo, come ripetono tutti. Non serve essere economisti per capire che questo livello di tassi è necessario per rendere sostenibili debiti arrivati ormai al livello di dopoguerra.

Metteteci le prospettive, laddove la crisi greca è solo un antipasto, con la banca centrale americana che prova timidamente ad alzare i tassi, ma senza troppa convizione, i paesi emergenti che devono digerire una montagna di debiti, e le ex grandi speranze dell’Occidente costrette a fare anche loro “tutto ciò che è necessario” per salvare le loro economie, gigantesche e fragili.

Le valutazione dei mercati stanno cambiando, quindi, e non potrebbe essere diversamente. Dopo un settennio di crisi, nota Caruana, “il mix delle politiche rimane fortemente sbilanciato. Continuiamo a fare troppo affidamento sullo stimolo monetario, mentre i progressi sul versante delle riforme strutturali sono ancora insufficienti. I trade-off non si stanno di certo semplificando.

Se questa è la cronaca, la storia suggerisce come possibile che “siano all’opera forze secolari che esercitano una pressione al ribasso sui tassi di interesse di equilibrio. Se anche così fosse, tuttavia, riteniamo che l’attuale
configurazione dei tassi su livelli molto bassi non sia inevitabile, e nemmeno rappresenti un nuovo
equilibrio. È possibile che rifletta invece in misura significativa i limiti degli odierni assetti delle politiche e
dei quadri di riferimento analitici nei confronti dei boom e dei bust finanziari”. Che personalmente interpreto come il trionfo del fiato corto sulla vista lunga. Ci preoccupiamo di salvare la pelle creando le condizioni di farci più male dopo.

Che fare quindi? “La conclusione alla quale siamo giunti è che una normalizzazione delle politiche dovrebbe
essere accolta con favore. La normalizzazione potrebbe generare una certa volatilità nel breve periodo, ma
contribuirebbe a contenere i rischi più a lungo termine”.

Aguzzare gli occhi e trattenere il fiato, insomma.

Il miglior modo per sopportare un redde rationem.

 

 

L’eco del Redde rationem che arriva da Basilea

Leggo con un filo d’apprensione la breve allocuzione di Claudio Borio, capo del dipartimento economico e monetario della Bis, che introduce l’ultimo quaterly report pubblicato ieri. E alla fine penetro la profonda dimensione tragica della sindrome di Cassandra, della quale la presentazione di Borio, forse senza volerlo, è impregnata.

Non riesco a immaginare nulla di più terribile che vedere i segni di qualcosa di straordinario all’orizzonte, usualmente terrificante, e non poter far altro che lanciare allarmi che finiscono col confondersi nel vociare insensato della nostra quotidianità, guadagnando al più centesimi di tempo e pochi grammi d’attenzione.

Mi dico che devo conservare il discorso di Borio per la semplice ragione che quando succederà ciò che paventa, vorrò inviarlo personalmente a tutti coloro che diranno che non avrebbero mai immaginato, che non sapevano, che sono sorpresi. E mi riferisco a quelli, e sono tanti, che hanno detto la stessa cosa non più di sette anni fa, prima che il Grande Crollo mutasse il modo del nostro stare insieme.

Mi consola pensare che l’eco del redde rationem che arriva da Basilea, spaventoso perché eco di un futuro molto più probabile che possibile, ormai si aggiunge a una letteratura che si fa di giorno in giorno più vasta.

Il giorno prima che la Bis rilasciasse la sua rassegna trimestrale, per dire, la voce del gestore di un importante hedge fund si è levata per lanciare un preoccupato monito alla Fed, ormai in aria di rialzo dei tassi, ricordandole il disastro del 1937, che nel mio piccolo avevo raccontato qui, provocato da una restrizione creditizia seguita a un momento di euforia giudicata eccessiva.

Ma, vedete, non è tanto il vociare convulso di chi dalle politiche monetarie della Fed ha solo guadagnato che mi preoccupa. E’ la visione d’insieme che Borio tratteggia con poche semplici parole. E il monito, assai persuasivo, che “se si continuerà a procedere su questo cammino, che non ha precedenti, i confini tecnici, economici, giuridici e persino politici verranno senz’altro messi alla prova. Sarà necessario tenere gli occhi aperti, poiché le conseguenze sarebbero rilevanti, per il sistema finanziario e non solo”.

Ecco il punto. Gli allentamenti monetari hanno generato una quantità enorme di liquidità che ha talmente impregnato il nostro tessuto economico da tramutarsi in uno stillicidio che gocciola dai piani alti della finanza sul tessuto connettivo della nostra società.  La droga del credito facile ha generato una dipendenza tossica della società. E adesso che lo spaccio volge al termine, chi può dire quali saranno i danni che provocherà l’astinenza?

Per adesso i testimoni come Borio possono solo ricordarci ciò che è accaduto e che sta ancora accadendo.

La prima circostanza è quella che potremmo definire la rassegnazione dei creditori: “Alla fine di febbraio 2.400 miliardi di dollari circa di debito sovrano a lungo termine venivano scambiati con rendimenti negativi. Di questi, oltre $1 900 miliardi erano riconducibili ai soli paesi dell’area dell’euro. Da allora, la tendenza discendente non si è fermata. Gli ultimi dati indicano che i rendimenti francesi, tedeschi e svizzeri sono negativi per le scadenze fino a quattro, sei e 10 anni rispettivamente”.

La seconda è che tale deriva sembra irrefrenabile: “Dagli inizi di dicembre sono state più di 20 le banche centrali che hanno allentato la politica monetaria, anch’esse spesso cogliendo di sorpresa i mercati. Alcune, come la People’s Bank of China o la Reserve Bank of India, reagivano soprattutto a condizioni interne; altre, come la Banca nazionale svizzera o la banca centrale danese, a condizioni esterne: i loro tassi di cambio si trovavano o rischiavano di trovarsi sotto enormi pressioni. Più in generale, l’elevata integrazione dei mercati finanziari significa che nemmeno un cambio flessibile è in grado di offrire un isolamento completo. Basti ricordare che il Diritto speciale di prelievo – il paniere delle principali monete di riserva – frutta attualmente meno di 5 punti base a tre mesi. In queste condizioni, un allentamento chiama l’altro”.

E poiché un allentamento chiama l’altro, la conseguenza è che “i rendimenti obbligazionari dell’area dell’euro sembrano aver influenzato significativamente quelli statunitensi. Dopo l’annuncio della BCE i rendimenti del Bund decennale sono scesi di 13 punti base, quelli del corrispondente titolo statunitense di ben nove”. Una novità non da poco nel panorama internazionale che deve anche vedersela con altre due seccature: il calo dei prezzi del petrolio, che peggiora la pressione al ribasso dei prezzi, e il rafforzamento del dollaro, che arriva proprio mentre si parla di aumento dei tassi negli Usa.

“Da metà 2014 – osserva Borio – il tasso di cambio del dollaro ponderato in base al commercio si è apprezzato addirittura del 20% circa – uno degli aumenti maggiori mai registrati in un lasso di tempo analogo; contemporaneamente, si è intensificato il deprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro, lasciando intravedere il raggiungimento della parità“.

La domanda cosa implichi tutto ciò per la liquidità globale trova risposta nell’affermazione che, essendo il dollaro ancora la moneta più utilizzata a livello globale. “come attestano gli oltre 9.000 miliardi dollari di credito in essere a favore di soggetti non bancari al di fuori degli Stati Uniti”, “un ulteriore apprezzamento del dollaro, specie se accompagnato da una politica monetaria più restrittiva negli Stati Uniti, tenderà nel complesso a produrre un irrigidimento delle condizioni di finanziamento”.

Ed ecco il secondo punto, paradossale: l’abbondanza di liquidità genera le condizioni per la sua diminuzione, più o meno traumatica. Scorgo in questo logica contraddizione un altro esito tragico del nostro tempo.

Perciò non mi stupisco quando Borio osserva che “allo stesso tempo, sono progressivamente aumentate le vulnerabilità, sulla scia della vigorosa espansione creditizia in vari paesi meno colpiti dalla crisi”. La minaccia rappresentata dai paesi emergenti ormai appartiene a ciò che è notorio e al tempo stesso ignorato. “Va notato – ci ricorda ancora – che in base agli ultimi dati i boom finanziari in alcune economie emergenti avrebbero dato i primi segni di cedimento. In particolare, la crescita delle attività verso la Cina contabilizzate dalle banche dichiaranti alla BRI è rallentata bruscamente, collocandosi ad appena il 3% su base trimestrale nel terzo trimestre 2014. Le attività interbancarie, poi, si sono addirittura contratte”.

Insomma, le fragilità aumentano al crescere della robustezza (presunta) dell’economia globale mentre “a fare da sfondo a questi andamenti è proseguita la ricerca di rendimento, nonché la dipendenza dei mercati dall’accomodamento monetario delle banche centrali”. Dipendenza appunto.

Tutto ciò malgrado, i più ottimisti si contentano di osservare che la volatilità è bassa. Ma c’è sempre un ma: “I mercati non possono mantenersi liquidi quando è ormai da tempo che la via d’uscita si sta restringendo. Non bisogna farsi illusioni al riguardo”.

Non facciamoci illusioni perciò.

Speriamo di cavarcela.

 

Il peccato monetario del XXI secolo

Il peccato monetario dell’Occidente (e della sua succursale giapponese), che diede già il titolo a un celebre libro di Jacques Rueff del 1972 trova nel nostro tempo una riedizione in ciò che è accaduto agli albori del nuovo secolo, il XXI.

E’ proprio dai primi anni 2000 che si consolida, a cominciare dagli Stati Uniti, la pratica del denaro a basso costo che poi si contagia al resto del mondo come una malattia benigna.

Salvo poi scoprire, oggi, l’effetto nefasto che ciò ha comportato sulle nostre economie, ormai infestate da montagne di capitale fittizio che nomina decine di trilioni di debiti sostanzialmente irredimibili, che mai sarebbero stati sottoscritti, o almeno non in queste dimensioni, se non fosse stato così facile ed economico accenderli.

Il peccato monetario del XXI secolo, proprio come quello descritto esemplarmente da Rueff e del quale è un ideale proseguimento, ci dice molto della tendenza delle economie avanzate a evitare il momento del rendiconto – il redde rationem – ma al contempo lo individua come inevitabile.

La logica dell’interesse composto e della produzione monetaria ad libitum, combinandosi insieme, conducono inevitabilmente all’esito contemporaneo. Specie in assenza di una qualunque forma di responsabilità. Il peccatore difficilmente si redime, a meno di illuminanti rivelazioni, di sua iniziativa.

L’unico vantaggio è che il peccato monetario, in quanto declinazione del peccato più profondo dell’Occidente, ossia la riduzione dell’essere all’economico, si può rappresentare in un grafico cartesiano come quello che molto gentilmente ci ha messo a disposizione Hervé Hannoun, vice direttore generale della Bis nel suo recente intervento (“Central Bank and the global debt overhang”).

Leggendolo scopro un’altra attitudine dell’Occidente e della sua succursale giapponese, che ormai seduce anche la Cina: il non voler pagare il costo delle proprie decisioni che, volenti o no, hanno evidenti conseguenze.

Per non affrontare anni fa la deflazione che sarebbe stata necessaria per compensare l’eccesso di risparmio dei creditori, e quindi l’eccesso di consumi dei debitori, le banche centrali hanno fatto sprofondare i tassi reali. Ma ciò che hanno ottenuto è nulla: i debiti sono aumentati, i creditori di prima sono rimasti tali e anche i debitori. E il tempo della deflazione è tornato.

Ma prima di dire oltre è meglio che vi illustri questo grafico che parla la lingua oggettiva della matematica, e quindi è elusivo abbastanza da non dire la cosa fondamentale. Ossia che prima o poi i peccati si scontano. E quelli monetari con lo svantaggio che si scontano a interesse composto.

La storia di questi ultimi trent’anni, trascorsi all’ombra di quello che il banchiere chiama debt-driven growth model, ossia crescita a debito, mostra che agli albori, intorno al 1986 i paesi del G7 avevano un debito totale di circa 20 trilioni di euro e i tassi di interesse reali erano poco sopra il 4%. Oggi il debito totale quota intorno ai 100 trilioni e i tassi sono in territorio negativo. Basterebbe questo a chiudere il discorso.

Ma giova approfondire. Il banchiere della Bis, infatti, illustra in un altro grafico lo stato attuale dei tassi e quello che avrebbe dovuto essere solo che si fosse applicata una delle regole auree del central banking, ossia la Taylor rule, un algoritmo che quota il livello ottimale dei tassi sulla base di alcune variabili macroeconomiche.

Se prendiamo in esame il mondo globale, si osserva con chiarezza che i tassi di interesse effettivi e quelli derivanti dalla regola di Taylor camminano sostanzialmente appaiati dal 1996 fino all’inizio del XXI secolo quando iniziano significativamente a divaricarsi. Fra il 2002 e il 2007, quando l’eccesso di debito esplose nel mondo, se le banche centrali avessero applicato la Taylor rule avremmo dovuto avere tassi medi nell’ordine dell’8-9%, a fronte dei quali i tassi effettivi quotavano intorno al 3%.

Nei paesi avanzati tale spread pesa 2-3 punti, leggermente di più nei paesi emergenti, come d’altronde è più ampia la differenza fra i due tassi che, in applicazione della regola, avrebbero dovuto arrivare nei paesi periferici fino al 10%.

L’unico momento in cui i due tassi si toccano è il 2009-10, quando i tassi vengono bruscamente ribassati, fino a zero nei paesi avanzati, dove sono rimasti senza risalire come la regola di Taylor avrebbe prescritto. Col risultato che nei paesi avanzati, secondo la regola di Taylor, oggi dovrebbero essere poco sotto il 2%, anziché trovarsi in territorio negativo.

Cosa sarebbe successo se le banche centrali avessero obbedito ai loro algoritmi? Facile: deflazione e disindebitamento forzato in stile anni ’30, ossia ciò che tutti volevano evitare.

Il fatto che se ne riparli oggi, del rischio di ricadere nella deflazione, vuol dire solo che la cheap money non è la soluzione.

E’ il problema.

 

 

Redde Rationem: l’anno della resa dei conti

S’inizia così, sotto auspici foschi, l’autunno del 2014 che prelude a un inverno in cui il nostro scontento minaccia di trasformarsi in pura infelicità.

L’estate trascorsa, pigra e deflazionaria come s’intravedeva già da primavera, ci consegna un mondo incerto, in bilico sul crinale di una depressione incipiente che gli artifizi delle banche centrali, Fed in testa, hanno travestito nutrendo un boom insensato dei valori mobiliari e timidi rimbalzi di alcuni mercati immobiliari, che hanno restituito alle corrispondenti popolazioni l’illusione di un rinnovato benessere che, essendo di natura puramente monetaria, è illusorio anch’esso, come la moneta di cui si alimenta.

Senonché ogni bel gioco dura poco, e quello della fantafinanza, ossia del denaro virtuale che alimenta ricchezze virtuali, è destinato a soccombere alla logica, questa si stringente, del decumulo cui è destinato tanto affastellarsi numerario di titoli e obbligazioni per i quali il redde rationem, e quindi la resa dei conti, per quanto dilazionato e anzi opportunamente allontanato, verrà prima o poi a conclamarsi, allorquando i tanti creditori degli ancor maggiori debitori inizieranno a convincersi sul serio che la loro ricchezza è scritta sull’acqua limacciosa di un debito incerto.

Tale stato dell’anima, che il mondo ha già sperimentato non più tardi di sei anni fa, si erige e si fortifica ogni qual volta leggiamo di un dato scoraggiante, è evidente, ma al tempo stesso e a differenza del passato, fra quest’anno e il prossimo ci sono alcuni appuntamenti salienti nei quali la campanella della fine ricreazione suonerà più squillante e spaventosa del solito, chiamando gli svogliati scolari che devono governare a decidere e a metterci la faccia, dopo essersi nascosti per un settennio dietro quella del governatore della Bce e degli altri banchieri centrali.

Ciò spiega perché la terza stagione di TheWalkingDebt, che inizia oggi, sarà dedicata al Redde Rationem, dopo che la prima è stata dedicata all’analisi degli squilibri, e la seconda al tentativo di riequilibrio, riuscito solo in parte, delle innumerevoli partite debitorie/creditorie che circolano per il mondo. Si tratterà di capire se la pulsione deflazionaria nella quale si sono infilate le economia dell’Occidente, riuscirà ad essere invertita dalle politiche monetarie espansive della banche centrali, divenendo così inflazionaria quel tanto che serve a trasformare finanze pubbliche ormai avviate verso l’insostenibilità, con grave nocumento per la credibilità degli stati, verso percorsi di risanamento cui certo gran parte della responsabilità è assegnata al Grande Miraggio di quest’epoca economicizzata fino allo sfinimento: la crescita.

Tutti dicono, e con buona ragione, che solo la crescita può salvare le nostre economie. Ma non specificano che ciò dipende dal fatto che abbiamo creato un’economia che, dipendendo dal debito, abbisogna di un reddito crescente per poterlo ripagare. E poiché la crescita dei debiti è ormai fuori controllo, essendo di fatto impagabili, logica vorrebbe che fosse altrettanto fuori controllo anche la crescita, ossia potenzialmente infinita. Ma è chiaro a tutti che così non è e perciò ci si accontenta della versione affievolite di tale utopia, ossia una crescita capace di rendere sostenibili i debiti, intendendosi con ciò il pedissequo soddisfacimento di questa o quella formuletta scritta dagli economisti.

Purtroppo la realtà non sempre obbedisce alla fantasia, per quanto quest’ultima ci s’intigni. E così la pigrizia della nostra società, ben disposte a indebitarsi ma poco vogliose di ripagare questi debiti, oggi ha generato l’ansia di riforme strutturali che ormai coinvolge tutto il mondo, disegnando così una nuova mitologia dove i vecchi non invecchiano, le persone non si ammalano e i giovani nascono già istruiti, visto che soldi pubblici per soddisfare queste pretese ormai non ce n’è più. A patto di fare le riforme, il sol dell’avvenire tornerà a splendere su di noi.

Aldilà del mito, tuttavia, la realtà sempre in agguato ci ricorda tre appuntamenti della stagione che comincia oggi che sarebbe poco saggio ignorare e che qui riepilogo, segnando ognuno un momento topico del nostro redde rationem, personale o sociale che sia.

Il primo, peraltro imminente, è l’avvio della supervisione Bce sulle banche europee che partirà dal primo novembre, dopo che, in ottobre, verranno svelati gli esiti dei temutissimi stress test che Francoforte ha svolto negli ultimi mesi sui pezzi grossi del credito europeo. Ad ottobre, quindi, sapremo quali e quante banche dovrebbero essere ricapitalizzate, e soprattutto da chi, visto che sul tema la confusione in cielo è assai grande.

Gli ultimi due appuntamenti riguardano gli Stati Uniti, che piaccia o no, sono i signori dell’economia contemporanea. Il primo si consumerà alla metà di marzo 2015, quando scadrà la proroga del tetto sul debito deciso dai politici americani a fine 2013, dopo che il mondo ha patito, e non poco, gli esiti dello shut down e le paure di un possibile default, per quanto tecnico, degli Usa.

Il secondo momento americano è quello di metà 2015, quando secondo gran parte degli osservatori la Fed dovrebbe iniziare a rialzare i tassi di interesse. Che ciò possa scatenare una resa dei conti dolorosa è chiaro a tutti, basta vedere cosa è successo con la prova generale di un anno fa.

Questo è il quadro che ci attende, e che naturalmente verrà arricchito dalla cronache, sempre imprevedibili. Come si comporrà lo scopriremo insieme.

Buona lettura e grazie per l’attenzione.

Le banche centrali fanno esplodere i debiti delle famiglie

Nella forsennata crescita del credito, che ha finito col rinchiudere il mondo nella trappola del debito, le banche centrali del mondo giocano un ruolo rilevante, per non dire che ne sono direttamente responsabili.

Queste entità, che dall’esplodere della Grande Crisi hanno assurto al ruolo di demiurghi delle nostre società, hanno insieme il merito di aver evitato il tracollo – il redde rationem – e dall’altro di aver creato le premesse per il prossimo, che quando si presenterà sarà assai più problematico (e costoso) da gestire.

A ciò si aggiunganol’effetto disastroso che ha sugli animal spirit dei capitalisti l’idea che il denaro sia gratis – anzi a tassi negativi – e che le banche centrali siano diventati contenitori inesauribili di asset, laddove bilanci ormai tesi all’inverosimile non si sa più bene come né quando potranno tornare alla normalità.

La Bis ha gioco facile, nella sua ultima relazione annuale, a rilevare come dal 2007 al 2013 i bilanci delle banche centrali siano più che raddoppiati, superando quota 20 trilioni di euro a furia di riempirsi di obbligazioni, necessarie sostenere alcuni bilanci pubblici, e riserve. E ha gioco altrettanto facile nel notare che tanta fatica, che pure tutti dicono necessaria a fronteggiare il crack post Leham, ci abbia oggi condotti a vivere in un mondo assai più pericoloso di prima, dove il minimo timore di un aumento dei tassi fa esplodere la paura.

Ma ancor peggio, il gioco del credito facile ha sortito l’effetto opposto a quello che sarebbe stato utile per fronteggiare la drammatica crisi da debito privato che ha distrutto i bilanci pubblici di mezzo mondo: il debito privato, infatti, rimane intollerabilmente alto, quando non sia aumentato proprio in conseguenza dell’azione delle banche centrali, che hanno fatto sprofondare i tassi in territorio negativo in tutte le principali economie.

La normalizzazione, perciò, nessuno sa più bene cosa significhi. Cosa farne di questi 20 trilioni e oltre che gli stati hanno accumulato, e che ormai assomigliano a un gigantesco debito fuori bilancio, è mistero gioioso. E ancor più misterioso è capire come faranno a uscire dalla secca dei tassi a zero, che ormai fa scricchiolare la loro presunta indipendenza e, di conseguenza, la loro credibilità.

Sappiamo però alcune cose, che la Bis molto graziosamente ci comunica: “Un basso livello dei tassi di interesse non risolve il problema di un debito elevato. Può contenere i costi per il servizio del debito per qualche tempo, ma poiché incoraggia, anziché scoraggiare, l’accumulo di debito, amplifica l’effetto dell’eventuale normalizzazione”.

In pratica, quando e se le BC aumenteranno i tassi, poiché nel frattempo i privati si saranno riempiti di debiti a basso costo, l’effetto sulla sostenibilità di questi debiti sarà drammatico. E stavolta gli stati non potranno più metterci una pezza, atteso che devono già fare i conti con la sostenibilità fiscale dei loro bilanci.

Come se non bastasse, complice l’economia asfittica nella quale ci arrabbattiamo tutti, sono spuntate pure “pressioni disinflazionistiche impreviste, che rappresentano una sorpresa negativa per i soggetti indebitati ed evocano lo spettro della deflazione”. Il che costringe i banchieri centrali, BCE in testa, ad inventarsi nuovi strumenti per dare ossigeno ai prezzi, quindi espandendo ulteriormente il credito, ammesso che qualcuno lo voglia.

Quo usque tandem abutere, patientia nostra? direbbe Cicerone.

“Per tutto il tempo che sarà necessario”, potrebbe rispondere un banchiere centrale parafrasando il celebre detto di Mario Draghi.

E infatti le varie forward guidance dicono tutte la stessa cosa: la politica monetaria accomodante durerà finché serve.

Peccato che la Bis non abbia dubbi quando afferma che “l’efficacia della forward guidance in presenza di tassi ufficiali alla soglia zero appare limitata”. Si fa per dire, insomma, piuttosto che dire per fare.

La verità, però, che la Bis teme anche se non lo dice, è che neppure i banchieri sanno come uscire dal cul de sac nel quale si sono infilati. “La transizione sarà probabilmente un percorso complicato e accidentato, indipendentemente da come verrà comunicata; in parte per questi motivi, non va sottostimato il rischio di una normalizzazione troppo tardiva e troppo graduale”.

Come prima e peggio di prima, insomma: questo è il rischio che sta montando sotto i nostri piedi e i cui segnali s’intravedono ormai troppo numerosi per ignorarli. E i paesi anglosassoni, che prima e più degli altri hanno iniziato questa contraddanza, sono i primi che dovranno farci i conti.

Prendete gli Usa. Gli ultimi dati sulla disoccupazione dicono che è diminuita al 6,1%, a fronte di un 6,3%, ben al di sotto del 6,5 che l’ex boss Bernanke aveva indicato come soglia per iniziare il tapering. Ricordiamo tutti il caos che scoppiò a maggio 2013 sui mercati internazionali. Tanto che la Fed si premurò di spiegare che avrebbe tenuto conto di altre variabili, preferibilmente fumose, e lo stesso ha fatto la Banca d’Inghilterra, che ormai parla genericamente di quadro macroeconomico.

Fatto sta che ormai i mercati si aspettano che la Fed inizi a far salire i tassi nel 2015. Ma una cosa è aspettarselo, un’altra è vederlo accadere.

Anche perché nel frattempo la Banca del Giappone ha lanciato la sua personalissima riscossa contro la ventennale deflazione, promettendo urbi et orbi che inonderà il mondo di yen. La conseguenza è stata che la BoJ ha già accumulato asset nel suo bilancio equivalenti al 50% del Pil giapponese, di fronte ai quali il “misero” 20% di Fed, BoE e Bce sembra persino poca cosa.

E parliamo solo delle banche centrali principali, ossai di quelle che dettano la linea.

Se andiamo a vedere in alcuni paesi meno rilevanti, ma non per questo meno sistemici, scopriamo nei numeri l’effetto che queste politiche hanno avuto nei bilanci delle famiglie. Vale a dire coloro che con questi disastri dovranno farci i conti, qualora gli dèi della finanza dovessero nuovamente cadere nel baratro di una crisi di fiducia.

Anche in quest’analisi ci soccorre la Bis. La Banca ha preso in esame alcune economie avanzate, anche se di stazza minore rispetto ai colossi. In particolare: Australia, Canada, Nuova Zelanda, Norvegia, Svezia e Svizzera.

Tutte costoro condividono la circostanza di avere un elevato debito privato e un’inflazione più bassa dell’obiettivo, malgrado tassi nominali che in alcuni casi, come la Svizzera, sono praticamente a zero.

Ebbene, dal 2007 al 2014, il debito delle famiglie, in percentuale del reddito disponibile, è passato dal 155% a oltre il 175%, incoraggiato dai tassi negativi e dal costante aumento del mattone.

Cosa succederà a questi debiti quando i tassi americani cominceranno a salire?

Tutti conoscono la risposta.

Ma nessuno la dice.

 

 

I tormenti dei creditori

Se il mondo è finito nella trappola del debito, come efficacemente rileva la Bis nel suo ultimo rapporto annuale, vuol dire che insieme ai debitori, che sono persone, famiglie, imprese e intere collettività, sono finiti in trappola anche gli abitanti dell’altra metà del cielo, da sempre occultati nel discorso economico, ossia i creditori. Quelli che, rivelando un pudore che la dice lunga su sostrato psicologico del nostro discorso economico, i resoconti ufficiali chiamano risparmiatori, per intenderci.

Costoro dovrebbero suscitare la nostra pena, costretti come sono a subire il tormento sofferto da chi ha troppi soldi, creati per magia da entità alchemiche che si chiamano banche centrali, e non sa dove metterli. E sono convinto che molti italiani, pure se non lo ammetterebbero mai perché ci piace rappresentarci straccioni e finto poveri, questo tormento lo hanno sperimentato e lo stanno sperimentando sulla loro pelle.

Ma cosa volete che siano le poche migliaia di euro di un piccolo risparmiatore rispetto ai trilioni di un fondo pensione?

Sicché dovremmo ricordarci che se è vero che il 2013 è stato un anno eccezionale per i paperoni di tutto il mondo, è altresì vero che tali guadagni sono stati frutto di patimenti altrettanti corposi: gioie e dolori, viene da dire, scrutando  da lontano il flusso emergente di una montagna di spazzatura finanziaria che, dalla marea declinante dei rendimenti,  emerge come un mucchio di cadaveri che si pensava di aver sepolto una volta per tutte, dopo la carneficina post Lehman del 2008.

Già mi pare di sentirli i vostri pensieri: ah magari lo avessi io il problema di dove mettere i soldi, quando ho quello contrario, ossia di dove prenderli.

Ma sono pensieri automatici, frutto di un’epoca automatica nella quale il mainstream suggerisce a ognuno di noi persino cosa pensare, non badateci.

Concentriamoci invece sui tormenti dei creditori perché costoro, che per natura faranno affogare coloro a cui prestano prima di affogare loro (e di conseguenza) ormai sono il vero primo e forse unico potere del nostro esausto mondo, costretto a finanziare ogni anno gigantesche quantità di obbligazioni e quindi obbligato a chinare il capo e a farsi benedire dai possidenti.

Ma questo è il tormento del debitore, che conosciamo tutti bene.

Il tormento del creditore è di natura assolutamente diversa. Anche lui, come il debitore, conosce l’insonnia, ma per opposte ragioni. L’uno calcola la propria incapienza, l’altro è insonne perché nulla cura la sua inesausta fame di rendimento.

Carnivoro perciò, questo animale astruso, ma solo di temperamento, perché poi di bocca buona com’è lo si potrebbe definire onnivoro, come il maiale e l’uomo.

La Bis, sempre prodiga di ragguagli morali nascosti dietro la patina della contabilità, ci racconta che costoro, i creditori, ormai disperano di trovare alcunché capace di dare ostello dignitoso alla loro fortuna numeraria.

Ormai comprano di tutto, purché possano spuntare qualche punto base in più del decennale americano o, peggio ancora, di quello tedesco. La loro fame di rendimento li sta accecando e presto li perderà, sembra di capire, visto che – è sempre bene ripeterlo – il rendimento porta con sé il rischio.

“In questa situazione di elevata propensione al rischio – dice la Banca – le vivaci emissioni di titoli a più basso rating sono state accolte da una forte domanda da parte degli investitori”.

E ricordiamoci pure che “negli ultimi è stato emesso un volume considerevole di debito, sia nel segmento di qualità, sia in quello ad alto rendimento”. Ossia quello più rischioso. Quest’ultimo, giova saperlo visto che qui si fa la storia del debito, è esploso a 90 miliardi di dollari nel 2013, quando prima della crisi non arrivava a 30. Quale migliore nemesi per il creditore che essere costretto a navigare un post crisi peggiore del pre crisi?

Comprendete le ragioni del tormento?

No? Siete ancora invidiosi? Allora ve ne do un’altra.

“Nel mercato dei prestiti consorziali – dice la Bis – i finanziamenti erogati a mutuatari con merito di credito inferiore e alto grado di leva (prestiti leveraged) hanno superato il 40% delle nuove sottoscrizioni per gran parte del 2013 una quota superiore a quella pre‑crisi dal 2005 a metà 2007. La presenza di misure di protezione dei creditori sotto forma di clausole di salvaguardia (covenant) è diminuita sempre più nei nuovi prestiti”.

Meno protezioni, perciò, per queste Moby Dick creditrici che schiumano dollari mentre infiniti Achab debitori cercano di arpionarle per succhiargliene un po’.

La balena-creditrice mi suscita sempre più pena, poi, quando leggo che “l’attrazione degli investitori per le tipologie di prestiti più rischiose ha fomentato anche un aumento delle emissioni di attività come le obbligazioni payment-in-kind e i fondi di investimento immobiliare specializzati in mutui ipotecari (mREIT)“.

Spazzatura finanziaria, appunto, che uno credeva l’esperienza avesse consegnato alla storia e che invece riemerge dalla fossa nella quale era stata interrata nel biennio successivo alla crisi, quando i creditori, ormai tremanti, si rivolsero al Demiurgo che tutto può in cerca di protezione.

A proposito, sapetete come è andata a finire il fly-to-quality di quegli anni verso i sicurissimi bond pubblici americani?

E’ finito benissimo (per gli americani).

Sempre la Bis, Virgilio ideale, competente e sicuro, nei gironi in cui il creditore patisce i suoi tormenti infernali, giusto contrappasso per la sua avidità, tratteggia un box che già dal titolo la dice lunga:  L’ondata di vendite 2013 nel mercato dei titoli del Tesoro Usa.

Già, qual è stato l’impatto dell’ondata di vendite di bond Usa sui portafogli dei poveri/ricchi creditori che tali titoli avevano comprato dopo il crack Lehamn per metterli al sicuro? Dipende da come si contano le perdite, spiega la Bis, che si spinge a confrontare l’ondata di vendite Usa scatenatasi da maggio 2013, dopo l’annuncio improvvido (o subdolamente provvido) dell’ex boss della Fed che presto il tapering sarebbe iniziato, con quella accaduta nel 1994 e poi nel 2003.

Anche in questi due casi a far detonare l’ondata di vendite fu un rialzo dei tassi Usa che evidentemente, ben consci del loro “esorbitante privilegio” ci marciano e non ci pensano due volte a tosare i poveri creditori che hanno affidato loro i loro sudatissimi risparmi.

Ebbene, nel 2013, spiega la Bis, “le perdite ai prezzi correnti di mercato sui singoli titoli durante le turbolenze del 2013 non sono state pari a quelle del 1994 e del 2003. Ma un tratto distintivo dell’ondata di vendite del 2013 è stata la massiccia espansione delle consistenze di debito a seguito della crisi finanziaria”. Quindi le perdite sono state minori, sui prezzi correnti, ma maggiori sullo stock. Ed è facile capire perché: “Fra gli inizi del 2007 e il 2014 lo stock di titoli del Tesoro USA negoziabili in essere è pressoché triplicato, passando da $4 400 a 12.100 miliardi, e al suo interno è aumentata la quota di titoli detenuti nell’ambito del Federal Reserve System Open Market Account”.

Conclusione: “A causa della forte espansione dello stock di titoli del Tesoro USA dalla crisi finanziaria, l’ondata di vendite del 2013 sui mercati obbligazionari ha generato una perdita aggregata maggiore, in termini sia di dollari sia di PIL, rispetto alle turbolenze del 1994 e del 2003. Fra maggio e fine luglio 2013 l’insieme dei detentori del debito statunitense è incorso ai prezzi correnti di mercato in perdite cumulate intorno ai $425 miliardi, equivalenti a circa il 2,5% del PIL. Le perdite aggregate stimate per l’ondata di vendite del 2003
ammontarono a $155 miliardi, pari all’1,3% del PIL, e quelle del 1994 a circa $150 miliardi, intorno al 2% del PIL”.

Se queste piccole storie non vi hanno mosso a compassione per i poveri/ricchi creditori, allora almeno abbiatene per quei poveracci che dei loro tormenti devono farsi carico, dovendone amministrare le fortune e, peggio ancora, dovendo pure render conto.

“Gli intermediari con passività fisse – osserva la Bis – (ad esempio compagnie assicurative e fondi pensione) o i gestori patrimoniali che promettono ai clienti un rendimento fisso, possono reagire a un contesto di tassi bassi assumendo un maggior rischio di duration o di credito. Anche i sistemi di retribuzione nel settore della gestione patrimoniale, che legano il compenso a misure di performance assolute, possono contribuire in modo rilevante a incoraggiare la ricerca di rendimento da parte dei gestori”.

Ecco perciò la tirannide del creditore, direttamente proporzionale al suo tormento, che cresce come una malapianta che avvolge tutti, e sovente neanche ce ne rendiamo conto. Dal grande fondo pensione, che amministra il risparmio previdenziale dell’impiegato, alla banca, che usa chissà come i faticosi risparmi della pensionata, all’asset manager, che smista i milioni del rentier. Tutti insieme appassionatamente.

Aspettando il redde rationem.