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Divagazioni statistiche: il mito dell’economia reale

Ogni tanto alzo la testa dalle misere cronache del nostro tempo e mi costringo a riflettere, con esiti più o meno discutibili, sull’infrastruttura di pensiero che regge silenziosamente queste cronache. Quel misto di pigre consuetudini, luoghi comuni, deduzioni à la carte rappresentato icasticamente dal dibattere giornalistico, oggi socializzato da internet, e dalle chiacchiere da bar, che ormai avvengono sui social network, che noi uomini del popolo frequentiamo non frequentando altro.

Sicché, in una di queste vane divagazioni, mi sono accorto che una delle consuetudini più frequentata, forse la più frequentata in assoluto da chi discorre di socioeconomia è la celeberrima distinzione fra economia reale ed economia finanziaria. Uno dei più consolidati retaggi della ricerca economica del passato ormai acquisito al rango di pensiero collettivo.

Tutti, chi più chi meno, a un certo punto del loro discorrere, hanno articolato il seguente ragionamento: la crisi nasce dal fatto che l’economia finanziaria ha surclassato quella reale, e adesso la speculazione, le banche cattive, gli imprenditori che non producono merci ma comprano titoli, i liberi movimenti di capitale, eccetera. Chi è senza peccato scagli la pietra.

Appartiene, d’altronde, alla nostra psicologia cercare spiegazioni semplici a fenomeni complessi. E più queste soluzioni sono schematiche più soddisfano il nostro impeto di comprensione, prestandosi peraltro a rapide generalizzazioni che offrono pure il vantaggio di poter essere comunicate e quindi condivise. Il fatto poi che queste deduzioni siano accompagnate da dati di fatti le potenzia a tal grado che facilmente diventano strutture ideologiche. Pensate, per dire, a concetti astrusi come quello di conflitto di classe o di laissez faire, che hanno ritmato la nascita e lo sviluppo dell’economia politica.

Purtroppo, o per fortuna, non sono un economista. Perciò qui mi propongo una di quelle semplici domande da dilettante che motivano la scrittura di questo blog: ma ha senso la distinzione fra economia reale e finanziaria?

Mi propongo, vale a dire, di uscire dal mio consueto stato di pigrizia mentale e provare a circostanziare con elementi di realtà, per quanto necessariamente approssimativi, questa dicotomia, che forse è apparente come tutte le dicotomie che il nostro pensiero razionale elabora per circoscrivere la realtà, questa sconosciuta.

Poiché vi so lettori attenti e poco inclini alle divagazioni astratte, per argomentare questa mia mi servo della statistica, forse la più elaborata forma di congettura mai elaborata dal pensiero umano, ma che gode al tempo stesso di unanime consenso circa la sua capacità quantitativa di descrivere la realtà.

Come fonte prendo alcune recenti statistiche sul prodotto interno negli Stati Uniti, in particolare quelle contenute nella stima del Pil del quarto trimestre 2014 pubblicata a fine gennaio scorso. Ho scelto gli Stati Uniti perché, piaccia o no, sono attualmente i capofila del nostro pensare economico, oltre ad essere la prima economia nel mondo. Quindi, in un certo senso, sono antesignani e avanguardisti insieme.

Leggere le statistiche del Pil americano, inoltre, offre l’indubitabile vantaggio di farci a conoscere meglio questa economia, che in fondo serve pure a comprendere meglio la nostra.

Ricordo ai non appassionati che il Pil si compone sommando la domanda interna, privata e pubblica, sia per consumo che per investimenti, l’export netto e inventari e scorte. E già da questa definizione si comprende che la distinzione fra economia reale e finanziaria è poco sensata, per la semplice circostanza che per le componenti del Pil tutto fa brodo.

Ricordo che sommando (o sottraendo) al prodotto interno lordo (GDP) il saldo dei redditi dall’estero si ottiene il prodotto nazionale lordo (GNP). Mi chiedo se i redditi che derivano dall’estero siano da considerare un flusso dell’economia reale o di quella finanziaria. E mi rispondo che questa suddivisione non ha senso dal punto di vista statistico che, come abbiamo visto, li aggrega.

Per approfondire l’analisi del prodotto, perciò, considero la suddivisione del Pil per i vari settori industriali, alla ricerca, come un novello Diogene, dell’economia reale. All’uopo mi servo di un’altra statistica, quella sul secondo trimestre 2014 del Pil ma suddivisa per i settori industriali.

Consulto in particolare una tabella che calcola il valore aggiunto dei singoli settori. E qui già vediamo un dato interessante che dice molto dell’economia americana. Uso il dato sul GDP consolidato del 2013, che ovviamente è inferiore a quello che 2014, ma solo perché ci dà la visione su un intero anno, visto che quello del 2014 non è ancora disponibile. Ebbene, nel 2013 il GDP Usa è arrivato a 16.768,1 miliardi di dollari. Le industrie private hanno creato valore per 14.556,4 miliardi, il governo per i rimanenti 2.211,6. Quindi circa l’86% del valore aggiunto del prodotto americano è creato dal settore privato.

Negli addenda in calce alla tabella leggo poi che il valore aggiunto delle industrie che producono beni è stato di circa 3.314 miliardi (foreste, agricoltura, pesca, caccia, miniere, costruzioni e manifatture), mentre quello delle aziende che producono servizi (commercio all’ingrosso e al dettaglio, trasporti, informazione, finanza, assicurazioni, real estate, noleggi e leasing, servizi professionali e di business, educativi, sanitari, arti e intrattenimento, servizi ricreativi, di accoglienza e ristorazione e altri servizi escluso il governo)  di circa 11.242.

Ciò conferma quella che è una tendenza nei paesi capitalistici maturi, che vedono gran parte della loro crescita dipendere dai servizi più che dalla produzione di beni. Ma i servizi dovremmo considerarli come economia reale? Pochi, credo ne dubiteranno.

Se poi andiamo a vedere i singoli settori, scopriamo alcune informazioni di dettaglio che mettono meglio a fuoco il problema. Se il problema sono le banche, le assicurazioni o, in generale, il settore finanziario, sappiate che, sempre nel 2013, il valore aggiunto del settore “finanza, assicurazione” è stato di 1.206 miliardi di dollari a fronte del 2.028 del settore manifatturiero, suddivisi fra i 1.088 dei beni durevoli e i 940 di quelli non durevoli.

Quindi potremmo dedurne che la cosiddetta economia reale, di cui certo fa parte il settore manifatturiero, produce molto più valore aggiunto di quello finanziario persino negli Usa. Quindi forse è un po’ esagerato parlare di supremazia della finanza.

Faccio notare che nella classificazione utilizzata dall’istituto di statistica americano, il real estate, associato al rental e al leasing, viene conteggiato sotto la voce finance-insurance. E che il settore della costruzioni, quindi il mattone vero e proprio, ha prodotto nel 2013 619,9 miliardi di valore aggiunto, meno del settore arte, intrattenimento accoglienza e ristoranti.

Mi chiedo, tuttavia, quanta parte dello sviluppo manifatturiero – mi limito a questo per semplificare – sia debitore allo sviluppo dei servizi finanziari, atteso che anche una banca ha bisogno di sedie, tavoli e computer. Così come mi chiedo quanta parte dello sviluppo manifatturiero debba all’economia finanziaria, atteso che le imprese normalmente hanno debiti da gestire. Ma purtroppo questo la statistica non lo dice.

Quello che ci dice, però, è che l’economia reale, intesa come la rappresenta la vulgata, non ha dignità statistica, componendosi il prodotto finale di tutti i valori aggiunti.

Il Pil, infatti, per come è stato concepito, si propone di aggregare ogni valore economico purché sia statisticamente misurabile. E l’ambizione contemporanea, che ci dice molto dello spirito del nostro tempo, è ampliare il più possibile questa misurazione.

Per farvela breve, la distinzione fra economia reale e economia finanziaria è un mito che, andando a fondo, cela la vera sostanza del pensare economico contemporaneo: il suo essere profondamente immaginario. E, di conseguenza, anche la principale trasformazione alla quale stiamo andando incontro: ossia verso l’economia dell’intrattenimento.

Ma di questo vi racconterò domani.

(1/segue)

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