Etichettato: politica monetaria

L’emersione degli Emergenti diventa un emergenza


I rigori dell’autunno hanno iniziato a spirare assai prima di quanto comandasse il calendario sull’ampia panoplia che raccoglie i cosiddetti paesi emergenti. I disordini sui mercati cinesi, e adesso quelli che agitano il Brasile, sono solo la punta di un iceberg ben piantato sui fondali della finanza e che oggi le cronache riportano all’attenzione dei distratti, ossia tutti coloro che finora non hanno voluto vedere ciò che era evidente da diverso tempo.

Sicché si moltiplicano gli allarmi, e non a caso. L’ultimo l’ha lanciato la Bis nella sua quaterly review di settembre, che alle vulnerabilità delle economie emergenti dedica un approfondimento. E’ opportuno leggerlo per non dire, domani, che l’iceberg sul quale il Titanic dell’economia internazionale rischia di infrangersi non fosse chiaramente visibile.

Al momento l’emergenza degli Emergenti viene declinata nella possibilità di un rallentamento dell’economia globale, ossia l’evento che più di tutti si teme, visto che il calo del prodotto ha influenze nefaste sulla sostenibilità dei debiti. E giocoforza, poi, occuparsene, quando ormai si è alla vigilia di una sempre più ipotizzata inversione del lungo ciclo accomodante della politica monetaria Usa, alla quale così tanto devono i cicli finanziari di queste economie.

La cronaca ci racconta che la svalutazione cinese ha avuto un effetto analogo sulle principali valute dell’area asiatica, e poi di altri EME accrescendo insieme i timori degli investitori per la tenuta di queste economie a fronte di un paventano quanto probabile raffreddamento del gigante cinese.

A farne le spese, fra le altre cose, le quotazioni dei prezzi delle materie prime, petrolio in testa, spinte al ribasso dal timore di un rallentamento della domanda, da un lato, e da un aumento dell’offerta, dall’altro, a sua volta dovuto, secondo quanto ipotizza la Bis, anche a fattori di natura finanziaria, a cominciare dall’alto livello di debiti delle compagnie petrolifere.

Il calo delle materie prime ha aggravato il deprezzamento dei cambi, aumentando la pressione di molti paesi sul lato della bilancia dei pagamenti. L’apprezzamento del dollaro, valuta nella quale sono denominati circa 9.600 miliardi di debiti esteri gran parte dei quali in pancia di aziende degli EME, suscita non poche perplessità sulla capacità che avranno questa compagnie di servire i loro debiti, in un contesto di redditi declinanti, come il rallentamento della crescita lascia temere.

Ciò che ne risulta è un avvitarsi dei fattori di crisi che rischiano di spingere queste economie verso forme disordinate di deleverage.

Il caso cinese, in tal caso, è icastico. Dopo un boom borsistico durato un anno, l’indice Shangai Shenzhen ha perso un terzo del suo valore fra il 12 giugno e l’8 luglio. Prima di allora, incoraggiato dall’allentamento monetario della Banca centrale cinese, il volume giornaliero delle contrattazioni era stato in media di 300 miliardi di dollari, ossia sei volte la media del 2014. Questo boom, per non dire bolla, è stato in gran parte alimentato dall’apertura, nella prima metà del 2015, di ben 56 milioni di conti di negoziazione aperti da investitori al dettaglio, che hanno portato il volume giornaliero a ben 360 miliardi ai primi di giugno.

L’esplosione della bolla, conclamatosi ad agosto, si è sommato alla decisione della banca centrale di svalutare lo yuan che se gli ottimisti hanno salutato come un passo in avanti verso l’inserimento della valuta cinese nel grande gioco del mercato dei capitali, altri hanno letto come la conferma che l’economia del gigante asiatico è soggetta a sinistri scricchiolii.

La borse, nei giorni successivi, hanno tramutato questi timori in vendite disordinate e in un notevole aumento della volatilità, che si estesa dai mercati azionari a quelli obbligazionari, valutari fino a quelli delle materie prime. Nulla che non fosse prevedibile.

“Se ora ci mettiamo comodi – ha detto Claudio Borio, capo del dipartimento economico e monetario della Bis commentando la review di settembre – e guardiamo agli eventi come a un film, il loro significato diviene più chiaro. Nel grande ordine delle cose, gli eventi correnti erano già prefigurati dall’andamento precedente dell’economia mondiale”.

“I flussi di credito alle EME – osserva – avevano cominciato a rallentare il passo già nell’ultimo trimestre 2014, e in seguito si sono indeboliti ulteriormente, pur in presenza di un rafforzamento di quelli verso le economie avanzate. I dati evidenziano cioè una biforcazione della liquidità globale, con una debolezza particolarmente marcata del credito a Cina, Russia e, in misura minore, Brasile. A questo riguardo il credito denominato in dollari Usa gioca un ruolo fondamentale. Il credito totale in dollari a prenditori non bancari fuori dagli Stati Uniti è aumentato di oltre il 50% dagli inizi del 2009, portandosi a $9.600 miliardi a fine marzo 2015, ed è quasi raddoppiato, a più di $3.000 miliardi, nel caso delle EME. Esso è fluito in buona parte alle imprese, sollevando seri interrogativi riguardo alle vulnerabilità finanziarie che comporta e alle implicazioni per i movimenti autorafforzanti dei tassi di cambio e degli spread creditizi”.

Ma è la conclusione che dovremmo tenere a mente: “Da almeno il 2009, tuttavia, sono andate formandosi vulnerabilità all’interno di varie EME, comprese alcune delle maggiori, e in misura minore anche in alcune economie avanzate, soprattutto quelle esportatrici di materie prime. Più specificamente, questi paesi hanno evidenziato segnali di accumulo di squilibri finanziari sotto forma di boom eccessivi del credito accompagnati da forti aumenti dei prezzi delle attività, in particolare quelli immobiliari, favoriti da condizioni globali di liquidità insolitamente abbondanti. È all’inversione di questi boom, in presenza di vulnerabilità esterne, che dovremmo rivolgere la massima attenzione. Non stiamo assistendo a scosse isolate, bensì al rilascio di pressioni accumulatesi gradualmente nel corso degli anni lungo importanti linee di faglia”.

Il terremoto, perciò, cova più o meno silenzioso, nei bassifondi di una realtà “in cui i livelli del debito sono troppo elevati, la crescita della produttività troppo debole e i rischi finanziari troppo minacciosi”. Una realtà, per giunta “in cui i tassi di interesse sono straordinariamente bassi da tempi eccezionalmente lunghi e in cui i mercati finanziari hanno sviluppato una preoccupante dipendenza dalla minima parola o azione delle banche centrali, rendendo a loro volta più complessa la necessaria normalizzazione delle politiche monetarie. È irrealistico e pericoloso aspettarsi che la politica monetaria possa curare tutti i mali dell’economia mondiale”.

E’ irrealistico. Ma succede.

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L’exit comedy della Fed: i vorrei ma non posso della Yellen


Come tutte le commedie che si rispettino, anche quella che ormai da anni manda in scena la Fed, annunciando e poi ritirando temibili rialzi dei tassi ufficiali, va avanti seguendo i canoni classici del colpo di scena e dell’agnizione. Laddove però la finale presa di coscienza dei protagonisti non va oltre un modesto “vorrei ma non posso”, come quello declinato dal nuovo capo della Fed, Janet Yellen, davanti al Congresso americano.

Intervento attesissimo e altrettanto paventato, che arriva a poche settimane dello staff report che il Fmi ha dedicato agli Usa e dove è scritto a chiare lettere che sarebbe meglio se la Fed aspettasse almeno l’anno prossimo a muovere i tassi, adducendo a pretesto tali e tante argomentazioni che l’esiguo spazio di questa pagina non è in grado di contenere.

Perciò figuratevi che salto sulla sedia ho fatto quando ho visto le agenzie di stampa battere la notizia che la Yellen avrebbe detto che le condizioni dell’economia americana sono mature per alzare i tassi già quest’anno, e poi leggere pochi minuti dopo sul Financial Times praticamente la stessa cosa, pur con i distinguo che si devono a una gloriosa testata dell’informazione economica.

Ma poi è davvero così?

Fin dai tempi di Bernanke – correva il maggio 2013 – la Fed ci ha abituato a improvvide dichiarazioni e invenzioni gnoseologiche, tipo il taper tantrum, che sono l’evidente rappresentazione mediatica dell’inconcludenza dell’economia Usa, che va meglio ma non va bene, aumenta gli occupati ma non la partecipazione al lavoro, si è disindebitata ma è ancora carica di debiti. In più ha iniziato il 2015 con un pessimo trimestre, cui certo ha contribuito l’apprezzamento del dollaro, e ora deve vedersela con due crisi regionali niente male: quella greco-europea e quella cinese.

La Yellen, che interpreta magnificamente il ruolo di principale comparsa di tale commedia, non si è discostata granché dal copione. Dopo aver ripetuto le premesse che ho già sintetizzato finalmente è arrivata al punto. Ossia la politica monetaria, sulla quale peraltro pesa un tasso di inflazione ancora molto al di sotto dell’obiettivo del 2% scritto negli statuti della banca americana.

Ed è qui che l’interpretazione della Yellen si fa sopraffina. “Data l’attuale situazione economica – spiega – il FOMC ha giudicato che un alto grado di accomodamento monetario sia ancora appropriato”. Poi però ricorda che “nelle sue più recenti dichiarazioni sempre il Committee ha giudicato che potrebbe essere appropriato aumentare i tassi non appena si fossero osservati nuovi sviluppi positivi del mercato del lavoro e ci fosse una ragionevole fiducia che l’inflazione si sarebbe mossa verso il 2% nel medio termine”.

Se vi sembra fumoso è solo perché non sapete che il FOMC “determinerà il timing dell’incremento iniziale dei tassi decidendo di meeting in meeting: dipenderà dall’assessment dei progressi fatti”. Se, e sottolineo se, direbbe il poeta “l’economia evolverà come ci aspettiamo, le condizioni probabilmente potrebbero rendere appropriato a un certo punto di quest’anno alzare i fed funds e iniziare a normalizzare la politica monetaria”.

Se siete sopravvissuti alla probabilità accoppiata al condizionale, e ancora credete possibile che tale evento avvenga sul serio, allora dovete anche sapere che la Yellen ci tiene ad enfatizzare che “queste sono proiezioni basate su previsioni dell’andamento dell’economia, non dichiarazioni di intenti circa l’innalzamento dei tassi a un certo punto”.

Provo a dirlo con parole mie: se l’economia andrà bene (primo condizionale) è probabile (secondo condizionale) che potrebbe essere appropriato (terzo condizionale) a un certo punto dell’anno alzare i tassi. Ma non è detto che succederà. E’ solo un’ipotesi probabilistica. Più o meno l’equivalente del dire che un giorno, più o meno lontano, alzerò i tassi, forse.

E la chiamano forward guidance.

E soprattutto, pure se succedesse, ‘sto miracolo, è importante ricordare che “la politica monetaria rimarrà probabilmente (altro condizionale, ndr) estremamente accomodativa”.

L’estrema prudenza con la quale la materia viene recitata dalla Fed mi convince di alcune circostanze. La prima è che in fondo non deve essere poi così innocuo, come pure la Yellen prova a farci credere, questo minimo rialzo dei tassi, se deve essere presentato con questo gran dispendio di parole.

La seconda è che l’economia americana, e quella globale di conseguenza, non deve essere poi così in salute se non riesce a sostenere un mezzo punto di rincaro del denaro.

La terza è il combinato disposto delle prime due: i mercati fanno paura.

Persino agli Usa.

(3/segue)

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La lezione di Supermario al Parlamento italiano


Mi figuro lo spettacolo che dev’esser stato, lo scorso 26 marzo, quando Mario Draghi si è presentato nel nostro Parlamento a dire una cosa molto semplice: la ricreazione è finita, ora dovete far sul serio.

E mi immagino anche, non avendone contezza, quanto sia stato affollato l’emiciclo romano, coi deputati assisi e silenti a mo’ d’omaggio verso l’italiano più illustre, e probabilmente più potente, di questi tempi amari. Quel Supermario che ha salvato l’Europa, dicono tutti, chi con senso di sollievo chi con malcelato disappunto, aprendo il portafoglio della Bce quando era il momento e continuando a farlo da allora in poi.

Avrei voluto esserci, se non altro per vedere le facce dei silenti, quando Draghi ha ricordato loro che la politica monetaria non basta, o almeno non basterà ancora a lungo. Per salvare capra e cavoli, ossia le nostre costose società e i nostri ancor più costosi diritti, la ricetta è semplice, dice Supermario: bisogna lavorare di più e meglio, rispettare le regole europee che ci siamo dati, e, laddove gli stati non fossero in grado di adempiere a cotanto impegno, lasciare che si espandano i poteri degli organismi sovranazionali capaci di far loro whatever it takes per far progredire l’Europa.

Giusto per addolcire la pillola, Draghi non trascura di ricordare che il rigore deve camminare a braccetto con l’equità, che mi riporta alla fine del 2011, quando i professori al governo ne fecero un motto.

Avrei voluto esserci, alla Camera dei deputati, per vedere la faccia degli onorevoli mentre il presidente della Bce li accompagna dolcemente verso l’autentico ultimatum del nostro tempo: fare le riforme o sparire. E anche questa, pure se Draghi mai userebbe questa parole, mi sembra di averla già sentita.

Questo discorrere, che a molti parrà estremo, si può apprezzarlo solo ricordando quanto ciò sia perfettamente coerente con le pubbliche allocuzioni di Draghi, delle quali più volte vi ho raccontato, parendomi la voce di Draghi quella più europea fra le tante che ho sentito. Se non altro perché di solito viene seguita da fatti assai concreti.

L’Europa di Supermario l’ho capita da tempo, e leggendo Draghi ho anche capito quanto profondo e pervasivo sia il progetto dell’integrazione europea, con quanta pazienza sia stato condotto, e quanto ormai sia stato superato il punto di non ritorno, con grande scorno temo per i tanti che credono davvero che non sia così.

Perciò se fossi stato lì, nel Parlamento italiano, avrei ascoltato Draghi con orecchie attente, perché ormai è chiaro che ciò che dice, in un modo o in un altro, finisce col succedere, piaccia o no.

Purtroppo non ero lì, e perciò devo accontentarmi di leggerlo.

Vi risparmio le cose che avrete letto sui giornali, tipo gli effetti potenziali del QE e altre pinzillacchere, che temo allontanino l’attenzione dall’unico punto saliente che qui voglio evidenziare. Ossia il passaggio dalla fase della politica monetaria a quella delle riforme strutturali.

Il caso italiano è icastico: à la miglior testimonianza di come possano andare male le cose. La crescita potenziale, stimata intorno al 2,5% nei primi anni ’90, è scesa all’1,5% nel 1999 e adesso il FMI e altri pensano che sia a zero.

Per capovolgere questo trend, la ricetta di Draghi è quella classica offertista, ossia aumentare il numero delle ore lavorate nell’economia e la loro produttività. Produrre di più, per, classicamente, essere più ricchi. La vecchia legge degli sbocchi di Say, se qualcuno la ricorda ancora.

D’altronde è il pensiero che va per la maggiore, visto che le cosiddette politiche keynesiane sul lato della domanda vengono (a parole) osteggiate dalle banche centrali e dagli stati.

Se il feticcio contemporaneo è quello della produzione, dobbiamo, piaccio o no, farci i conti. La crescita della produttività nell’euro area è stata fra il 2000 e il 2013 di appena il 9,5%. In Italia addirittura dell’1,3%. Negli Usa del 26,1%

Se guardiamo ai TFP, ossia i fattori totali della produzione, che consentono di apprezzare l’efficienza degli input nei processi produttivi, scopriamo che nell’eurozona sono cresciuti appena dell’1,1%, in Italia sono diminuiti del 7,7%, e in America sono aumentati del 10,5%.

Queste le cifre riportate da Draghi, ammesso che i nostri parlamentari ne abbiano preso nota.

Di fronte a questa situazione c’è poco da fare: dobbiamo far ripartire la fabbrica. Una delle strade maestre suggerite da Draghi è la “riallocazione delle risorse” dalle imprese meno efficienti a quelle più efficiente, che pure ci sono nel nostro paese anche se i giornali non ne parlano.

Il tutto ovviamente accompagnato da un uso sapiente dell’innovazione tecnologica e con massicci investimenti sulla formazione.

Poiché mi sembra tutto molto astratto, provo a dirvela come l’ho capita io: il lavoratore italiano deve lavorare di più, studiare di più, migliorarsi di più. Possibilmente senza chiedere troppi aumenti però, sennò ne risente la competitività.

Le riforme servono, o dovrebbero servire, proprio a questo. A cambiare il nostro modo di lavorare e di intendere il lavoro. Non più un qualcosa di acquisito, ma un costante divenire nel cui flusso eracliteo dobbiamo immergerci con gioia e consapevolezza.

Poi ci sono altre riforme che servono all’Italia, certo. A cominciare da quelle della giustizia civile e commerciale, che ancora ci fa somigliare alla periferia del mondo. Per il resto, l’Europa sta già lavorando per unificare i mercati dei capitali, dopo aver unificato la supervisione bancaria, quindi per i soldi non ci saranno problemi: grazie alle entità sovranazionali che hanno preso in carico questi processi (a cominciare dalla Bce), la finanza funzionerà meglio, assai meglio di come avrebbe funzionato se di queste cose, a partire dalla moneta per finire con i bond, se ne fossero occupati ancora gli stati nazionali.

Chiedo scusa a Draghi se riassumo e semplifico così banalmente il suo pensiero, assai più articolato, ma credo ciò ci permetta di apprezzare perché a un certo punto dica che “malgrado l’importanza delle riforme strutturali per la convergenza economica e monetaria, questa riforme rimangono in gran parte un responsabilità nazionale. E questo aggiunge un elemento di fragilità alla nostra Unione. Dal mio punto di vista ciò deve cambiare”.

Ed ecco qui che avrei voluto vedere le facce dei parlamentari.

Cambiare come?

Partiamo dal presupposto che la nostra Unione non prevede, né è facile prevederà mai, meccanismi di trasferimenti interstatali. Per dirla con le parole di Draghi, non è contemplato che ci siano paesi strutturalmente debitori e paesi strutturalmente creditori: “Non siamo un’Unione dove alcuni paesi pagano permanentemente per gli altri”. Occorre, per usare un’espressione ormai abusata, che ognuno faccia i suoi compiti a casa.

Detto ciò, Draghi riconosce alle istituzioni europee di aver usato bene i poteri che sono stati loro conferiti, al contrario di quanto hanno fatto gli stati, visto che “le regole fiscali sono stati ripetutamente non rispettate”.

“Perciò – dice – dal mio punto di vista, se siamo d’accordo che serva una maggiore convergenza nel campo strutturale, il nostro obiettivo dovrebbe essere transitare da un sistema di regole gestite dagli stati a uno basato su istituzioni europee più forti”.

E poi un delizioso avvertimento: “Rinchiudersi dietro i confini nazionali non risolve nessuno dei problemi che abbiamo di fronte: dovremmo comunque fare i conti con la sfida demografica, la bassa produttività e l’alto debito. Molti rimarrebbero senza lavoro”. Quindi bisogna procedere “a livello nazionale dove necessario a integrando col livello europeo dove appropriato”.

Combinare la politica monetaria della Bce, con le riforme e i cambiamenti istituzionali che saranno necessari. ” E sono convinto – ha concluso – che questo Parlamento, come ha sempre fatto, giocherà un ruolo centrale in questo processo”.

Non so se i nostri parlamentari hanno applaudito.

Ma conoscendoli penso di sì.

 

Il signoraggio implicito degli americani


Conosciamo tutti l’esorbitante privilegio, come lo ebbero a definire i francesi, di cui godono gli americani, in quanto emittenti della moneta internazionale. Se ne parla dagli anni ’60, e malgrado la tanta letteratura che è stata scritta nel frattempo su questa sorta di signoraggio esplicito, ossia la differenza fra quanto costa agli americani emettere la moneta e quanto ci guadagnano dall’utilizzo che ne fanno loro, magari all’estero, e gli altri paesi, che tale signoraggio devono pagare, assai meno si conosce su un altro tipo di signoraggio, che è squisitamente implicito.

Mi riferisco, in particolare, al costo che gli americani scaricano indirettamente sui paesi che usano il dollaro per le loro transazioni commerciali e finanziarie, derivante dal fatto che il costo del dollaro, come ogni cosa, dipende dalle scelte di politica monetaria degli Usa.

Se vi sembra esoterica, questa domanda, forse è perché non ricordate che in giro per il mondo circolano circa 9 trilioni di asset denominati in dollari, emessi quindi da paesi non americani, con i quali il mondo dovrà fare i conti una volta che la Fed deciderà di cambiare le sue scelte di politica monetaria.

Peraltro questa cosa non deve essere poi così tanto esoterica se la Bis ha deciso di dedicarci un working paper uscito qualche tempo fa (“Financial crisis, US unconventional monetary policy and international spillovers”), scritto da Qianying Chen, Andrew Filardo, Dong He e Feng Zhu.

Mi decido a leggerlo non tanto perché sia un patito della modellistica macroeconomica, che tendenzialmete aborro, ma perché l’analisi consente di apprezzare un punto dolente della nostra attualità, che ormai i regolatori di mezzo mondo non si stancano di ripetere: il costo dell’exit strategy americana, in particolare per i paesi emergenti, che più di altri dal 2009 in poi hanno fatto largo uso dell’indebitamento internazionale in valuta americana. Chiunque pensi che questa cosa non lo riguardi, dovrebbe riflettere meglio sulla profondità delle interconnessioni finanziarie globali.

Ma soprattutto vale la pena leggere lo studio perché esprime a chiare lettere un concetto che gli entusiasti dei quantitative easing (QE) tendono a sottovalutare: il QE, e in particolare quello Usa, ha un costo che può diventare rilevante per moltissimi.

Ciò non vuol dire che il QE non abbia prodotto anche benefici, ma più sottilmente, che insieme ai benefici ci sono anche i costi, reali e potenziali. Per dirla con le parle degli autori, “Abbiamo riscontrato che l’impatto stimato del QE sono notevoli e variano al variare delle economie”. E in particolare quando si parla di economie emergenti.

Tutto questo nella consapevolezza che “sappiamo ancora poco sull’impatto delle politiche non convenzionali sulle attività reali e che finora sono state fatte poche ricerche sugli spillover transfrontalieri, specialmente nelle economia emergenti”.

Alcuni studi hanno stimato che il QE americano abbia abbassato i tassi sui bond di 20-80 punti nelle economie avanzate e abbia provocato un deprezzamento del dollaro del 4-11%. Altri hanno rilevato che il prezzo delle commodity ha declinato sostanzialmente prima che la Fed lanciasse il QE. E tutto ciò solleva interrogativi su come si comporteranno questi valori una volta che tale politica straordinaria verrà meno.

Anche perché non c’è identità di vedute fra gli studiosi sull’utilità di politiche coordinate fra le varie banche centrali. Acuni pensano tuttora che il QE sia un problema dei singoli paesi che lo attivano, e che gli evetuali spillover transfrontalieri siano tutto sommato trascurabile.

Altri pensano il contrario. Ossia che le migliaia di miliardi di asset acquistati dalle banche centrali, Fed in testa, hanno avuto a avranno in futuro inevitabili conseguenze sull’economia globale, come si è già osservato studiando gli effetti che hanno provocato sul dollaro e quindi indirettamente su tutti i paesi che sul dollaro basano la loro economia.

Perciò gli autori hanno svolto un’analisi basandosi sui dati relativi a 17 economie, avanzate ed emergenti, studiando i dati dal 2007 al 2013. Ciò che ne hanno tratto è stato che il calo degli spread provocato da QE ha avuto notevole ripercussioni globali sia sul lato finanziario che su quello economico.

La buona notizia è che tali effetti hanno prevenuto esiti ancora più nefasti, tipo un collasso del sistema economico globale. Quella cattiva è che per la stessa ragione li possono provocare adesso, una volta che l’allentamento monetario terminerà.

Il rischio emergenti si appalesa con chiarezza una volta che si osservi come il QE americano abbia impattato assai più su questi paesi che su quelli avanzati. Ed proprio su questi paesi che il signoraggio implicito ha spiegato i suoi esiti più importanti.

Ma ovviamente esiti ancora più importanti il QE della Fed li ha operati in casa, abbassando notevolmente i rendimenti e alimentando la crescita del credito. In generale gli studiosi hanno rilevato che un calo di 20,7 punti base negli spread nei bond corporate ha elevato dello 0,2% il Pil reale in un orizzonte di tre anni.

D’altronde che il QE abbia giovato, momentaneamente, agli Usa è fuor di dubbio. Così come è fuori di dubbio che il resto del mondo ne abbia subito le conseguenze.

L’analisi mostra che il calo degli spread sui bond corporate Usa ha impattato notevolmente sulle economie dell’America latina e dell’Asia, sia relativamente ai mercati azionari e obbligazionari, ma anche sul mercato valutario, visto che il deprezzarsi del dollaro ha apprezzato le loro valute.

In Brasile infatti si sono riprodotti effetti simili a quelli registrati altrove, con le azioni in crescita, come il credito e il prodotto. Il paese ha potuto godere di una crescita indotta del prodotto e ha potuto uscire rapidamente dalla recessione del 2009, grazie allo zio Sam.

In Cina il calo dell’US term spread ha avuto lo stesso effetto sulla crescita della moneta e del credito, che hanno ceduto lo 0,2 e lo 0,3% rispettivamente, per poi tornare positivi in pochi mesi. Ma anche la Cina ha goduto, seppure meno del Brasile per le sue più stringenti condizioni monetarie, della boanzna americana.

Ma il signoraggio implicito ha svolto i suoi esiti anche nell’eurozona. In particolare un taglio di 14,2 punti dell’Us term spread, ha provocato un ribasso nell’eurozona di 10 punti base, sempre nell’orizzonte di tre anni. Un calo di 20,7 punti base, oltre ad abbassare il rendimento in Europa, ha provocato un crescita del credito nell’area dello 0,1% e dell’output dello 0,2%, facendo pure crescere l’inflazione. Inoltre, i prezzi delle azioni sono cresciuti dell’1% in quattro mesi.

Se osserviamo gli esiti del QE sui paesi emergenti, notiamo che, a parte l’entità di tali conseguenze, gli effetti sono stati simili a quelli registrati nell’eurozona.

Tutto ciò dimostra con chiarezza una semplice, elementare verità: di fronte agli Usa siamo tutti paesi emergenti, o, se preferite, di fronte al Signore americano, siamo tutti chi più chi meno vassalli.

E questo spiega molto bene perché un semplice starnuto della Fed è capace di contagiare il raffreddore al resto del mondo.

Con buona pace della Bce.

 

 

Il QE europeo, ovvero il trionfo dell’egemonia monetaria


Mi ritrovo a navigare, come voi sperduto, nel vasto mare dell’informazione economica con le correnti che mi spingono a volte verso fiumi impetuosi che mi sovrastano, lasciandomi spossato, tal’altre lungo angusti rigagnoli che però nascondono tesori, piccole perle che hanno il potere di illuminare la mia vista da naufrago, onnubilata dall’acqua.

Mentre nuoto, ancora incerto sulla ragione e soprattutto la destinazione, mi piovono addosso notizie di spread europei che collassano insieme alla quotazione della moneta unica, ormai vicina alla parità col dollaro, mentre dalla terra greca si paventano sconquassi come più o meno accade ormai da un lustro. All’orizzonte vedo sorgere un timido arcobaleno, però, che la decisa azione della Bce ha reso persino più colorato di com’è solitamente in natura, con i telegiornali e gli istituti di statistica a spargere ottimismo, che male non fa, pure se non è detto che faccia bene.

Mi convinco per simpatia che non solo va tutto bene, a parte le bizze dei greci che qualcuno raddrizzerà, ma che soprattutto andrà tutto bene. Il QE di Supermario ha già raggiunto il suo obiettivo evidente: ristabilire la fiducia e svalutare l’euro, che comunque male non fa, come ci ricordano i giornali confindustriali, anche se non è detto che faccia bene.

Decido persino di non scriverne più di QE, atteso che tutto quello che c’era da dire e ricordare credo di averlo già fatto.

Ma poi mi capita sotto gli occhi uno speech di Peter Praet, componente del board della Bce, (“Public sector security purchases and monetary dominance in a monetary union without a fiscal union“) e capisco di essere finito in uno di quei rigagnoli di cui vi dicevo prima. Uno di quei posti angusti da dove però puoi guardare l’insieme, solitamente trascurato dalle cronache.

Le riflessioni di Praet mi fanno tornare in mente un post che avevo scritto tanto tempo fa, nel quale senza saperlo avevo invocato un concetto a che a quanto pare esiste davvero nella teoria del central banking, quello di monetary dominance. Nella mia ignoranza (mai sentito prima) avevo parlato invece di egemonia monetaria, riferendola alla logica dell’agire della nostra banca centrale che, proprio perché priva di uno stato alle spalle, deve far leva sul rispetto di alcuni principi essenzialmente monetari per la sua politica. La logica dell’egemonia monetaria si confronta con quella della moneta egemone che caratterizza ad esempio gli Stati Uniti, dove c’è una perfetta saldatura fra stato e banca centrale pur nella diversità dei ruoli.

Figuratevi la sorpresa quando, leggendo Praet, mi sono accorto che il miglior risultato che il QE ha ottenuto, aldilà degli spread declinanti e della fiducia crescente e al netto della Grecia, è stato sui principi: la Bce di fatto con la sua decisione ha segnato il trionfo del principio della monetary dominance. Quindi il suo personale.

Tale principio si basa sull’assunto che una banca centrale debba prendere le sue decisioni in totale indipendenza senza altro riguardo che al suo mandato, quindi nel caso della Bce legato all’obbiettivo di un’inflazione al 2%, senza curarsi né della financial dominance, ossia delle conseguenze che ciò avrà sulle banche e il sistema finanziario, né tantomeno della fiscal dominance, ossia l’esigenza che può avere uno stato di rivolgersi alla sua banca centrale per finanziarsi, per la semplice ragione che uno stato alle spalle la Bce non ce l’ha.

Il trionfo dell’egemonia monetaria, che è un modo totalmente nuovo (anche se ricorda il vecchio gold standard ottocentesco) di concepire il central banking, conferma che l’eurozona è il luogo dove l’internazionalismo monetario si sta facendo i muscoli, e perciò è assai utile seguire il ragionamento di Praet, pur nella consapevolezza che mai e poi mai la moneta egemone cederà la sua supremazia senza combattere.

Vi riassumo qui i tratti salienti.

L’unione monetaria europea senza unione fiscale è possibile in teoria, dice il banchiere, “ma richiede requisiti che assicurino una monetary dominance più stringente”.

Ciò in quanto in una unione monetaria la politica monetaria, che è a sua volta unica, genera dei link con i budget fiscali dei diversi stati. Il perché è evidente: guadagni o perdite dell’attività della banca centrale vengono distribuiti a tutti governi, pure se in quota parte. Quindi se la Bce comprasse titoli di stato di un paese membro ne condividerebbe il rischio con gli altri paesi, il che è semplicemente vietato dai trattati. Ecco: la monetary dominance implica l’indifferenza dell’autorità monetaria nei confronti dei paesi le cui banche centrali (a loro volta teoricamente indipendenti) sono a loro volta azioniste della Bce. La difesa della moneta è lo scopo principale del gioco.

Perché tale monetary dominance sia effettiva occorre ovviamente che la Bce sia credibile anche e soprattutto nei confronti delle autorità fiscali. E infatti per evitare tentazioni di fiscal dominance, l’Ue ha costruito il suoi vari fiscal compact che di fatto imbrigliano i governi nazionali in una matrice di parametri alla quale non possono sfuggire a pena di sanzioni.

Ma monetary dominance significa anche un’altra cose: significa che la banca centrale può farsi carico della politica monetaria ma non di quella creditizia.

Nella distinzione che ne ha fatto Marvin Goodfriend in uno scritto del 2011 “una autentica politica monetaria esiste solo quando la banca centrale acquista e vende bond governativi. Quando invece la banca centrale si impegna in operazioni che implicano rischi di credito, e quindi coinvolge il settore privato, sta facendo politica creditizia a in ultima analisi fiscale”.

Ma “la nozione che un bond governativo non porti con sé rischio può esistere solo in un contesto in cui ci sia pieno consolidamento fra il bilancio della banca centrale e quello dell’autorità fiscale”. Detto in parole comprensibili, una banca centrale può monetizzare un Treasury, e in questo senso è sicuro.

Il problema è che in una unione monetaria senza unione fiscale, un asset del genere non esiste. Nessun titolo degli stati è risk free perché la Bce non può monetizzarlo e perché, nella logica della monetary dominance, uno stato può tranquillamente fallire. L’unico titolo risk free dell’unione europea sono i debiti della Bce, perché emessi da se stessa e quindi infinitamente monetizzabili. Il che dovrebbe farci capire chi comandi davvero in Europa.

Tali considerazioni, che a molti parranno filosofiche, hanno condotto a decisioni molto concrete sia per l’ideazione che la realizzazione del QE della Bce.

Se vi verrà voglia di leggere Praet scoprirete che la decisione presa dal board è assolutamente coerente con questa visione, dove una banca senza stato, che adesso può anche contare su una unione bancaria e su un sistema coordinato di regole fiscali per gli stati, di fatto surroga l’autorità politica pur dicendo il contrario. Nel senso che la politica dell’Ue è la monetary dominance, innanzitutto.

Vi risparmio i dettagli e salto direttamente alle conclusioni: “La decisione del consiglio dei governatori ha dimostrato che siamo (la Bce, ndr) senza vincoli nella nostra capacità di ottemperare al nostro mandato, potendo far pieno uso di tutti gli strumenti di politica monetaria legali ed efficaci di cui disponiamo”.

“Questa – sottolinea – è un’asserzione di monetary dominance, coerente con i principi del Trattato di Maastricht”.

Ma attenzione, avverte: il successo dell’euroarea dipende dal fatto che tutti gli stakeholder facciano la loro parte.

Ripenso ai politici greci mentre Praet recita le sue ultime parole famose: “La Bce non esiste nel vuoto”.

E sento improvvisamente il vuoto dentro di me.

Gli effetti deflazionari della terza età


Scopro con divertito stupore che le mie malfondate intuizioni circa il legame fra andamento dell’economia e della demografia non sono così infondate, relativamente almeno agli effetti che gli andamenti demografici hanno su quello dei prezzi.

Stupore cui si aggiunge la sorpresa, quando osservo, leggendo un paper della Bis (“Can demography affect inflation and monetary policy?”), che fior di banchieri centrali iniziano a sospettare che l’aumentare della quota di popolazione anziana abbia effetti deflazionari, impattando implicitamente sul livello del prodotto.

Ma più di tutto, mi convince a leggere il paper la domanda che gli autori si fanno all’inizio: “Perché l’inflazione era alta negli anni 1960-70 e perché è bassa oggi?”, che mi sembra assolutamente interessante.

Sicché mi armo della consueta santa pazienza e inizio a compulsare le 50 pagine dello scritto, che magari non darà una risposta definitiva, ma almeno offre degli spunti di riflessioni utili al nostro discorso.

Secondo il punto di vista più comune, l’impennata dell’inflazione degli anni 60-70 fu frutto di errori commessi dalle banche centrali, che non agirono efficacemente per impedire il fenomeno.

Più di recente, alcuni banchieri centrali hanno ipotizzato che le tendenze demografiche possano avere a che fare con l’andamento dei prezzi, e persino il Fmi, prendendo spunto dall’esperienza giapponese, ha ipotizzato che il divenire anziano della popolazione spinga al ribasso i prezzi, per lo più facendo rallentare la crescita, indebolendo persino gli effetti della politica monetaria.

Sulla scorta di queste analisi precedenti, gli autori del paper hanno condotto un’analisi su 22 economie riguardante il periodo 1955-2010 al termine della quale affermano di aver trovato “una significativa e stabile connessione fra la struttura anagrafica della popolazione e l’inflazione” o direttamente “o tramite le aspettative di inflazione”. Ciò anche di fronte al verificarsi di eventi come i due shock petroliferi, o seguendo l’andamento del tasso reale di interesse o dell’output gap, nei confronti dei quali “l’impatto demografico sembra essere complementare”.

Ancora più importante, sottolineano, è la circostanza che “il risultato non dipende da nessun periodo particolare”. La relazione fra demografia e inflazione risulta sussistente nel dopo 1980 come nel dopo 1995, e sussiste anche nei periodo straordinari, come appunto sono stati quelli degli shock petroliferi.

Secondo le stime degli autori, “la demografia pesa circa un terzo delle variazioni dell’inflazione e in gran parte per la decelerazione avvenuta dai tardi anni ’70 ai primi anni ’90”.  Soprattutto, le rilevazioni hanno mostrato un pattern a U: “Una quota maggiore di persone a carico (ossia, giovani e anziani) è correlata con un più alto tasso di inflazione, mentre una quota maggiore di coorti in età lavorativa è correlata con un’inflazione più bassa”.

L’estensione dell’analisi alla politica monetaria ha permesso inoltre di arrivare a un’altra conclusione: c’è una relazione fra gli andamento demografici e la politica monetaria, anche se non appare stabile come quella individuata fra demografie e prezzi.

In particolare, prima della metà degli anni ’80 la politica monetaria “ha rinforzato ‘impatto demografico sull’inflazione: i tassi di interesse reali erano bassi proprio mentre erano alte le pressioni inflazionarie”.

Questo pattern si è invertito dalla seconda metà degli anni ’80, quando la politica monetaria ha iniziato a mitigare gli impatti demografici, anche se non completamente. “In altre parole – spiegano – in quel periodo i tassi di interesse reali erano bassi e le pressioni demografiche inflazionarie lo erano altrettanto”.

Insomma: la demografia impatta sull’economia, in tanti modi. Ma questo in pratica che vuol dire?

“Il nostro risultao è rilevante per la teoria economica e le policy”, sottolineano i due autori. Della prima potremmo pure infischiarcene, atteso che le teorie economiche cambiano di continuo. Più interessante però l’effetto che ciò ha sulle politiche, che magari a queste teorie fanno riferimento. In particolare le politiche monetarie che si basano sulla stima dell’inflazione prevista e si orientano verso i target di riferimento.

Questi ultimi, in particolare,  “potrebbero rimanere ottimali – si chiedono – se le pressioni inflazionarie sottostanti cambiano significativamente?”.

Detto in altre parole, può bastare un 2% di target se l’andamento demografico spinge verso lo zero? O se invece, aumentando gli anziani, e quindi quelli fuori dai processi produttivi, l’andamento demografico spingerà verso un’inflazione più alta?

Il problema si aggrava se si considera che i paesi hanno strutture demografiche profondamente diverse, pure se in comune hanno una quota crescente di anziani. In alcuni di questi, dove l’invecchiamento della popolazione si prevede più rapida, ci si può aspettare una maggiore spinta verso l’inflazione. Fra questi spiccano Italia, Grecia, Spagna (sempre perché piove sul bagnato) e Corea del Sud.

Chi ha orecchi intenda, diceva il filosofo.

 

La sovranità monetaria spiegata dagli svizzeri


Aspettavo con una certa curiosità di rileggere Thomas Jordan, chairman del board della banca centrale svizzera, dopo la decisione del 15 gennaio con la quale l’autorità monetaria ha annunciato che non avrebbe più difeso il regime di cambio con l’euro, fissato anni fa a 1,20 franchi. Decisione che, lo ricorderete, ha alimentato diverse discussioni per alcuni giorni, conducendo peraltro la valuta elvetica a una sostanziale parità con l’euro.

Aspettavo, quindi, curioso di conoscere la versione di Jordan, dopo essermi sciroppata quella di mezzo mondo. E finalmente ho pescato uno speech che il governatore ha tenuto a Bruxelles il 17 gennaio, quindi a caldo: appena due giorni dopo l’annuncio della fine del cambio fisso. Il titolo poi era estremamente suggestivo: “Switzerland at the heart of Europe – between independence and interdependence”.

Già. La Svizzera è il paese più citato dai sovranisti per la sua capacità di vivere, e pure bene, in un contesto globalizzato. La sua indipendenza, che tante invidie le provoca, coesiste con una profonda interdipendenza con il sistema finanziario globale, essendo la Svizzera una economia aperta – pensate solo alle sue banche – e inserita a pieno titolo, con la sua moneta, nel grande gioco valutario.

Il franco svizzero, come tutte le le monete, rappresenta l’interfaccia finanziaria e commerciale della Svizzera col resto del mondo. Il suo stato di salute, perciò, e le modalità con le quali la banca centrale lo gestisce, può dirci molto sulle modalità in cui uno stato sovrano possa sopravvivere (e pure bene) in un contesto globale.

Decido perciò di ascoltare con tutta l’umiltà di cui dispongo l’allocuzione di Jordan, che mi sembra un’utile lezione di politica monetaria a uso mio e dei sovranisti, che magari ne faranno tesoro.

La prima cosa che mi salta all’occhio è la considerazione che, proprio in virtù del suo essere un’economia aperta, la Svizzera a volte “è stata soggetta a grandi shock valutari”. “Non essendo parte di un largo mercato interno – sottolinea – la Svizzera è particolarmente dipendente dai mercati internazionali”. Piccolo è bello, insomma, salvo ricordarsi questo caveat.

E anche un altro: “La Svizzera è conosciuta come un paese con uno dei più alti tenori di vita al mondo, ma ciò non va considerato come acquisito: è una sfida costante raggiungere e mantenere il progresso sociale”.

Quindi, piccolo è bello, a patto di essere capaci di conquistarsi ogni giorno questo privilegio.

A tal proposito, Jordan ci ricorda che la Svizzera dispone di una valuta che gioca, nel sistema globale, un ruolo assai più rilevante del peso specifico espresso dalla taglia economica del paese. Ciò deriva dallo stato di safe haven di cui gode il paradiso elevetico, indice, sottolinea Jordan “della stabilità di cui gode il Paese”.

La stabilità, quindi, è il secondo caveat.

Poi certo, a volte si può esser vittime del proprio successo. E infatti la Svizzera, dopo l’agosto 2007, quando i sub prime americani iniziavano già a scuotere il mondo, ha visto il franco apprezzarsi, e mano  a mano crescere la pressione sul cambio dopo il crack Lehman e, peggio ancora, dopo la crisi dell’euro del 2010-11. “Come conseguenza enormi flussi finanziaria in cerca di rifugio si sono riversati sul franco”. Dall’agosto del 2007 a quello del 2011, la moneta svizzera si è apprezzata del 40% in termini reali. I rendimenti sul debito svizzero a breve termine sono diventati negativi e tale è rimasto sin da allora.

Ciò spiega perché “di fronte a tali drammatici sviluppi” la SNB ha introdotto la soglia minima di 1,20 franchi per un euro il 6 settembre 2011 tenuta fino al 15 gennaio scorso, pure al prezzo di una notevole espansione el bilancio della banca centrale. E anche perché la SNB ha deciso di recedere da questa politica.

“La ragione di questa scelta va ricercata nel contesto internazionale – spiega Jordan – essendo divenuto evidente la divergenza di politica monetaria fra la Bce e la Fed”, espansionaria la prima e probabilmente contrazionaria la seconda.

In queste condizioni “le pressioni sul tasso minimo di cambio si sono intensificate enormemente, in particolare all’inizio del 2015, divenendo perciò insostenibile. La Snb non ha potuto far altro che disconoscere la propria policy”.

Quindi piccolo è bello, a parte di saperselo guadagnare e di non scommettere contro i grandi. Il rischio per la SNB era quello di “perdere il controllo del proprio bilancio”, già enorme, che “avrebbe potuto raddoppiarsi in pochi mesi” se i  banchieri centrali non avesero agito”.

“Come conseguenza adesso l’economia svizzera deve fare i conti con un tasso di cambio molto difficile e in un mondo interdipendente, dove i capitali circolano liberamente, la forza della Svizzera può facilmente diventare un fattore maggiormente sfidante”.

La storia della Svizzera, dove al rifiuto di cedere sovranità, in qualunque forma, si è sempre associato una notevole apertura nei commerci e nelle finanze, rende questa sfida particolarmente complicata, osserva Jordan. Finora il Paese ha retto l’urto della crisi grazie alla sua domanda interna e agli sviluppi positivi del suo mercato immobiliare, che in qualche modo hanno compensato il trauma subito dai suoi scambi internazionali. L’export si è dimostrato resiliente, grazie anche alle scelte di politica monetaria che hanno impedito un apprezzamento del franco superiore a quello già eccessivo registrato. Un quadro che ora diventa più complicato dagli attuali sviluppi, potendo però la Svizzera contare su un quadro d’insieme che espone alcuni punti forti.

Jordan ne elenca alcuni: la struttura innovativa e diversificata del settore produttivo che esporta, per cominciare: l’ammontare dei beni che la Svizzera esporta all’estero equivale a circa la metà del prodotto domestico lordo. Di questo, circa un terzo sono servizi. Per mantenere questa quota di export, il settore tradable è stato interessato da notevoli cambiamenti strutturali. Il farmaceutico, ad esempio, è cresciuto di importanza a scapito del manifatturiero.

Inoltre i settori sono stati riorganizzati al loro interno, sia nei prodotti che nei processi. E poi sono cambiati anche i mercati di riferimento. “Gli esportatori svizzeri si sono concentrati su Cina e Stati Uniti e altre economia emergenti, mentre hanno fatto meno affidamento sui mercati tradizionali come Germania, Francia e Italia”. E tuttavia “gli esportatori svizzeri rimangono fortemente dipendenti dal mercato europeo, che assorbe tuttora più della metà della produzione svizzera”. Ciò spiega perché la crisi dei debiti sovrani abbia messo a dura prova la tenuta dell’economia elvetica.

Un altro supporto della tenuta dell’economia, spiega ancora, è stato il mercato del lavoro flessibile che combina una “scarsa protezione contro il licenziamento con un generoso un sistema di assicurazione contro la disoccupazione”. A ciò si aggiunga una legislazione favorevole al lavoro short-time, quindi una sorta di mini job, che, sottolinea “è un vantaggio cruciale”, così come anche le buone relazioni fra datori di lavoro e lavoratori, orientate verso negoziazioni di tipo consensuale.

Non finisce qui. La Svizzera ha sempre potuto contare anche una politica fiscale robusta, quindi con poco deficit e debito pubblico. “Durante la crisi lo stato salubre delle finanze pubbliche ha permesso di attivare gli stabilizzatori automatici, che hanno supportato l’economia senza minare la stabilità fiscale di medio termine”. Quindi non sono state necessarie misura di austerità né aumenti di tasse per contrastare l’effetto depressionario della crisi. Ciò ha avuto effetti positivi sulla ricchezza delle famiglie e quindi sul consumo interno e la sulla fiducia.

Da ciò ne consegue che le scelte di politica monetaria continueranno ad essere fatte – la SNB ha annunciato che rimarrà attiva nel mercato dei cambi – ogni qual volta si riterrà necessario. Ma con una premessa: “Oggi più che mai l’economia deve concentrarsi sui suoi elementi strutturali di forza e di flessibilità per assicurare la sua competitività internazionale e la sua prosperità”. Insomma: da sola la politica monetaria indipendente non basta: serve un’economia robusta alle spalle.

I sovranisti, perciò, dovrebbero far tesoro di quel che serva per giocare da vincitori la partita della globalizzazione conservando la propria indipendenza monetaria: una struttura produttiva di qualità e flessibile, mercato del lavoro compreso, che favorisce positivi scambi commerciali con l’estero, spesa governativa sotto controllo e settore bancario robusto, o quantomeno scaltro. Aiuta, certo, avere alle spalle anche un lunga tradizione di stabilità politica ed economica, garanzie di credibilità e generatrici di fiducia.

Insomma: bisogna essere svizzeri. O almeno somigliar loro un pochetto. Ma non è detto che basti.

E gli svizzeri, come abbiamo visto, sono i primi a saperlo.

Quei nove trilioni di dollari che spaventano il mondo


Chi sa quanto sia invadente e pervasivo il credito denominato in dollari che banche e investitori nel mercato dei bond hanno concesso ai prenditori non finanziari fuori dagli Stati Uniti non si stupirà nell’apprendere che tale montagna di denaro ha raggiunto i nove trilioni di dollari. La qualcosa ci permette di apprezzare compiutamente i rischi che l’ormai imminente avvio del rialzo dei tassi americani può provocare sul livello globale della liquidità e sui meccanismi di trasmissione della politica monetaria.

Personalmente, conoscendo la generosità dei grandi creditori, ciò che mi ha stupito è stato notare come tale flusso delirante di denaro sia praticamente raddoppiato dal 1996 a oggi. E che abbia continuato a crescere anche dopo il 2008.

Se consideriamo lo stock al netto dei prestiti concessi ai governi si è passati circa dal 10 al 20% del totale dei crediti denominati in dollari, mentre al lordo dei crediti concessi ai governi si è passati dal 20 al 30%. Vale la pena anche notare che lo stock complessivo, che nel ’96 contava poco più di 10 trilioni, ormai è pressoché quintuplicato.

Ciò spiega meglio di ogni ragionamento perché il tema sia finito all’attenzione della Bis (“Global dollar credit: links to US monetary policy and leverage”), che ha dedicato al fenomeno un paper da leggere tutto d’un fiato, atteso che descrive in maniera esemplare lo scenario globale del quale la Fed, e quindi il resto del mondo, dovrà tener conto per le sue decisioni a venire.

“I crediti denominati nelle valute maggiori – osserva l’autore – hanno implicazioni per la stabilità finanziaria e monetaria”, visto che “uno stock sostanziale di prestiti denominati in dollari o euro implica che le scelte di politica monetaria delle banche centrali vengano trasmessi direttamente nelle economie”. Questo sul versante monetario.

Sul versante finanziario, la scelta di indebitarsi in valuta estera può avere effetti diretti sulla stabilità, visto che la decisione di servirsi di una valuta estera può facilitare boom degli asset che finiscono sempre col condurre verso una crisi.

Sia come sia, tale pratica si è diffusa a macchia d’olio, coinvolgendo innanzitutto i paesi emergenti.

Alla metà del 2014 i crediti nominati in dollari fuori dagli Usa alle non banche hanno raggiunto il 13% del Pil mondiale, ben oltre i 2,5 trilioni di crediti denominati in euro e gli 0,6 trilioni denominati in yen, con la sottolineatura che mentre i crediti in euro sono concentrati in Europa, quelli in dollari sono autenticamente globali. Il dollaro americano ha invaso anche quei paesi che non sono dollarizzati, Cina in testa.

Quest’ultima, secondo le stime della Bis, avrebbe in dollari l’80% del totale dei crediti in valuta ottenuti, pari a circa 682 miliardi di dollari a fine giugno 2014. Ma tale crescita ha riguardato anche colossi come Brasile e India. E poi Messico, Corea del Sud, Filippine, Perù e Cambogia.

La novità, che lo studio della Bis illustra, è che una parte crescente di questi crediti non sono un’emanazione bancaria, ma arrivano dal mercato dei bond. Si è assistito, vale a dire, a un notevole aumento delle emissioni di bond denominati in dollari anche da parte di paesi esteri.

In particolare, la ricognizione svolta su 22 paesi negli ultimi 15 anni, mostra con chiarezza come i debitori, spinti dai tassi esteri più bassi rispetto a quello domestico, hanno spinto sempre più sul pedale del credito in valuta per finanziarsi. Un altro esito del peccato monetario degli anni 2000, incoraggiando la creazione di bolle un po’ dappertutto.

Prima della crisi tale mole di crediti vedeva le banche come protagoniste del mercato, quindi nella concessione di credito. Dopo il 2008 invece la raccolta di credito ha visto il mercato dei bond nel ruolo di grandi protagonisti.

Aziende e governi hanno emesso grandi quantità di bond denominati in dollari e le banche si sono limitate a comprarli. Poi, una volta che la Fed ha iniziato a comprare bond Usa, conducendo al ribasso dei tassi, gli investitori internazionali hanno iniziato a comprare questa carta per provare a spuntare qualche punto in più rispetto agli ormai poco fruttuosi titoli americani. Come risultato la quota dei prestiti bancari sul totale dei crediti è diminuita da oltre il 60 al 55% del totale dello stock.

Sicché la montagna di denaro ha iniziato a crescere sempre più, e adesso bisogna farci i conti. In un momento, peraltro, in cui le condizioni internazionali non sono le migliori. Basta osservare il rallentamento di molti paesi emergenti, che anche di recente il Fmi ha osservato, e il calo dei corsi petroliferi, che per molti paesi rappresentano la principale fonte di reddito.

Interessante anche notare come, contrariamente a quanto si possa credere, gli Usa sono titolari solo di 2,3 trilioni di questi 8,6 trilioni di crediti agli operatori non finanziari denominati in dollari. Ciò vuol dire che i dollari off shore rappresentano circa i tre quarti del credito totale. “Questo è possibile perché molte banche non Usa hanno trilioni di depositi in dollari”, osserva la Bis. Che è il modo dei banchieri per dire che il dollaro è di fatto se non di diritto la moneta internazionale.

E poi c’è un’altra circostanza: i residenti Usa sono relativamente più interessati al mercato dei bond esteri denominati in dollari rispetto alle banche americane. Forse perché è dal mercato dei bond che arrivano i migliori rendimenti?

Il fatto che non siano gli Usa a far la parte del leone nella titolarità di questi crediti, non vuol dire però che non ne abbiano voce in capitolo. Ciò che decideranno di fare gli americani della loro moneta, infatti, avrà un effetto diretto su questi crediti altrui. Per dirla con le parole della Bis “c’è solo un federal funds e un solo dollar Libor, ma ci sono due stock di debito in dollari che rispondono molto diversamente a questi tassi di interesse”.

In particolare, lo studio osserva che che “quando il tasso effettivo dei federal funds è inferiore a quello prescritto dalla Taylor rule, i prestiti off shore tendono a crescere, spesso a doppia cifra”. A ciò si aggiunga che la compressione dei rendimenti americani, ottenuto con il QE della Fed, ha avuto sostanzialmente un effetto simile. Pur di spuntare guadagni, gli investitori hanno comprato bond con meriti di credito bassi, esponendosi perciò a più rischi.

Ciò conferma una cosa che sapevamo già: la politica monetaria americana si trasferisce attraverso vari canali in tutto il mondo. Perciò il mondo dovrà farci i conti quando cambierà. A cominciare dai paesi più fragili.

 

La bolla dell’euro


La domanda mi sorge mentre guardo un grafico, contenuto in un paper della Bis (“Debt”), che fotografa l’andamento del debito, pubblico e privato, nel periodo 2000-13: se come dice qualcuno il credit boom di questo periodo ha avuto effetti evidenti sia nel settore privato che in quello pubblico, in Grecia come in Germania, per tacere del resto del mondo, cosa impedisce di ipotizzare che anche l’avvento dell’euro, ne sia stato una (in)diretta conseguenza?

Detto altrimenti: se il mondo non avesse conosciuto la bonanza creditizia del XXI secolo, ci saremmo potuti permettere l’eurozona?

Ad alcuni questa domanda parrà oziosa, ma solo perché magari trascurano di dedurne alcune conseguenze.

Se l’euro è la madre di tutte le bolle che l’eurozona ha conosciuto nei primi anni dieci del XXI secolo, infatti, capire cosa l’abbia innescata significa anche comprendere cosa succederebbe se tale innesco un giorno dovesse venire a mancare.

Alcuni studiosi hanno individuato nella politica monetaria americana d’inizio secolo l’autentico peccato monetario del nostro tempo. Per reagire alla crisi di internet, la Fed abbatté i tassi così innescò, a livello globale, un generale sommovimento dei tassi al ribasso.

Vado a ripescarmi i dati, che riporto qui per vostra comodità di lettura.

All’inizio del 1999 il Fed funds era al 4,75% mentre il tasso Bce (l’euro c’era già anche se ancora non circolava) era al 3%. I tassi americani arrivano alla rispettabile quota del 6.5%, oggi inimmaginabile, un anno dopo. Vediamo la Bce adeguarsi quasi in parallelo, con il tasso che arriva al 4,75% poco dopo l’arrivo a quota 6,5% di quello Fed. Se certo questo non basta a ipotizzare una correlazione, si potrebbe dire che fra i due tassi c’era una certa simpatia.

Alla fine del 2000, quando la bolla internet comincia a deflagrare, la Fed inizia una rapida politica di tagli al Fed funds, che nel corso del 2001 viene portato intorno al 2%, da dove proseguirà il suo calo lungo tutto il 2002 fino al minimo dell’1% raggiunto nei primi mesi del 2003.

La Bce guarda attonita La simpatia si trasforma in imbarazzo, che sospende il giudizio dei nostri banchieri centrali per buona parte del 2000 e del 2001, quando il tasso rimane inchiodato al 4,75%. Solo a maggio del 2001 il tasso viene ribassato di appena 25 punti base. Il primo di una serie di mini ribassi, che porterà il tasso Bce al 3,25% a novembre. Il ciclo dei ribassi Bce si conclude a giugno 2003, quando il tasso raggiunge il 2% e lì rimane fermo fino al dicembre 2005.

Quindi nel gennaio 2002, quando l’euro entra in circolo, abbiamo la Bce con i tassi al 3,25% e la Fed poco sotto il 2%. Oggi sembrano tassi assurdi, ma a quei tempi erano già considerati molto bassi.

Ricordo che la Fed tenne i tassi all’1% per quasi un anno, per poi iniziare gradualmente a innalzarli nella seconda metà del 2004, mentre la Bce li tenne a 2% fino al dicembre del 2005, quando iniziò a farli risalire, anche stavolta per la probabile simpatia coi tassi americani, che intanto si avviavano verso il 6,25% raggiunto nei primi mesi del 2006, dove rimasero fino alla metà del 2007, quando iniziò a scricchiolare l’economia dei subprime.

La Bce intanto era arrivata al 4% a giugno del 2007 e li innalzerà ancora al 4,25, dove rimarranno fino all’0ttobre 2008, a crisi non solo conclamata ma già fonte di grandi disastri.

Nel frattempo la Fed si avviava verso lo 0-0,25, che fisserà da dicembre 2008 e da dove non si muoverà più, mentre la Bce, dopo aver rapidamente ridotto il tasso all’1% fra l’ottobre 2008 e il maggio 2009, riusciva persino a rialzarlo all’1,5% nel luglio 2011, a crisi del debito sovrano ormai consumata. Da lì è partita la serie di ribassi che ha portato i tassi Bce al livello di quelli Usa a settembre 2014.

Questa mole di dati diventa interessante se la si legge in controluce con l’incremento dell’indebitamento nello stesso periodo. I valori assoluti parlano da soli: nel 2000 la somma totale dei debiti di Usa, Giappone, Euro area, Cina e altri paesi emergenti era intorno al 50 trilioni di dollari. Nel 2013 aveva superato di parecchio i 125 trilioni, in crescita costante malgrado la crisi. O forse proprio per questo.

Ma gli anni magici sono stati i primi del 2000. Fra il 2002 e il 2003 il totale dei debiti ha già raggiunto i 75 trilioni, e nel 2007 ha superato i 100. In un settennio la quota tale di debiti, pubblici e privati, è più che raddoppiata.

Il grafico mostra con chiarezza che tale aumento di debiti ha riguardato tutti, a cominciare ovviamente dagli Usa. Ma nell’eurozona l’aumento di debiti è addirittura esplosivo, così come è accaduto negli emergenti, Cina in testa. Evidentemente l’euro ha favorito la creazione di credito nell’area. Ha agito da moltiplicatore della fiducia.

A tal proposito l’autore del paper rileva il ruolo trainante della finanza, ossia dell’intermediazione creditizia, nella creazione delle bolle. Nell’industria manifatturiera, spiega, l’output è limitato dalla quantità fisica disponibile dell’input. Al contrario, l’attività finanziaria ha come limite il cielo, e anche oltre, vista la teorica infinita possibilità degli intermediari a concedere credito, e quindi creare moneta, anche in mancanza dell’input . “Le banche non hanno bisogno di denaro in cassa per estendere il credito”, sottolinea. E tanto più se la politica monetaria assume un’aria accomodante. Come è accaduto negli Stati Uniti per prevenire il bust post internet. E più tardi in Europa.

Sul come, sul quando e sul chi, insomma, ci sono pochi dubbi. La generosità americana ha scaricato sul mondo una quantità di risorse tale da far più che raddoppiare, per il meccanismo cieco della fiducia, la quota di crediti (e quindi di debiti) in giro per il mondo. L’euroentusiasmo li ha moltiplicati. Quegli anni, molti lo ricorderanno, sembrava che il sole della crescita non sarebbe mai tramontato.

L’euro, in tal senso, è stato un facilitatore e un moltiplicatore. Ha favorito il diffondersi della bolla creditizia globale nella zona euro, eliminando il rischio cambio, che poi si è trasferita sugli asset, a cominciare dai mercati immobiliari. E ha funzionato all’opposto quando la fiducia è crollata.

L’entusiasmo, infatti, preparava il declino. I tassi bassi hanno favorito il frenetico scambio di capitali fra paesi core e periferici nell’eurozona che, successivamente, ha messo in crisi i debiti sovrani, visto che gli stati hanno dovuto aprire il portafoglio per assorbire enormi perdite del settore privato. E il grafico che misura l’andamento del debito nel settore pubblico, in decisa espansione dal 2010 in poi, lo visualizza con chiarezza.

Rimane da capire cosa succederà se mai si andasse verso la normalizzazione della politica monetaria. Quando, vale a dire, lo sboom creditizio diverrà sistemico.

Ma intanto godiamoci il QE.

Le banche centrali fanno aumentare la disuguaglianza


Poiché la disuguaglianza è tornata di moda, forse perché aumenta, molti ne scrivono e ancor di più si interrogano sul perché e sul percome tale sgradevole controindicazione continui ad abitare il meraviglioso mondo magico che ci ostiniamo a credere sia, o dovrebbe essere, il nostro.

Nulla di strano che tale arrovellarsi finisca col coinvolgere anche i nostri banchieri centrali, ormai veri e propri virgilii nell’inferno della contemporaneità, che adesso si chiedono se, hai visto mai, la loro dissennata politica dei tassi a zero, e anzi negativi, non finisca per avere effetti redistribuitivi che sono del tutto esorbitanti rispetto ai compiti di una banca centrale. che dovrebbero limitarsi alla stabilità dei prezzi, come è il caso della Bce, o al più alla stabilità finanziaria e del mercato interno, come si spingono a fare la Fed e la Boj.

L’ultimo ad arrovellarsi sul tema Banche centrali&disuguaglianza è stato Yves Mersch, componente del board della Bce, ultima arrivata, ma non per questo meno espansiva, fra le banche centrali che hanno deciso/dovuto fare uno straordinario allentamento monetario per provare a rimettere in equilibrio le stanche economie dei loro paesi, pigre e deflazionarie come mai negli ultimi anni.

Il tema della disuguaglianza si collega proprio a questo. O meglio alla risposta alla domanda se la politica monetaria abbia o no effetti redistributivi. La qualcosa parrà quantomeno astrusa a quelli come noi, che usano il buon senso del padre di famiglia, mentre è di primissimo interesse per i nostri banchieri centrali che, sbirciando fuori dalla loro torre eburnea si accorgono adesso che effettivamente mettere i tassi in territorio negativo, far gonfiare i prezzi degli asset e compagnia cantante, è molto probabile interferisca sulla distribuzione della ricchezza.

Ma per comprendere il punto di vista di Mersch bisogna provare a mettersi nei panni di un banchiere centrale. “Finora – spiega – il tema della disuguaglianza non ha fatto parte dell’analisi della politiche monetaria. Ma questo può cambiare”.

E le ragioni son presto dette. “L’aumento della disuguaglianza ha impatto sulla stabilità finanziaria”, sottolinea, e alcune evidenze fattuali mostrano come sia possibile un collegamento fra disuguaglianza e crisi finanziarie. Ma soprattutto, Mersch riconosce l’evidenza che agire sui tassi di interesse ha di per sé effetti redistributivi.

Abbassare i tassi può essere un vantaggio per i debitori, che pagano meno interessi, ma altrettanto per i creditori, che vedono salire i prezzi degli asset. Costoro d’altronde, se hanno investito in asset “sicuri” quanto possono esserlo oggi gli asset, ad esempio depositi od obbligazioni, rischiano di essere penalizzati da una politica di tassi bassi, esattamente come può succedere ai debitori, specie quelli che appartengono alla fascia più povera della popolazione, che magari a causa delle frizioni economiche che rendono necessaria tale politica, perdono il lavoro.

Uno studio del Nber di qualche anno ricordato da Mersch fa individua almeno cinque canali attraverso i quali la politica monetaria impatta sulla distribuzione del reddito. Una politica monetaria espansiva che faccia salire i profitti più dei salari, ad esempio, avvantaggia quelle persone che ricevono i loro guadagni dagli affari o dalla finanza, che evidentemente sono già i più ricchi della popolazione e che perciò lo diventano ancor di più.

Al tempo stesso tale politica avvantaggia i cittadini più a loro agio con i mercati finanziari, che, incidentalmente, sono sempre i più ricchi. Inoltre, poiché i cittadini a più basso reddito hanno generalmente la tendenza a accumulare la poca liquidità che hanno, magari tendendola in banca, i potenziali effetti inflazionistici originati dall’azione delle banche centrali rischiano di tradursi in un effettivo trasferimento di ricchezza da loro ai più ricchi. Senza contare che una politica di tassi bassi colpirà anche il rendimento dei loro conti correnti.

Tali assunzioni teoriche hanno trovato una prima conferma sperimentale stimando gli effetti della politica monetaria sulla redistribuzione negli Usa a partire dal 1980. L’analisi ha mostrato una certa sensitività della disuguaglianza alle politiche a tasso zero che, addirittura, hanno effetti simili, quando l’economia richiederebbe tassi negativi, a quando si adottino politiche restrittive.

Un rapporto del McKinsey global institute di un anno fa ha stimato che l’ambiente di tassi bassi nelle principali economia globali (Usa, Uk e EZ) ha determinato minori incassi per 630 miliardi per i depositanti e gli obbligazionisti. A tali perdite, corrispondono evidenti guadagni per le banche, che su tali conti correnti hanno risparmiato, e per chi emette obbligazioni, stati in testa. Ma tali perdite, avvisa Mersch, possono essere annullate dall’aumento del prezzo degli asset che la politica monetaria porta con sé.

Un altro studio di James Bullard, presidente della Fed di San Louis, è arrivato alla conclusione che la politica di quantitative easing della Fed ha depresso i rendimento degli asset sicuri, spingendo quindi i cittadini verso gli asset più rischiosi, ossia tutto il contrario della stabilità finanziaria che pure le banche centrali dovrebbero monitorare. E poiché le azioni sono possedute soltanto da metà della popolazione, e sono concentrate fra i più ricchi, il QE ha finito col migliorare la loro posizione relativa.

Se guardiamo al Giappone, che da un ventennio prova a uscire dalla deflazione pompando liquidità nel sistema finanziario, quello che se ne trae è un’altra conferma. Una ricerca di Ayako Saiki e Jon Frost alla De Nederlandsche Bank ha evidenziato come queste politiche non convenzionali siano servite allo scopo di far ripartire l’economia, ma al prezzo però di un più elevata disuguaglianza tramite il cosiddetto “canale di portafoglio”, ossia il meccanismo che abbiamo visto agisce quando l’aumento della base monetaria tende ad aumentare il valore degli asset. I soldi fanno soldi, dicevano gli antichi. Con l’avvertenza che tali effetti potrebbero essere ancora più grandi in Europa, Usa e Gran Bretagna, dove le famiglie hanno attivi di portafoglio in azioni e bond anche maggiori rispetto al Giappone.

A proposito. Nell’eurozona la Bce ha messo in piedi una database con i dati di 62.000 famiglie di 15 paesi. Le prime analisi mostrano che fra il 2008 e il 2013 le famiglie a maggior reddito sono quelle che hanno sofferto le maggiori perdite di ricchezza, ma al tempo stesso le famiglie più povere sono state penalizzate dal notevole aumento della disoccupazione, che ha abbattuto anche indirettamente i loro redditi. Insomma; se i ricchi perdono capitale, ma i poveri il lavoro, il risultato finale è comunque un aumento della disuguaglianza, atteso che è più facile recuperare una perdita sulle azioni, tramite il canale del portafoglio, piuttosto che ritrovare un lavoro.

La disarmante conclusione di Mersch è che le banche centrali devono essere consapevoli che provocano conseguenze distributive con le loro politiche monetarie che, di recente, hanno sortito come conseguenza l’aver fatto aumentare la diseguaglianza, anche se lui dice che questa conclusione “non ha ancora una chiara evidenza”. “Tuttavia – aggiunge – le politiche non convenzionali, e in particolare il largo acquisto di asset, sembrano aumentare la diseguaglianza, anche se è difficile stabilire in che quantità”. Questa “controindicazione distributiva deve essere tollerata”, aggiunge, “ma chiaramente non deve durare e questa deve essere un’altra ragione per riconoscere che queste misure di politica monetaria non standard devono essere temporanee”.

Insomma; le banche centrali stanno contribuendo all’aumento della disuglianza, ma vorrebbero tanto non farlo.

Notoriamente, di buone intenzioni è lastricato l’inferno.