Il macigno del debito che affossa il petrolio
Ho passato alcune settimane a cercare spiegazioni plausibili del crollo dei corsi petroliferi che non fossero stanche ripetizioni della vulgata. Finalmente ne ho trovato una che, a prescindere dagli elementi di verità che contiene, mi ha offerto una prospettiva originale, sulla quale non avevo ancora riflettuto, e che trovo utile condividere con voi. Sempre perché siamo qui per provare a capirci qualcosa.
Sono particolarmente grato perciò alla Bis, che nel suo ultimo Global liquidity ha dedicato un box proprio al petrolio, già dal titolo molto eloquente: “Oil and Debt”.
L’analisi è tanto breve quanto esemplare, e verrà approndita nel prossimo quaterly review di marzo, che perciò non vedo l’ora di leggere.
La premessa è che i cambiamenti nelle quantità di produzione e consumo non sembrano offrire una spiegazione convincente del brusco crollo delle quotazioni petrolifere, che è un modo elegante per dire che la vulgata non ha centrato il problema. I prezzi non sono caduti perché è calata la domanda di petrolio a causa della crisi.
Per arrivare a questa conclusione, l’autore usa i dati storici di due precedenti crisi ribassiste dei corsi del petrolio, quella del 1996-98 e quella del 2008-9 che, osserva “sono state associate a considerevoli riduzioni dei consumi, nel 1996, e a una significativa espansione della produzione, nel 2008. Ciò, sottolinea, “è in evidente contrasto con gli sviluppi avvenuti sin dalla metà del 2014, quando la produzione è stata vicina al livello previsto e il consumo solo leggermente più basso”.
Il calo del petrolio, quindi, non sembra determinato da un problema di eccesso di offerta, né da un calo di domanda. Il problema perciò va individuato non nell’economia reale, ma in quella finanziaria, ammesso che questa distinzione abbia un senso.
In particolare nel “nuovo elemento” che la Bis ha individuato. Vale a dire “la sostanziale crescita del debito nato nel settore Oil negli anni recenti”.
In effetti non ne avevo avuto sentore.
Secondo quanto dice la Bis “la maggiore disponibilità degli investitori a prestare usando le riserve di petrolio e i ricavi da vendita del petrolio come garanzia ha consentito alle imprese petrolifere di prendere in prestito grandi quantità di denaro in un periodo di forte indebitamento. Le emissioni di debito da parte delle compagnie petrolifere, sia investiment grade che speculativo, sono cresciute a un passo di gran superiore rispetto all’emissione complessiva, già consistente, di titoli di debito”.
Detto in soldoni, come possiamo agevolmente osservare da un grafico prodotto nello studio, la crescita relativa dei bond delle imprese energetiche denominati in dollari è stata quantomeno esuberante.
Nel 2003, infatti, i bond denominati in dollari i emessi dalle compagnie stavano sotto i 200 miliardi, a fronte di circa 2.000 di bond totali.
Le emissioni si mantengono sostanzialmente stabili fino al 2009, quando quotano circa 300 miliardi di dollari a fronte di circa 3.000 totali. Dal 2010 in poi l’l’aria cambia. Il valore relativo delle emissioni di bond energetici, chiamiamoli così, si impenna vertiginosamente.
Sicché si arriva al 2014 con oltre 800 miliardi di bond energetici a fronte di un volume totale di circa 6.000. Ciò significa che in un decennio il peso relativo dei bond energetici sul totale è passato da meno del 10% a oltre il 13%. “Il maggiore peso dei debiti – osserva la Bis – del settore oil può aver influenzato la recente dinamica del mercato petrolifero, esponendo i produttori a un rischio di liquidità e di solvibilità”.
Ciò in quanto il diminuire dei prezzi svaluta il valore dell’asset alla base del finanziamento, facendo fibrillare non poco i debitori. E in effetti gli spread sui titoli più speculativi del settore sono passati dai 330 punti base di di giugno 2014 ad oltre 800 punti base di gennaio 2015, molto più di quanto siano cresciuti gli spread nella classe equivalente di titoli di altri settori.
Ne consegue che i debitori possono essere costretti a vendere sottocosto per evitare la sofferenza finanziaria, contribuendo così a esacerbare il ciclo ribassista. Senza contare che i ribassi peggiorano anche la situazione della liquidità su questi titoli, mettendo le aziende anche di fronte al rischio di non poter pagare gli interessi. Per evitarlo, i produttori finiscono col produrre ancora più greggio, innescando ulteriori dinamiche ribassiste.
Tutto questo debito porta con sé l’aggravante che in gran parte è finito in capo ad aziende non Usa che prima non avevano l’abitudine di indebitarsi in dollari. Anche le oil company, insomma, sono finite nel bondage denominato in dollari che sta strangolando le economie emergenti. Che poi sono le stesse che in gran parte esportano il petrolio. “Se un dollaro più forte si accompagna a condizioni finanziarie più tese, le compagnie petrolifere dei paesi emergenti, che si sono indebitante notevolmente, saranno particolarmente colpite.
Chissà perché mi vien da pensare subito alla Russia.
Ma non solo. Il debito delle compagnie petrolifere dei paesi Opec è passato dalle poche decine di miliardi del 2006 a oltre 300 miliardi nel 2014. Quello degli altri emergenti, che quotava poco più di 200 miliardi nel 2006 nel 2014 è arrivato a 750 miliardi. In pratica il totale di Opec ed Emergenti equivale al totale dei debiti delle compagnie americane. Con l’aggravante che è denominato in dollari.
Ma c’è un’altra questione finanziaria che ha probabilmente appesantito il prezzo del petrolio, ossia il fatto che l’ampia liquidità ha favorito l’attività di hedging attraverso le operazioni sui derivati del petrolio, che non sono la benzina o il gasolio, ma i future.
“Vendere future o comprare opzioni put sono stati metodi, per i paesi produttori, di arginare le loro esposizioni alla elevata volatilità dei ricavi petroliferi. A partire dal 2010 i produttori di petrolio hanno sempre più fatto affidamento su swap dealer come controparti per le loro operazioni di hedging. Costoro, di conseguenza, hanno visto aumentare la lor esposizione in future sul petrolio, come mostrano i dati. Le posizione degli swap dealers sul petrolio sono passate dalle circa 80 mila del 2007 alle oltre 480 mila di metà 2014.
Senonché l’aumento della volatilità sembra abbia consigliato a un certo punto gli swap dealer a smettere, o quantomeno a rallentare, la vendita di protezione ai produttori. In pratica si sono comportati prociclicamente. “E’ possibile – conclude lo studio – che i produttori, dovendo fare i conti con questa riluttanza e volendo tutelare i loro ricavi in calo, si siano rivolti direttamente ai mercati dei derivati, senza passare attraverso un intermediario. Questo spostamento della liquidità dei mercati di copertura potrebbe aver avuto un ruolo nelle recenti dinamiche di prezzo”.
Dunque: debito a go go e scommesse più o meno sconsiderate.
Messo in questi termini l’enigma del petrolio non è poi così enigmatico.
Non sono convinto del tutto dell’analisi: un elevato e crescente indebitamento (tra l’altro non riporta ratios patrimoniali ed economici utili x confronti e analisi di sostenibilità) può comportare la diminuzione dei corsi azionari delle compagnie petrolifere, e non direttamente del petrolio quale materia prima da estrarre.
Se non è un calo di domanda, nè una sovraproduzione (quindi un aumento dell’offerta, e in merito mi sembra invece di cogliere una contraddizipne dove scrive “i produttori finiscono col produrre ancora più greggio, innescando ulteriori dinamiche ribassiste.”), il problema duventa oscuro.
Molti hanno parlato di un calo non contrastato da molti paesi OPEC per cercare di “uccidere in culla” ilnascente mercato Usa dello shale gas, ma questo in sè non spiega il perchè i ribassi siano iniziati.
Nin mi cimento sul tema della finanza e dei future perchè a dir la verità mancano numeri e non ci ho capito granchè, ma anche qui mi pare che l’influenza prevalente la avrebbe sui cali dei corsi azionari e non della materia prima in sè.
Io rimango dell’idea che il calo sia fisiologico dopo un prolungato periodo di prezzo in realtà sovrastimato: si temeva un collo di bottiglia della produzione per le crisi che hanno colpito molti paesi produttori (irak, libia, venezuela) a fronte di una domanda crescente e trainata dai BRICS. Si ha invece avuto nessun bottleneck e soprrattutto nessuna ulteriore crescita della domanda, ergo i prezzi andavano rivisti rispetto alle ottimistiche previsioni, e il tutto in concomitanza con la guerra dello shale gas che, quello sì, può aver innescato la previsione di prezzi un calo.
Saluti.
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salve,
come ho scritto, a prescindere dagli elementi di verità che può contenere,l’analisi della bis ha il pregio di spostare l’attenzione su aspetti del problema finora poco osservati. io non ho la tecnicalità sufficiente per entrare nel merito delle questioni, mi limito a riportare spero correttamente ciò che leggo. ma comunque lo studio mi ha persuaso abbastanza.
ma d’altronde è quello che fanno gli studi.
grazie per il commento
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Ciao Maurizio, i tuoi articoli continuano ad essere eccellenti e mi complimento con te per questo, sperando che il tuo lavoro continuerà nel tempo.
Relativamente a questa tesi della Bis, mi piacerebbe avere una tua conferma su quanto ne ho dedotto io.
Mi sembra di aver capito che il calo dei prezzi del greggio, secondo la Bis è determinato solamente da questi 2 fattori:
1) l’aumento dell’offerta di greggio sul mercato operato dalle compagnie petrolifere, fatto allo scopo di mantenere costanti i flussi di ricavi (la garanzia dei loro debiti).
2) l’aumento di operazioni ribassiste sul future sul greggio delle compagnie oil, attuato allo scopo di copertura dal rischio di prezzo. Pertanto, come le operazioni rialziste sul future hanno influito sul notevole rialzo del crude oil nel 2003-2008, oggi quelle ribassiste hanno causato il suo declino.
Mi confermi l’esattezza di queste 2 variabili?
Non capisco invece come abbia influito l’eccessivo indebitamento dei paesi non Usa nell’incrementare la pressione ribassista sul petrolio. Condivido solamente un maggiore aggravio delle finanze delle compagnie petrolifere Opec-emergenti, dovuto all’aumento degli interessi (causato dal deprezzamento della loro valuta nazionale nei riguardi del dollaro).
Ti ringrazio in anticipo.
Oreste
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salve,
grazie per l’apprezzamento: faccio quello che posso col poco tempo che ho a disposizione. se avessi più tempo farei di più e meglio, ma purtroppo come tutti devo guadagnarmi da vivere, e perciò sono costretto a straordinari notturni per continuare questo blog. spero che mi regga il fisico.
nel merito, i punti 1 e 2 che mi sottoponi mi sembrano corretti, almeno per come ho capito io l’analisi (ti consiglio comunque di leggere l’originale). quanto invece al peso del debito dei paesi emergenti, per come l’ho capita io questo si collega alla necessità di gestire in maniera efficiente questo debito, atteso che è denominato in dollari e che grava su paesi molti dei quali sono produttori.
spero di esserti stato utile
grazie per il commento
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