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L’emersione degli Emergenti diventa un emergenza
I rigori dell’autunno hanno iniziato a spirare assai prima di quanto comandasse il calendario sull’ampia panoplia che raccoglie i cosiddetti paesi emergenti. I disordini sui mercati cinesi, e adesso quelli che agitano il Brasile, sono solo la punta di un iceberg ben piantato sui fondali della finanza e che oggi le cronache riportano all’attenzione dei distratti, ossia tutti coloro che finora non hanno voluto vedere ciò che era evidente da diverso tempo.
Sicché si moltiplicano gli allarmi, e non a caso. L’ultimo l’ha lanciato la Bis nella sua quaterly review di settembre, che alle vulnerabilità delle economie emergenti dedica un approfondimento. E’ opportuno leggerlo per non dire, domani, che l’iceberg sul quale il Titanic dell’economia internazionale rischia di infrangersi non fosse chiaramente visibile.
Al momento l’emergenza degli Emergenti viene declinata nella possibilità di un rallentamento dell’economia globale, ossia l’evento che più di tutti si teme, visto che il calo del prodotto ha influenze nefaste sulla sostenibilità dei debiti. E giocoforza, poi, occuparsene, quando ormai si è alla vigilia di una sempre più ipotizzata inversione del lungo ciclo accomodante della politica monetaria Usa, alla quale così tanto devono i cicli finanziari di queste economie.
La cronaca ci racconta che la svalutazione cinese ha avuto un effetto analogo sulle principali valute dell’area asiatica, e poi di altri EME accrescendo insieme i timori degli investitori per la tenuta di queste economie a fronte di un paventano quanto probabile raffreddamento del gigante cinese.
A farne le spese, fra le altre cose, le quotazioni dei prezzi delle materie prime, petrolio in testa, spinte al ribasso dal timore di un rallentamento della domanda, da un lato, e da un aumento dell’offerta, dall’altro, a sua volta dovuto, secondo quanto ipotizza la Bis, anche a fattori di natura finanziaria, a cominciare dall’alto livello di debiti delle compagnie petrolifere.
Il calo delle materie prime ha aggravato il deprezzamento dei cambi, aumentando la pressione di molti paesi sul lato della bilancia dei pagamenti. L’apprezzamento del dollaro, valuta nella quale sono denominati circa 9.600 miliardi di debiti esteri gran parte dei quali in pancia di aziende degli EME, suscita non poche perplessità sulla capacità che avranno questa compagnie di servire i loro debiti, in un contesto di redditi declinanti, come il rallentamento della crescita lascia temere.
Ciò che ne risulta è un avvitarsi dei fattori di crisi che rischiano di spingere queste economie verso forme disordinate di deleverage.
Il caso cinese, in tal caso, è icastico. Dopo un boom borsistico durato un anno, l’indice Shangai Shenzhen ha perso un terzo del suo valore fra il 12 giugno e l’8 luglio. Prima di allora, incoraggiato dall’allentamento monetario della Banca centrale cinese, il volume giornaliero delle contrattazioni era stato in media di 300 miliardi di dollari, ossia sei volte la media del 2014. Questo boom, per non dire bolla, è stato in gran parte alimentato dall’apertura, nella prima metà del 2015, di ben 56 milioni di conti di negoziazione aperti da investitori al dettaglio, che hanno portato il volume giornaliero a ben 360 miliardi ai primi di giugno.
L’esplosione della bolla, conclamatosi ad agosto, si è sommato alla decisione della banca centrale di svalutare lo yuan che se gli ottimisti hanno salutato come un passo in avanti verso l’inserimento della valuta cinese nel grande gioco del mercato dei capitali, altri hanno letto come la conferma che l’economia del gigante asiatico è soggetta a sinistri scricchiolii.
La borse, nei giorni successivi, hanno tramutato questi timori in vendite disordinate e in un notevole aumento della volatilità, che si estesa dai mercati azionari a quelli obbligazionari, valutari fino a quelli delle materie prime. Nulla che non fosse prevedibile.
“Se ora ci mettiamo comodi – ha detto Claudio Borio, capo del dipartimento economico e monetario della Bis commentando la review di settembre – e guardiamo agli eventi come a un film, il loro significato diviene più chiaro. Nel grande ordine delle cose, gli eventi correnti erano già prefigurati dall’andamento precedente dell’economia mondiale”.
“I flussi di credito alle EME – osserva – avevano cominciato a rallentare il passo già nell’ultimo trimestre 2014, e in seguito si sono indeboliti ulteriormente, pur in presenza di un rafforzamento di quelli verso le economie avanzate. I dati evidenziano cioè una biforcazione della liquidità globale, con una debolezza particolarmente marcata del credito a Cina, Russia e, in misura minore, Brasile. A questo riguardo il credito denominato in dollari Usa gioca un ruolo fondamentale. Il credito totale in dollari a prenditori non bancari fuori dagli Stati Uniti è aumentato di oltre il 50% dagli inizi del 2009, portandosi a $9.600 miliardi a fine marzo 2015, ed è quasi raddoppiato, a più di $3.000 miliardi, nel caso delle EME. Esso è fluito in buona parte alle imprese, sollevando seri interrogativi riguardo alle vulnerabilità finanziarie che comporta e alle implicazioni per i movimenti autorafforzanti dei tassi di cambio e degli spread creditizi”.
Ma è la conclusione che dovremmo tenere a mente: “Da almeno il 2009, tuttavia, sono andate formandosi vulnerabilità all’interno di varie EME, comprese alcune delle maggiori, e in misura minore anche in alcune economie avanzate, soprattutto quelle esportatrici di materie prime. Più specificamente, questi paesi hanno evidenziato segnali di accumulo di squilibri finanziari sotto forma di boom eccessivi del credito accompagnati da forti aumenti dei prezzi delle attività, in particolare quelli immobiliari, favoriti da condizioni globali di liquidità insolitamente abbondanti. È all’inversione di questi boom, in presenza di vulnerabilità esterne, che dovremmo rivolgere la massima attenzione. Non stiamo assistendo a scosse isolate, bensì al rilascio di pressioni accumulatesi gradualmente nel corso degli anni lungo importanti linee di faglia”.
Il terremoto, perciò, cova più o meno silenzioso, nei bassifondi di una realtà “in cui i livelli del debito sono troppo elevati, la crescita della produttività troppo debole e i rischi finanziari troppo minacciosi”. Una realtà, per giunta “in cui i tassi di interesse sono straordinariamente bassi da tempi eccezionalmente lunghi e in cui i mercati finanziari hanno sviluppato una preoccupante dipendenza dalla minima parola o azione delle banche centrali, rendendo a loro volta più complessa la necessaria normalizzazione delle politiche monetarie. È irrealistico e pericoloso aspettarsi che la politica monetaria possa curare tutti i mali dell’economia mondiale”.
E’ irrealistico. Ma succede.
Il fiato corto dell’economia internazionale affretta la resa dei conti
“Non sorprende che le valutazioni dei mercati stiano cambiando”, dice il direttore generale della BIS Jaime Caruana, alla presentazione della relazione annuale 2015, che l’istituto svizzero vede stupefatto e atterrito come l’anno in cui l’impensabile ormai è diventato ordinario. E non tanto e non solo perché stiamo vivendo un tempo in sembrano cambiare le coordinate stesse dell’agire economico, ma perché ciò malgrado, sembra che stiamo correndo felici verso il redde rationem, di cui la crisi greca è un piccolo assaggio.
Servirebbe una vista lunga, perciò, capace di compensare il fiato corto dell’economia internazionale. E quindi politiche coordinate che mettano mano non solo agli squilibri, che sono il frutto del fiatone che affligge ognuno di noi, ma all’infrastruttura stessa dell’economia, a cominciare da quel sistema monetario internazionale, che potremmo immaginare come il sistema idraulico del capitalismo, che si è mostrato, oltre che inesistente, pericolosa fonte di contagio, visto che alla fine trasmette i suoi impulsi – i tassi bassi o negativi – dove magari non servirebbero, contribuendo perciò a peggiorare gli squilibri.
Sono belle parole, perdute però nel vento di un dibattito che non riesce a uscire dalle coordinate delle quotidianità, quando invece servirebbe capacità prospettica.
Sicché l’analisi di Caruana e della Bis la si apprezza se la si interpreta seguendo la doppia filigrana della cronaca e del processo storico, laddove la prima mutevole e caotica, s’interseca in un movimento che non è esagerato definire secolare, che vede l’eterno pendolo fra il lavoro e il capitale oscillare verso quest’ultimo, con legioni di cittadini stupefatti e arrabbiati, che non accettano e insieme subiscono questo smottamento.
I fatti dell’anno passati è facile riepilogarli. Quelli che contano non sono più di tre: “Il prezzo in dollari del petrolio è sceso di circa il 50% nella seconda metà del 2014; la moneta statunitense si è apprezzata significativamente e in modo generalizzato; infine – forse lo sviluppo più inusuale – i tassi di
interesse a lungo termine sono calati ulteriormente, entrando perfino in territorio negativo in alcuni
mercati”. Per darvi un’idea di cosa significhi, considerate che 2.000 miliardi di bond pubblici, per lo più europei, sono scambiati a rendimento negativo, in una inusuale, eppure ormai normale, prassi che vuole la tosatura dei creditori come condizione del presunto riequilibrio.
Se considerate che questi 2.000 miliardi sono una fetta significativa dei 30 trilioni di debiti che gli stati hanno cumulato finora, dopo la grande corsa iniziata nel 2008, comprenderete perché è così dirimente che i tassi restino bassi a lungo, come ripetono tutti. Non serve essere economisti per capire che questo livello di tassi è necessario per rendere sostenibili debiti arrivati ormai al livello di dopoguerra.
Metteteci le prospettive, laddove la crisi greca è solo un antipasto, con la banca centrale americana che prova timidamente ad alzare i tassi, ma senza troppa convizione, i paesi emergenti che devono digerire una montagna di debiti, e le ex grandi speranze dell’Occidente costrette a fare anche loro “tutto ciò che è necessario” per salvare le loro economie, gigantesche e fragili.
Le valutazione dei mercati stanno cambiando, quindi, e non potrebbe essere diversamente. Dopo un settennio di crisi, nota Caruana, “il mix delle politiche rimane fortemente sbilanciato. Continuiamo a fare troppo affidamento sullo stimolo monetario, mentre i progressi sul versante delle riforme strutturali sono ancora insufficienti. I trade-off non si stanno di certo semplificando.
Se questa è la cronaca, la storia suggerisce come possibile che “siano all’opera forze secolari che esercitano una pressione al ribasso sui tassi di interesse di equilibrio. Se anche così fosse, tuttavia, riteniamo che l’attuale
configurazione dei tassi su livelli molto bassi non sia inevitabile, e nemmeno rappresenti un nuovo
equilibrio. È possibile che rifletta invece in misura significativa i limiti degli odierni assetti delle politiche e
dei quadri di riferimento analitici nei confronti dei boom e dei bust finanziari”. Che personalmente interpreto come il trionfo del fiato corto sulla vista lunga. Ci preoccupiamo di salvare la pelle creando le condizioni di farci più male dopo.
Che fare quindi? “La conclusione alla quale siamo giunti è che una normalizzazione delle politiche dovrebbe
essere accolta con favore. La normalizzazione potrebbe generare una certa volatilità nel breve periodo, ma
contribuirebbe a contenere i rischi più a lungo termine”.
Aguzzare gli occhi e trattenere il fiato, insomma.
Il miglior modo per sopportare un redde rationem.
Divagazioni statistiche: il mito dell’economia reale
Ogni tanto alzo la testa dalle misere cronache del nostro tempo e mi costringo a riflettere, con esiti più o meno discutibili, sull’infrastruttura di pensiero che regge silenziosamente queste cronache. Quel misto di pigre consuetudini, luoghi comuni, deduzioni à la carte rappresentato icasticamente dal dibattere giornalistico, oggi socializzato da internet, e dalle chiacchiere da bar, che ormai avvengono sui social network, che noi uomini del popolo frequentiamo non frequentando altro.
Sicché, in una di queste vane divagazioni, mi sono accorto che una delle consuetudini più frequentata, forse la più frequentata in assoluto da chi discorre di socioeconomia è la celeberrima distinzione fra economia reale ed economia finanziaria. Uno dei più consolidati retaggi della ricerca economica del passato ormai acquisito al rango di pensiero collettivo.
Tutti, chi più chi meno, a un certo punto del loro discorrere, hanno articolato il seguente ragionamento: la crisi nasce dal fatto che l’economia finanziaria ha surclassato quella reale, e adesso la speculazione, le banche cattive, gli imprenditori che non producono merci ma comprano titoli, i liberi movimenti di capitale, eccetera. Chi è senza peccato scagli la pietra.
Appartiene, d’altronde, alla nostra psicologia cercare spiegazioni semplici a fenomeni complessi. E più queste soluzioni sono schematiche più soddisfano il nostro impeto di comprensione, prestandosi peraltro a rapide generalizzazioni che offrono pure il vantaggio di poter essere comunicate e quindi condivise. Il fatto poi che queste deduzioni siano accompagnate da dati di fatti le potenzia a tal grado che facilmente diventano strutture ideologiche. Pensate, per dire, a concetti astrusi come quello di conflitto di classe o di laissez faire, che hanno ritmato la nascita e lo sviluppo dell’economia politica.
Purtroppo, o per fortuna, non sono un economista. Perciò qui mi propongo una di quelle semplici domande da dilettante che motivano la scrittura di questo blog: ma ha senso la distinzione fra economia reale e finanziaria?
Mi propongo, vale a dire, di uscire dal mio consueto stato di pigrizia mentale e provare a circostanziare con elementi di realtà, per quanto necessariamente approssimativi, questa dicotomia, che forse è apparente come tutte le dicotomie che il nostro pensiero razionale elabora per circoscrivere la realtà, questa sconosciuta.
Poiché vi so lettori attenti e poco inclini alle divagazioni astratte, per argomentare questa mia mi servo della statistica, forse la più elaborata forma di congettura mai elaborata dal pensiero umano, ma che gode al tempo stesso di unanime consenso circa la sua capacità quantitativa di descrivere la realtà.
Come fonte prendo alcune recenti statistiche sul prodotto interno negli Stati Uniti, in particolare quelle contenute nella stima del Pil del quarto trimestre 2014 pubblicata a fine gennaio scorso. Ho scelto gli Stati Uniti perché, piaccia o no, sono attualmente i capofila del nostro pensare economico, oltre ad essere la prima economia nel mondo. Quindi, in un certo senso, sono antesignani e avanguardisti insieme.
Leggere le statistiche del Pil americano, inoltre, offre l’indubitabile vantaggio di farci a conoscere meglio questa economia, che in fondo serve pure a comprendere meglio la nostra.
Ricordo ai non appassionati che il Pil si compone sommando la domanda interna, privata e pubblica, sia per consumo che per investimenti, l’export netto e inventari e scorte. E già da questa definizione si comprende che la distinzione fra economia reale e finanziaria è poco sensata, per la semplice circostanza che per le componenti del Pil tutto fa brodo.
Ricordo che sommando (o sottraendo) al prodotto interno lordo (GDP) il saldo dei redditi dall’estero si ottiene il prodotto nazionale lordo (GNP). Mi chiedo se i redditi che derivano dall’estero siano da considerare un flusso dell’economia reale o di quella finanziaria. E mi rispondo che questa suddivisione non ha senso dal punto di vista statistico che, come abbiamo visto, li aggrega.
Per approfondire l’analisi del prodotto, perciò, considero la suddivisione del Pil per i vari settori industriali, alla ricerca, come un novello Diogene, dell’economia reale. All’uopo mi servo di un’altra statistica, quella sul secondo trimestre 2014 del Pil ma suddivisa per i settori industriali.
Consulto in particolare una tabella che calcola il valore aggiunto dei singoli settori. E qui già vediamo un dato interessante che dice molto dell’economia americana. Uso il dato sul GDP consolidato del 2013, che ovviamente è inferiore a quello che 2014, ma solo perché ci dà la visione su un intero anno, visto che quello del 2014 non è ancora disponibile. Ebbene, nel 2013 il GDP Usa è arrivato a 16.768,1 miliardi di dollari. Le industrie private hanno creato valore per 14.556,4 miliardi, il governo per i rimanenti 2.211,6. Quindi circa l’86% del valore aggiunto del prodotto americano è creato dal settore privato.
Negli addenda in calce alla tabella leggo poi che il valore aggiunto delle industrie che producono beni è stato di circa 3.314 miliardi (foreste, agricoltura, pesca, caccia, miniere, costruzioni e manifatture), mentre quello delle aziende che producono servizi (commercio all’ingrosso e al dettaglio, trasporti, informazione, finanza, assicurazioni, real estate, noleggi e leasing, servizi professionali e di business, educativi, sanitari, arti e intrattenimento, servizi ricreativi, di accoglienza e ristorazione e altri servizi escluso il governo) di circa 11.242.
Ciò conferma quella che è una tendenza nei paesi capitalistici maturi, che vedono gran parte della loro crescita dipendere dai servizi più che dalla produzione di beni. Ma i servizi dovremmo considerarli come economia reale? Pochi, credo ne dubiteranno.
Se poi andiamo a vedere i singoli settori, scopriamo alcune informazioni di dettaglio che mettono meglio a fuoco il problema. Se il problema sono le banche, le assicurazioni o, in generale, il settore finanziario, sappiate che, sempre nel 2013, il valore aggiunto del settore “finanza, assicurazione” è stato di 1.206 miliardi di dollari a fronte del 2.028 del settore manifatturiero, suddivisi fra i 1.088 dei beni durevoli e i 940 di quelli non durevoli.
Quindi potremmo dedurne che la cosiddetta economia reale, di cui certo fa parte il settore manifatturiero, produce molto più valore aggiunto di quello finanziario persino negli Usa. Quindi forse è un po’ esagerato parlare di supremazia della finanza.
Faccio notare che nella classificazione utilizzata dall’istituto di statistica americano, il real estate, associato al rental e al leasing, viene conteggiato sotto la voce finance-insurance. E che il settore della costruzioni, quindi il mattone vero e proprio, ha prodotto nel 2013 619,9 miliardi di valore aggiunto, meno del settore arte, intrattenimento accoglienza e ristoranti.
Mi chiedo, tuttavia, quanta parte dello sviluppo manifatturiero – mi limito a questo per semplificare – sia debitore allo sviluppo dei servizi finanziari, atteso che anche una banca ha bisogno di sedie, tavoli e computer. Così come mi chiedo quanta parte dello sviluppo manifatturiero debba all’economia finanziaria, atteso che le imprese normalmente hanno debiti da gestire. Ma purtroppo questo la statistica non lo dice.
Quello che ci dice, però, è che l’economia reale, intesa come la rappresenta la vulgata, non ha dignità statistica, componendosi il prodotto finale di tutti i valori aggiunti.
Il Pil, infatti, per come è stato concepito, si propone di aggregare ogni valore economico purché sia statisticamente misurabile. E l’ambizione contemporanea, che ci dice molto dello spirito del nostro tempo, è ampliare il più possibile questa misurazione.
Per farvela breve, la distinzione fra economia reale e economia finanziaria è un mito che, andando a fondo, cela la vera sostanza del pensare economico contemporaneo: il suo essere profondamente immaginario. E, di conseguenza, anche la principale trasformazione alla quale stiamo andando incontro: ossia verso l’economia dell’intrattenimento.
Ma di questo vi racconterò domani.
(1/segue)
Leggi la seconda e ultima puntata
Il vaso di coccio dell’economia globale
Sicché mi convinco, leggendo le ultime previsioni d’autunno della Commissione europea, che l’eurozona somigli pericolosamente a un gigantesco vaso di coccio, dalle crepe sempre più evidenti, stretto fra due vasi di ferro persino più grandi, ossia gli Stati Uniti e la Cina, dipendendo sostanzialmente il nostro stato di salute dal consumo privato degli americani e dalla resilienza della crescita cinese, sempre più in debito d’ossigeno e caracollante.
E mi convinco pure che il difficile lavoro del vaso di coccio, che prova a tenersi in piedi senza disintegrarsi malgrado (o grazie) la pressione dei due vasi di ferro, viene reso ancora più faticoso dall’essere, l’eurozona, un complesso ancora fortemente frammentato – le crepe appunto – che solo l’astrazione della statistica riesce a vedere come un tutt’uno, mentre la realtà dell’economia fotografa tali e tante differenza fra le diverse economie della zona che è davvero difficile anche solo a provare a immaginare una politica economica comune, ammesso che ciò fosse consentito dai trattati.
Perciò vale per l’eurozona la legge della fisica assai più che quella dell’economia. Il vaso di coccio reggerà finché all’esterno la condizioni rimangono favorevoli. Ossia la pressione non si tramuti in schiacciamento. Con la fastidiosa controindicazione che l’eurozona è un gigante dell’economia globale. La cui salute perciò, piaccia o meno, dipende sostanzialmente da quella dei singoli paesi, a cominciare dal nostro.
Per non ripetere cose già dette e sentite, mi limito solo ad alcuni dati di contorno, che credo siano sufficienti a far comprendere lo stato dell’arte.
Particolarmente illuminante, un grafico elaborato da Bruxelles calcola il progresso del prodotto negli Usa, nell’eurozona e nell’Europa senza euro dal terzo trimestre del 2009 al secondo quarto del 2014, isolandone le diverse componenti.
La prima cosa che salta all’occhio è la grande differenza di risultato. Mentre gli Usa sono cresciuti nel periodo considerato dell’11,4% e l’Europa fuori dall’euro dell’8,6%, l’euro area è cresciuta appena del 3,5%. Ma ancora più interessante è osservare il contributo delle varie componenti.
Negli Stati Uniti quasi otto degli 11.4 punti di crescita sono arrivati dai consumi privati, altri due-tre punti sono arrivati dagli investimenti e altre componenti hanno fatto il resto. Negativo invece, per un paio di punti, il contributo del consumo del governo e dell’export netto.
Nell’eurozona i 3,5 punti di crescita sono quasi interamente da attribuirsi all’export netto, con un piccolo contributo delle altre componenti e un contributo negativo degli investimenti. In pratica la (poca) crescita che l’eurozona ha spuntato in questi anni tremendi è dovuta alla sua politica sostanzialmente mercantilista, che però ha finito con l’affossare il prodotto.
Nell’Europa fuori dall’euro si osserva che la crescita del prodotto ha interessato tutte le componenti del Pil, con una larga preponderanza del consumo privato, più o meno la metà.
Se facciamo uno zoom e osserviamo lo stesso grafico concentrandolo nel periodo fra il secondo quarto del 2013 e il secondo quarto del 2014, vediamo che il pattern cambia poco. L’eurozona è cresciuta meno delle altre due aree, 1% a fronte del 2,9 americano e del 3,2 Europa extra euro, ma soprattutto è crollato il contributo dell’export netto alla crescita, forse perché nel frattempo la domanda dall’estero dell’area è diminuita. Di nuovo c’è solo che il contributo degli investimenti è diventato positivo, anche se minimamente. E ciò basta a spiegare perché il nuovo mantra delle autorità europee sia che bisogna investire.
Fosse facile. La logica vorrebbe che i primi ad investire fossero i paese con attivi, ma questo non implica che lo facciano. E poi c’è ancora da fare i conti con un clima di fiducia assai depresso, di cui l’andamento calante dei prezzi è la spia forse più significativa.
La controprova la possiamo osservare guardando alla domanda di credito nell’area euro così come registrata dalla Bce nell’ultimo report del luglio scorso. I dati fotografano che il combinato disposto fra l’allentamento crescente delle condizioni monetarie voluto dalla Bce e le mutate prospettive della domanda, rimasta in territorio negativo per diversi trimestri, lasciano ipotizzare che entro la fine dell’anno la domanda di credito dovrebbe tornare positiva, smettendo perciò di frustrare i generosi tentativi dei banchieri centrali di farci indebitare di più.
Nel frattempo la Commissione non può che registrare sconsolata l’ennesima revisione al ribasso delle stime e la circostanza che i rischi di ulteriori rallentamenti sono aumentati.
Aldilà di come sia messa la situazione nel nostro vaso di coccio, è interessante osservare cosa stia succedendo nell’altro vaso di ferro, ossia la Cina, che dell’eurozona è un partner assai importante, tramite il canale del commercio, ma soprattutto è la sua grande speranza. Gli europei, specie nei paesi indebitati, sognano che i cinesi comprino quote crescenti del loro debiti pubblici, per tacere degli altri.
Ebbene, la Cina dovrà vedersela con una crescita prevista in ribasso e con una situazione ancor assai preoccupante lato mercato immobiliare e alto livello di debito, più o meno nascosto fra le pieghe della sua contabilità.
Per darvi un’idea, la previsione della Commissione vedono un Pil in costante rallentamento fino a scendere sotto il 7% nel 2016, anche a causa del rallentarsi del commercio internazionale, vuoi per le tensioni geopolitiche vuoi per il raffreddarsi dell’entusiasmo consumistico globale. L’import cinese, a sentire la commissione, “è rallentato considerevolmente”.
“Preoccupazini significative – scrive la Commissione – permangono per l’outlook cinese, a causa dell’alto debito, la debolezza del mercato immobiliare e i limiti potenziali della politica di stimolo pubblico per far fronte agli squilibri”.
A fronte della ruggine montante nei vasi di ferro – gli Usa dovranno fare i conti con il mutato contesto politico che metterà a dura prova la politica fiscale del governo una volta che dovrà di nuovo discutersi di debt ceiling – il vaso di coccio sembra vicino a giocarsi le ultime carte con la politica monetaria della Bce. Ma è evidente che non sarà sufficiente. La benzina da sola non basta a far camminare la macchina. E poi, ammesso che la Bce arrivi a replicare quanto hanno fatto la Fed e la Boe, che hanno quintuplicato il proprio bilancio a furia di comprare attivi, a fronte del semplice raddoppio della Bce, non è affatto certo che i risultati arrivino a che siano migliori di quelli raggiunti negli Stati Uniti, peraltro abbastanza inconcludenti.
Quello che servirebbe è che l’eurozona si rimettesse in moto. Se poi andiamo a vedere su quali voci del Pil la Commissione prevede debba arrivare la crescita dell’eurozona, osserviamo che il contributo dell’export netto sarà nullo, il che certifica la fine dell’era mercantilista dell’eurozona, mentre dovrebbero cresce consumi interni, privati e pubblici, e investimenti. Detto in soldoni, occorre che gli europei si decidano a spendere e a tornare a fare impresa. I soldi peraltro ce li hanno pure. Ma bisogna vedere se vorranno utilizzarli.
In ogni caso, pare di capire, leggendo il report autunnale della Commissione, che sarebbe saggio prepararsi per l’inverno.
Tempo scuro. E assai rigido.