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Alle origini della globalizzazione. La spinta degli arbitraggi
Fatta la legge, trovato l’arbitraggio, si potrebbe dire adattando il vecchio detto al mondo effimero – e tuttavia dannatamente concreto – della finanza. Proprio il desiderio di lucrare sulle differenze fra i vari regimi regolatori infatti – quindi fare arbitraggi – si è rivelato nei sette decenni di storia censita dalla Bis un potente incentivo per la crescita dei prestiti bancari internazionali.
Non è difficile capirne la ragione. La sete di profitto è un movente mercuriale che come tale si adatta in tempo reale alle costrizioni ambientali che i governi impongono pensando di poterlo canalizzare in percorsi controllabili e prevedibili. Una tendenza che alla prova dei fatti si rivela una pia illusione. Meglio ancora: il governo può sicuramente provare a regolarla, ma non riuscirà mai a impedire che la sete di profitto sfoghi in maniera imprevista le sue necessità.
Questo balletto, che ritma la storia, dovrebbe ricordare ai fautori dell’onnipotenza statale che non esiste regolazione che non si possa aggirare. E questo, lungi dal voler essere un incentivo ad abbandonare il concetto di regolazione, è semmai la prova di quanto sia necessario, pur nella consapevolezza che mai sarà sufficiente. Il capitalismo internazionale prospera esattamente perché è regolato e proprio perché tenta di sfuggire a queste regole.
Questa conclusione stupirà le tribù stataliste così come quelle liberali, ma non certo chi osserva da vicino i processi finanziari. E’ del tutto ovvio che il mondo si disegni contemperando esigenze spesso contrapposte, come quella dei governi di frenare e quella dei capitalisti di accelerare. Perciò è sicuramente istruttivo dare un’occhiata alla storia per vedere come nel corso degli anni questi movimenti e contro-movimenti abbiamo costruito quella globalizzazione finanziaria che è il presupposto della nostra contemporaneità.
“Fin dall’inizio – scrive la Bis -, l’attività bancaria offshore ha attratto business consentendo di evitare alcune normative applicate alle banche nazionali”. E non ci sarebbe altro da aggiungere.
Vale la pena, però, approfondire. Quando parliamo di regolazione di solito ci riferiamo a normative come quella sui massimali sui tassi di deposito, sui requisiti di riserva per le banche oppure sui premi assicurativi sui depositi. Fare arbitraggio significa comportarsi come quella banca britannica che nel lontano 1955 garantì ai depositi in dollari un premio rispetto ai massimali all’epoca presenti negli Usa. In tal modo fu incoraggiata la costituzione di depositi in dollari a Londra. Sicché quando undici anni dopo gli Usa fissarono il tasso di deposito, “le grandi banche statunitensi si sono rivolte ai loro uffici di Londra per sostituire i depositi nazionali persi”. Fatta la legge, trovato l’arbitraggio, appunto.
Queste opportunità consentirono in breve tempo la creazione dei depositi offshore in dollari a cui si rivolsero non solo le banche centrali, ma anche le multinazionali. A partire dagli anni ’70 questa opportunità si estese anche ai fondi monetari statunitensi, che raccoglievano risparmio dalle famiglie e dalle imprese. Insomma: la globalizzazione finanziaria era iniziata molto prima che i flussi di capitale venissero liberalizzati.

Anzi, la liberalizzazione, paradossalmente, ha ridotto le opportunità di arbitraggio. Ma una volta intervenuta ha stimolato direttamente quello che la regolazione provocava per vie traverse, ossia il movimento dei capitali internazionali. Per dirla con le parole della Bis, “la liberalizzazione finanziaria ha comportato un graduale spostamento della composizione del sistema bancario internazionale lontano dal mercato offshore”.
I dati infatti mostrano che il segmento offshore di questo mercato è passato dal 70% degli anni ’70 al 40% del 2021, con ciò dimostrando la fallacia della narrazione che va per la maggiore. Ossia quella per la quale la liberalizzazione dei capitali degli anni ’80 ha provocato il trionfo del turbo-liberismo pagato dalle classi medie con la notevole erosione del potere d’acquisto, la diseguaglianza, eccetera eccetera, nonché l’instabilità cronica del nostro sistema finanziario. I capitali circolavano abbondantemente anche prima degli anni ’80. Solo che non si poteva dire.
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Puntata precedente: Alle origini della globalizzazione: Il boom dei prestiti internazionali
Il dilemma bancario fra azionisti e mercato
Un grafico molto istruttivo, pubblicato all’interno di uno speech recente del direttore generale della Bis Jaime Caruana (“What are capital markets telling us about the banking sector? “) rivela in tutta la sua chiarezza il notevole dilemma di fronte al quale si trovano di fronte le banche di tutto il mondo ai giorni nostri, ossia tempi di economia pigra e tassi di interesse rasoterra. Le banche, in sostanza, devono decidere se far contenti gli azionisti, pagando loro dividendi rispettabili, o il mercato al quale ogni giorno devono rivolgersi per trovare finanziamenti. Nel dubbio, rischiano di scontentare gli uni e l’altro.
L’immagine di questo dilemma è rappresentata dalla specularità che esiste fra i valori azionari delle banche di tutto il mondo, che rimane molto basso, e in particolare per le banche europee, e il livello percentuale dei dividendi che di conseguenza gli azionisti hanno spuntato. La qualcosa è perfettamente logica. Se le mie azioni valgono 100 e la banca mi paga 5, il mio rendimento sarà il 5%. Se le mie azioni valgono 200 e la banca mi paga sempre 5, il mio rendimento sarà il 2,5%. Se quindi una banca continua a pagarmi 5 anche se il valore del capitale si è dimezzato da 200 a 100, vuol dire che l’azionista può almeno compensare la perdita (teorica) del capitale subita a causa del ribasso azionario con un più che dignitoso rendimento del suo investimento. E’ evidente che in tempi di magra, le banche sono più che motivate a tenersi stretti gli azionisti continuando a pagare dividendi regolari.
La cronaca dimostra questa evidenza. “I dividendi delle banche maggiori – sottolinea Caruana – sono vicini o superiori al 5%. Sono anche più alti per banche che continuano a pagare dividendi anche se i loro market-to-book ratio sono molto sotto uno“. Se l’indice prezzo/libro è inferiore a uno significa che le valutazioni di mercato delle azioni sono inferiori al loro valore di libro deducibile dal bilancio. Il titolo quindi è depresso, vuoi perché il mercato non ha fiducia nella capacità di reddito della banca, vuoi perché magari teme che abbia dei problemi. Pensate ad esempio a una banca con tante sofferenze.
Nel grafico proposto si vede con chiarezza che i valori di mercato delle banche europee, quotate sull’Euro Stoxx hanno un un indice prezzo/libro pari a 0,5. Al contempo hanno garantito un rendimento medio del 5% che “in questo ambiente corrente di tassi bassi è attrattivo”, ma al tempo stesso fonte di grave dilemma: “Le banche pagano i dividendi per placare i propri investitori, ma questi pagamenti possono erodere la loro posizione di capitale”.
Questo dilemma si può anche leggere al contrario. Un investitore potenziale può comprare azioni di una banca con un basso indice prezzo/libro proprio per garantirsi dividendi elevati. Alla lunga, tuttavia, questo flusso di dividendi rischia di erodere il capitale e quindi creare problemi sempre più complessi alla banca che finiscono con lo spaventare il mercato. Chi incassa oggi un dividendo domani potrebbe essere chiamato a restituirlo nel modo peggiore: perdendo il capitale.
Non a caso adesso nell’EZ è arrivato il bail in.
La fragile calma dei mercati internazionali
Dovremmo, come suggerisce il buon senso, rimanere vigili, di fronte all’ennesimo allerta diffuso dalla Bis nella sua quaterly review di dicembre, o dovremmo semplicemente goderci la festa finché dura?
Che poi la festa altro non è che una calma fragile, come l’hanno opportunamente definita gli studiosi di Basilea. Cela profonde perturbazioni che si manifestano in esplosioni di volatilità rapide ed improvvise, che poi rientrano lasciando gli investitori sconcertati.
Una calma, di conseguenza, fragile anch’essa, come i mercati. Esposta ai colpi di vento che un sopracciglio alzato, di questa o quella banca centrale, scatena in un battibaleno facendo vibrare i cuori di mezzo mondo, come è accaduto anche di recente dopo le ultime decisioni della Bce.
Ma poi i cuori si placano. La volatilità rientra e il battito dei mercati torna regolare. Ciò non vuol dire che l’ansia sia diminuita. ” I mercati finanziari hanno fatto una breve pausa. E hanno aspettato. Hanno aspettato con il fiato sospeso”, come nota Claudio Borio, capo del dipartimento monetario della Bis commentando le cronache dell’ultimo trimestre. L’attesa cui Borio fa riferimento è quella che accompagna l’indecisione della Fed, che ormai sembra vicina a rialzare i tassi, esacerbando le divergenza monetaria con le altre banche centrali dei paesi avanzati che sembra fatta apposta per alimentare, domani, nuovi batticuore, sempre più violenti.
Anche perché, osserva ancora Borio, “dietro la calma ostentata dai mercati si scorgevano segnali di disagio. Ancora una volta è stato evidente il contrasto perenne fra il ritmo frenetico dei mercati e quello al rallentatore delle forze economiche più profonde, quelle che contano davvero”.
E le forze che contano davvero ci descrivono un mondo dove “le prospettive di breve periodo delle economie emergenti (EME)”, ossia delle economia che sono più a rischio in questa fase tormentata, “sono rimaste pressoché invariate” e dove “i prezzi delle materie prime, compresi petrolio, rame e minerali ferrosi, sono precipitati a nuovi minimi“, aggiungendo tali ribassi complessità proprio alle economie emergenti che dalle commodity traggono buona parte del loro sostentamento.
Se dal breve periodo guardiamo al medio, scopriamo che anche qui “le prospettive non sono cambiate – e come avrebbero potuto? Le vulnerabilità finanziarie nelle EME, in particolare, non sono venute meno. Lo stock di debito denominato in dollari, che dagli inizi del 2009 è quasi raddoppiato a più di 3.000 miliardi di dollari, non è diminuito. Anzi, in termini di moneta nazionale il suo valore è addirittura aumentato parallelamente all’apprezzamento del dollaro USA, andando a gravare sulle condizioni finanziarie e sui bilanci”. Tantomeno è diminuito lo stock di debito interno “cresciuto a dismisura dopo la crisi”.
Tali cambiamenti profondi si stanno incistando anche nei mercati a reddito fisso. “Sorprende ad esempio che, nonostante il più elevato rischio di credito che incorporano, negli Stati Uniti i tassi swap siano risultati persino inferiori ai corrispondenti tassi dei titoli del Tesoro”, ravvisandosi con ciò un “sintomo di debolezze più profonde”. A cominciare da quelle bancarie. “Le azioni bancarie vengono ancora scambiate a sconto rispetto al valore nominale – sottolinea – un chiaro segnale di mancanza di fiducia e di scetticismo. Nell’area dell’euro, in particolare, i crediti deteriorati sono eccessivamente alti. Occorrerebbe procedere risolutamente nel risanamento dei bilanci”. Che non è esattamente una cosa semplice.
Di tali problematiche profonde, la superficie dei mercati rilevata quotidianamente dalle varie borse, rivela solo sottili increspature che la volatilità trasforma in occasionali ondate di piena. Mentre, sullo sfondo, “i tassi di interesse hanno continuato a essere eccezionalmente bassi”: persino quando la Fed sembrava vicina a un rialzo, i rendimenti del decennale Usa oscillavano intorno al 2,2%, mentre nella zona euro, ormai quasi 2.000 miliardi di obbligazioni sovrane, circa un terzo del totale, vengono scambiati a tassi negativi. “I tassi di interesse correnti e attesi hanno proseguito giorno dopo giorno a mettere alla prova i confini dell’impensabile, e ciò malgrado il tono noncurante di buona parte degli osservatori. La familiarità ingenera compiacenza”.
Tale compiacenza, però, non è indice di buona salute, neanche mentale. ” Vi è una chiara tensione fra il comportamento dei mercati e le condizioni economiche di fondo – osserva ancora -. A un certo punto tale tensione dovrà risolversi. I mercati possono ostentare calma molto più a lungo di quanto pensiamo. Fino a quando, di colpo, non riusciranno più a farlo”.
E sarà allora che la fragile calma dei mercati metterà a dura prova la nostra.
La bolla dell’euro
La domanda mi sorge mentre guardo un grafico, contenuto in un paper della Bis (“Debt”), che fotografa l’andamento del debito, pubblico e privato, nel periodo 2000-13: se come dice qualcuno il credit boom di questo periodo ha avuto effetti evidenti sia nel settore privato che in quello pubblico, in Grecia come in Germania, per tacere del resto del mondo, cosa impedisce di ipotizzare che anche l’avvento dell’euro, ne sia stato una (in)diretta conseguenza?
Detto altrimenti: se il mondo non avesse conosciuto la bonanza creditizia del XXI secolo, ci saremmo potuti permettere l’eurozona?
Ad alcuni questa domanda parrà oziosa, ma solo perché magari trascurano di dedurne alcune conseguenze.
Se l’euro è la madre di tutte le bolle che l’eurozona ha conosciuto nei primi anni dieci del XXI secolo, infatti, capire cosa l’abbia innescata significa anche comprendere cosa succederebbe se tale innesco un giorno dovesse venire a mancare.
Alcuni studiosi hanno individuato nella politica monetaria americana d’inizio secolo l’autentico peccato monetario del nostro tempo. Per reagire alla crisi di internet, la Fed abbatté i tassi così innescò, a livello globale, un generale sommovimento dei tassi al ribasso.
Vado a ripescarmi i dati, che riporto qui per vostra comodità di lettura.
All’inizio del 1999 il Fed funds era al 4,75% mentre il tasso Bce (l’euro c’era già anche se ancora non circolava) era al 3%. I tassi americani arrivano alla rispettabile quota del 6.5%, oggi inimmaginabile, un anno dopo. Vediamo la Bce adeguarsi quasi in parallelo, con il tasso che arriva al 4,75% poco dopo l’arrivo a quota 6,5% di quello Fed. Se certo questo non basta a ipotizzare una correlazione, si potrebbe dire che fra i due tassi c’era una certa simpatia.
Alla fine del 2000, quando la bolla internet comincia a deflagrare, la Fed inizia una rapida politica di tagli al Fed funds, che nel corso del 2001 viene portato intorno al 2%, da dove proseguirà il suo calo lungo tutto il 2002 fino al minimo dell’1% raggiunto nei primi mesi del 2003.
La Bce guarda attonita La simpatia si trasforma in imbarazzo, che sospende il giudizio dei nostri banchieri centrali per buona parte del 2000 e del 2001, quando il tasso rimane inchiodato al 4,75%. Solo a maggio del 2001 il tasso viene ribassato di appena 25 punti base. Il primo di una serie di mini ribassi, che porterà il tasso Bce al 3,25% a novembre. Il ciclo dei ribassi Bce si conclude a giugno 2003, quando il tasso raggiunge il 2% e lì rimane fermo fino al dicembre 2005.
Quindi nel gennaio 2002, quando l’euro entra in circolo, abbiamo la Bce con i tassi al 3,25% e la Fed poco sotto il 2%. Oggi sembrano tassi assurdi, ma a quei tempi erano già considerati molto bassi.
Ricordo che la Fed tenne i tassi all’1% per quasi un anno, per poi iniziare gradualmente a innalzarli nella seconda metà del 2004, mentre la Bce li tenne a 2% fino al dicembre del 2005, quando iniziò a farli risalire, anche stavolta per la probabile simpatia coi tassi americani, che intanto si avviavano verso il 6,25% raggiunto nei primi mesi del 2006, dove rimasero fino alla metà del 2007, quando iniziò a scricchiolare l’economia dei subprime.
La Bce intanto era arrivata al 4% a giugno del 2007 e li innalzerà ancora al 4,25, dove rimarranno fino all’0ttobre 2008, a crisi non solo conclamata ma già fonte di grandi disastri.
Nel frattempo la Fed si avviava verso lo 0-0,25, che fisserà da dicembre 2008 e da dove non si muoverà più, mentre la Bce, dopo aver rapidamente ridotto il tasso all’1% fra l’ottobre 2008 e il maggio 2009, riusciva persino a rialzarlo all’1,5% nel luglio 2011, a crisi del debito sovrano ormai consumata. Da lì è partita la serie di ribassi che ha portato i tassi Bce al livello di quelli Usa a settembre 2014.
Questa mole di dati diventa interessante se la si legge in controluce con l’incremento dell’indebitamento nello stesso periodo. I valori assoluti parlano da soli: nel 2000 la somma totale dei debiti di Usa, Giappone, Euro area, Cina e altri paesi emergenti era intorno al 50 trilioni di dollari. Nel 2013 aveva superato di parecchio i 125 trilioni, in crescita costante malgrado la crisi. O forse proprio per questo.
Ma gli anni magici sono stati i primi del 2000. Fra il 2002 e il 2003 il totale dei debiti ha già raggiunto i 75 trilioni, e nel 2007 ha superato i 100. In un settennio la quota tale di debiti, pubblici e privati, è più che raddoppiata.
Il grafico mostra con chiarezza che tale aumento di debiti ha riguardato tutti, a cominciare ovviamente dagli Usa. Ma nell’eurozona l’aumento di debiti è addirittura esplosivo, così come è accaduto negli emergenti, Cina in testa. Evidentemente l’euro ha favorito la creazione di credito nell’area. Ha agito da moltiplicatore della fiducia.
A tal proposito l’autore del paper rileva il ruolo trainante della finanza, ossia dell’intermediazione creditizia, nella creazione delle bolle. Nell’industria manifatturiera, spiega, l’output è limitato dalla quantità fisica disponibile dell’input. Al contrario, l’attività finanziaria ha come limite il cielo, e anche oltre, vista la teorica infinita possibilità degli intermediari a concedere credito, e quindi creare moneta, anche in mancanza dell’input . “Le banche non hanno bisogno di denaro in cassa per estendere il credito”, sottolinea. E tanto più se la politica monetaria assume un’aria accomodante. Come è accaduto negli Stati Uniti per prevenire il bust post internet. E più tardi in Europa.
Sul come, sul quando e sul chi, insomma, ci sono pochi dubbi. La generosità americana ha scaricato sul mondo una quantità di risorse tale da far più che raddoppiare, per il meccanismo cieco della fiducia, la quota di crediti (e quindi di debiti) in giro per il mondo. L’euroentusiasmo li ha moltiplicati. Quegli anni, molti lo ricorderanno, sembrava che il sole della crescita non sarebbe mai tramontato.
L’euro, in tal senso, è stato un facilitatore e un moltiplicatore. Ha favorito il diffondersi della bolla creditizia globale nella zona euro, eliminando il rischio cambio, che poi si è trasferita sugli asset, a cominciare dai mercati immobiliari. E ha funzionato all’opposto quando la fiducia è crollata.
L’entusiasmo, infatti, preparava il declino. I tassi bassi hanno favorito il frenetico scambio di capitali fra paesi core e periferici nell’eurozona che, successivamente, ha messo in crisi i debiti sovrani, visto che gli stati hanno dovuto aprire il portafoglio per assorbire enormi perdite del settore privato. E il grafico che misura l’andamento del debito nel settore pubblico, in decisa espansione dal 2010 in poi, lo visualizza con chiarezza.
Rimane da capire cosa succederà se mai si andasse verso la normalizzazione della politica monetaria. Quando, vale a dire, lo sboom creditizio diverrà sistemico.
Ma intanto godiamoci il QE.
Le banche spagnole ballano la samba
Il segreto di Pulcinella meglio custodito, ma in quanto tale noto a tutti, sulle banche spagnole è che sono ballerine. E non tanto perché sono state al centro di un salvataggio europeo, con alcune decine di miliardi di euro elargiti dal fondo Esm e ciò malgrado siano ancora piene di problemi. Ma perché conservano una pesante esposizione verso i paesi emergenti dell’America Latina, a cominciare dal Brasile.
Ballerine di samba, perciò. Ma anche amanti dei nachos, visto che dopo il Brasile nella classifica dei rischi esteri viene il Messico.
Le ultime statistiche consolidate rilasciate pochi giorni fa dalla Bis, relative all’ultimo trimestre 2013, totalizzano l’esposizione delle banche spagnole verso i paesi latino-caraibici a quota 488 miliardi di dollati, quasi un terzo del totale degli oltre 1.500 miliardi di esposizione estera.
Di questa montagna di denaro, il Brasile assorbiva 161 miliardi a fine 2013, in calo rispetto al picco di 2010 miliardi toccato nel 2011, e, a seguire il Messico, con altri 159 miliardi. A grande distanza segue il Cile, con circa 67 miliardi e poi il Perù con 22.
Ma poiché è il totale che fa la somma, come direbbe Totò, quello che risulta chiaro scrutando tali statistiche è che la Spagna, per evidenti ragioni storico-culturali, è pesantemente esposta verso un’area geografica che sta vivendo grandi turbolenze provocate dai timori degli irrigidimenti della politica monetaria americana.
Il dato interessante che si può osservare andando a ritroso è che tale esposizione è considerevolmente aumentata durante la crisi. Basta notare che nel 2007 (primo trimestre) superava di poco i 250 miliardi. E con l’avvento della crisi è aumentata. Le banche spagnole, insomma, hanno provato a lucrare rendimenti investendo sui paesi emergenti (come hanno fatto tutti in realtà) mentre all’interno sempre le stesse banche rischiavano il crack a causa della pesante esposizione al settore immobiliare, che ha condotto al salvataggio europeo.
Se andiamo ancora più indietro scopriamo che nel 2000 l’esposizione estera delle banche spagnoe verso quest’area era appena a 98 miliardi. E questo spiega di ogni altro commento cosa siano stati i primi dieci anni del XXI secolo.
La ricerca del rendimento, tuttavia, adesso rischia di far rientrare dalla finestra la crisi bancaria che, faticosamente, la Spagna ha per adesso scongiurato grazie ai soldi dell’Esm e al prezzo di una devastante correzione fiscale e della posizione estera che ha distrutto la domanda interna e portato la disoccupazione al 27%. Anche perché le previsioni per le economie emergenti non sono delle migliori.
Nella sua ultima relazione annuale la Banca d’Italia, pur notando che la crescita del Pil in Brasile è stata robusta nel 2013, non può fare a meno di notare la panoplia di criticità di fronte alle quale si trova l’economia brasiliana. Il settore esterno, che poi è quello che nei primi anni del 2000 ha fatto gridare al miracolo brasiliano, ha contribuito negativamente alla crescita con un -0.9%, al contrario di quanto ha fatto la domanda interna, cresciuta soprattutto grazie all’aumento dei salari reali, con un’inflazione al consumo che ha raggiunto il 5,9% a fine 2013.
Tutto ciò si è ripercosso sulla posizione fiscale, che si è deteriorata. Il deficit sul Pil è arrivato al 3,3%, l’avanzo primario si è ridotto all’1,9% e il debito è arrivato al 66,3%. tutti elementi che hanno indotto S&P ad abbassare il rating, mentre a febbraio 2014 il governo decideva di tagliare 14 miliardi al bilancio pubblico per evitare ulteriori abbassamenti dell’avanzo primario.
Come se ciò non bastasse, è arrivata la tegola del tapering americano, che a maggio 2013, dopo le esternazioni di Bernanke, ha terremotato il real brasiliano, già affaticato da un saldo di conto corrente negativo per il 3,6% del Pil (era il -2,4 nel 2012).
Son partiti i deflussi di capitale, persino dalla Spagna, che dai 181 miliardi di inizio 2013 è passata bruscamente ai poco più di 160 del terzo trimestre. Alta inflazione e grandi deflussi hanno costretto la banca centrale a stringere i cordoni della borsa.
La conseguenza è che i tassi sono schizzati alle stelle. Il Selic, che ad aprile 2013 era al 7,25%, è stato rialzato nove volte di fila, arrivando all’11% del 2014. E le prospettive di crescita del paese adesso sono decisamente orientate al ribasso.
Questo pattern, pure se con le dovute differenza, si è visto anche in Messico che come il Brasile e tante altre economie emergenti ha aumentato i suoi debiti, spesso emettendo bond sui mercati internazionali, e ha sofferto svalutazione, inflazione e saldo di conto corrente negativo. L’intera area, infatti, ha visto peggiorare significativamente la sua posizione estera. I saldi dei conti correnti di tutti i paesi sono peggiorati e il debito estero pure. Il Brasile ormai sfiora il 14% del Pil (era il 12% nel 2011), il Messico ha superato il 20%, il Cile ha superato il 47%, la Colombia il 24% e il Perù il 29%.
Che l’America Latina impensierisca non poco la Spagna si deduce agevolmente anche sfogliando l’ultimo report della banca centrale spagnola proprio su queste economie, e notando che tale reportistica sia ormai consuetudine del regolatore spagnolo.
Nell’ultimo disponibile, che analizza lo stato dell’arte nella prima metà del 2014, leggo che “i rischi per l’America Latina sembrano dipendere più dal mutamento delle condizioni monetarie internazionali che dal rallentamento dell’economia cinese”. La Banca di Spagna nota preoccupata il rallentamento dell’area latina cominciato già nel 2012, in Argentina e Brasile, per poi estendersi, nel corso del 2013, in Messico, Cile e persino Colombia e Perù. E l’outlook per il 2014 è stato ancora rivisto al ribasso.
E proprio al Brasile la banca di Spagna ha dedicato un approfondimento, notando in conclusione che se è vero che l’economia brasiliana ha delle fragilità (il credito al settore privato è crescito del 21% l’anno fra il 2004 e il 2013), ha pure dei buffer che potrebbero funzionare da salvagente anche se pare ormai evidente che quest’economia gigantesca abbisogni di profonde riforme per non finire in stallo.
E per fare le riforme serve tempo. Risorsa, questa sì, scarsissima.
In un contesto così complesso, con gli Stati Uniti pronti a premere il freno monetario alzando i tassi già dall’anno prossimo, è più che comprensibile che la banca centrale spagnola guardi all’America Latina come a una possibile fonte di contagio e di instabilità per il sistema bancario domestico, peraltro ancora tutt’altro che risanato, e di conseguenza per tutta l’Europa. Il rischio importato dagli emergenti latini, in sostanza, è diventato assai sostanzioso e non riguarda solo la Spagna, ma tutti noi.
L’ultimo post programma surveillance della commissione Ue sulla Spagna, rilasciato nel maggio scorso, nota che nel 2013 il settore bancario è tornato a far utili, ma la profittabilità rimane ancora bassa, con una quota di crediti non performing (NPLs) ancora inchiodata al 13,4% a febbraio. “Inoltre – aggiunge – un rallentamento nei mercati emergenti, in particolare in alcuni paesi latino-americani, potrebbe indebolire la redditività di alcune banche”, per non parlare dei rischi di aprire vere e proprie voragini.
Il segreto di Pulcinella, appunto.
Le banche europee di fronte allo stress test (russo)
Come sempre molto istruttiva, la lettura dell’ultimo International banking statistics della Bis, (l’italiana Bri, Banca dei regolamenti internazionali) relativo a dicembre 2013, ci racconta alcune cose che aiutano a focalizzare bene il momento che stiamo vivendo.
Potremmo sintetizzare così: da una parte abbiamo l’eurozona, dove il mercato dei prestiti continua a franare, al contrario di quanto accade per quello Usa e quello giapponese.
Dall’altra abbiamo i paesi emergenti, che vedono crescere la quota di prestiti a loro destinati, ma non tutti. La Cina, nella versione di grande accaparratrice, fa la parte del leone, mentre la Russia, ancora prima della crisi ucraina, continua a sperimentare deflussi che fanno scricchiolare l’impianto della sua contabilità economica, con importanti ripercussioni sempre sull’eurozona, che della Russia è stata ed è tuttora ampia finanziatrice.
Il combinato disposto è evidente: il mondo bancario europeo sta vivendo tuttora una situazione di grande stress, a cui si aggiungeranno anche gli stress test previsti dal percorso di Unione Bancaria. Tutto ciò non può che avere effetti sulla concessione di credito. E spiega bene perché, in un contesto quantomeno disinflazionario, la Bce stia valutando tutte le opzioni possibili per far arrivare soldi all’economia reale.
I dati parlano chiaro. I flussi transfrontalieri di prestiti registrano, fra settembre e dicembre del 2013, un calo di 93 miliardi, pari a un -0,3% sul totale. Rimarchevole la circostanza che tali flussi siano diminuiti nei confronti delle entità non bancarie per il settimo trimestre consecutivo, anche se a un passo meno sostenuto del passato.
Ma ancora di più salta all’occhio il calo di flussi dei prestiti denominati in euro, calati nel trimestre di 325 miliardi, pari al 3,3%. Al contrario, i prestiti denominati in dollari e in yen sono aumentati di 49 miliardi (+0,4%) e di 62 miliardi (+5,3%).
Sono aumentati i prestiti alle economie emergenti, cresciuti nel trimestre di 95 miliardi (+2,7%), per lo più concentrati in Asia, e in particolare in Cina, che ha assorbito 85 miliardi (+11% rispetto a settembre).
Se dal quadro generale scendiamo nel dettaglio, notiamo che il calo di 93 miliardi dei prestiti nell’ultimo trimestre è il settimo consecutivo registrato dalla Bis. E pure se ridotto rispetto al dato dei trimestri precedenti, quando si era registrata una diminuzione di 519 miliardi (-1,8%), porta il totale della contrazione da marzo 2012 a 2,3 trilioni di dollari, ossia -7,7%.
Ma scopriamo ancor di più se veniamo in profondità il dato dei prestiti denominati in euro. I 325 miliardi di calo dell’ultimo trimestre 2013 peggiorano un situazione di dimagrimento dei prestiti in euro che ormai va avanti dal 2008. Il dato aggregato ci dice che dal picco di marzo di quell’anno, quando i prestiti denominati in euro cumulavano 8,8 trilioni, la montagna di prestiti ha perso 1,8 trilioni, pari al 21%. Cosa più importante, “la contrazione nei prestiti transfrontalieri denominati in euro – nota la Bis – pesa per circa i due terzi sulla riduzione generale dello stock dei prestiti nello stesso periodo”, ossia dal marzo 2008 a dicembre 2013.
In sostanza, il credit crunch è stato un fatto eminentemente europeo. Con l’aggravante che la restrizione dei prestiti ha colpito pesantemente le banche europee, quindi il mercato interbancario europeo, diminuito di ben 1,2 trilioni su 1,8 totale, a fronte dei 360 miliardi in meno alle banche fuori dall’area. “Nel 2013 i prestiti in euro alle banche dell’area hanno continuato a declinare”.
Questa situazione si innesta in un contesto sempre più difficile per le economie emergenti, in particolare quelle che stanno vicino a noi.
Non è certo un caso che la Bis faccia un focus sulla situazione della Russia e dell’Ucraina.
Mentre infatti continuano i flussi di prestiti verso l’Asia (+7,3%), Cina in particolare, e proseguono, anche se al rallentatore quelli verso l’America Latina (+0,9%), si contraggono quelli verso i paesi emergenti dell’Europa, dell’Africa e del Medio Oriente (-1,7%).
“I prestiti nell’europa emergente hann continuato a diminuire nell’ultimo trimestre 2013. Gli sviluppi della regione sono stati dominati dalla notevole contrazione dei prestiti in Russia (11 miliardi in meno, -6,1% e i prestiti all’Ungheria (-3 miliardi, -6,8%)”.
Questo calo, nota la Bis, è antecedente alla crisi ucraina, e quindi non tiene conto dell’agitazione che ormai da mesi si sta concentrando sullo stato di salute dell’economia russa. Ricordo che a fine aprile la Banca centrale russa ha dovuto alzare i tassi a breve al 7,5%, mentre il cambio del rublo verso il dollaro continua a indebolirsi.
Ebbene, una febbre in Russia è capace di provocare più di un raffreddore agli azionisti di maggioranza dell’eurozona, sia direttamente che indirettamente.
I dati della Bis mostrano che a fine 2013 l’esposizione delle banche russe col resto del mondo ammontava a 242 miliardi di dollari (o 219 secondo il metodo di calcolo ultimate risk basis). La Francia, storicamente grande finanziatrice della Russia, è quella più esposta, con 49 miliardi, seguita però dagli Stati Uniti (32 miliardi) e dall’Italia (29 miliardi), una decina in più della Germania.
All’esposizione diretta della banche, osserva la Bis, bisogna anche aggiungere quella che dipende dall’esposizione in derivati o da garanzie offerte su contratti, che quotano 151 miliardi, la gran parte della quale (125 miliardi) rappresenta garanzie che coprono principalmente le passività potenziali dei venditori di protezione sui credit default swap (CDS) considerati a valori nozionali. Questa carta, più o meno tossica, di solito è in pancia sempre alle banche. E’ evidente che un peggioramento degli standard finanziari della Russia avrà conseguenze (perdite) su questi contratti.
L’esposizione verso l’Ucraina è assai più contenuta, si parla di 27 miliardi di dollari, di cui circa un quarto nei confronti di banche austriache e altrettanto verso quelle italiane, e un po’ meno verso quelle francesi. Complessivamente le banche europee sono esposte per il 90% del totale verso l’Ucraina.
Ma quello che preoccupa non sono tanto le esposizione dirette, che pure sono importanti in epoca di stress test. Sono gli incroci fra le singole banche, vicendevolmente intrappolate nelle ragnatele di prestiti tessute in tutta Europa.
E poi ci sono i legami con i parnet più vicini della Russia, ossia quelle della Comunità di stati indipendenti (CSI) nata nel 1991 dall’accordo fra Russia, Ucraina e Bielorussia, e poi allargata all’Armenia, l’Azerbaijan, il Tajikistan, il Turkmenistan e l’Uzbekistan. In pratica la parte centrale dell’Europa orientale che oggi costituisce il nerbo dell‘Unione Euroasiatica voluta da Putin. E poi ci sono i legami con i Paesi Baltici.
A tal proposito, vale la pena riportare l’opinione del Fmi, così come scritta nell’ultimo Global financial stability report. “I rischi geopolitici in Russia e in Ucraina hanno avuto finora ricadute limitate nei mercati globali. Finora l’impatto è stato limitato ai mercati regionali: si è innescato un aumento del rischio di credito sovrano russo e ucraino (i famosi CDS, ndr), una forte svalutazione del rublo e della grivna e un aumento dei rendimenti obbligazionari locali. Tuttavia i paesi della CSI e in misura minori i paesi baltici (ormai stabilmente nell’orbita dell’eurozona, ndr) hanno forti legami con commercio, rimesse, investimenti diretti esteri”.
Insomma, se si mette male per la Russia, si mette anche per l’Europa, dentro e fuori l’eurozona.
Questo è il vero stress test che ci aspetta.
Altro che quelli della BCE.
L’Europa keynesiana (in salsa tedesca)
Riprendiamo, dunque, da dove eravamo rimasti, ossia dalla questione bancaria che questo 2014 vedrà grande protagonista delle cronache e delle preoccupazioni di noi tutti, se non altro per la semplice circostanza che le banche, ci piaccia o no, sono diventate l’architrave del nostro Stato e della periclitante costruzione europea.
Le banche, perciò, ovvero l’ennesima scommessa dell’eu-topia europea, che trova nel faticoso compromesso sull’Unione bancaria il magico ingrediente che dovrebbe addensare la frammentazione finanziaria dell’eurozona, in ultima analisi sociale, in amalgama digeribile per il delicato stomaco dei mercati.
Ma siccome le cronache sono ancora avare di notizie, in questo principio d’anno, rivolgiamoci alla storia che contiene nella sua memoria ovvietà che l’incultura del presente ha dimenticato a tal punto da ritrasformarle in dibattito politico. Scopriremo, ricercando, quanto sia profonda e avvinta nel passato più remoto la nostra tragicomica attualità che in fondo sogna da ottant’anni almeno – per non dire da almeno due secoli – lo stesso sogno: l’unità al prezzo dell’omologazione. Ovvero, il benessere diffuso al prezzo di un crescente dispotismo. Senza poi che nessuno – o solo pochi – si interroghi sul significato di tale benessere od osservi che tale dispotismo ormai, nel territorio europeo, si declina con lo strumento monetario. Difficile da capire ancor più che da gestire, ma che comunque sta diventando un notevole surrogato della vecchia politica di potenza degli stati.
Ecco un pezzo della nostra radice: “Riunire un gruppo di paesi, alcuni dei quali saranno in una posizione debitoria e altri in una posizione creditoria, in un’Unione monetaria allargata al mondo intero è senz’altro possibile. Viceversa, è impossibile, a meno che non abbiano anche un sistema bancario ed economico comune (corsivo mio, ndr), riunirli in un’unione monetaria che sia contro il mondo intero”, perché “”i membri in credito dovrebbero fare un prestito forzoso e non liquido dei loro saldi attivi a favore di quelli in debito”. Il fatto che tali parole, scritte da Keynes nel 1941 suonino attuali, mostra meglio di ogni ragionamento quanto siamo incagliati e, soprattutto da dove siamo partiti e dove siamo arrivati.
L’Unione bancaria soddisfa, keynesianamente, il requisito fondante di un’Unione monetaria e, soprattutto, permette di evitare, sempre keynesianamente, la circostanza che i paesi ricchi finiscano col dover prestare ai poveri per tenere in piedi la costruzione monetaria.
Questo svela un requisito del presente che rimane sovente sottotraccia nelle analisi: l’Europa di oggi deve moltissimo a Keynes. Ma a guardare bene, si potrebbe dire di tutto l’Occidente.
Innanzitutto nel presupposto: nell’intervento statale, esplicito o furbescamente camuffato od obliterato dalla sua sostituzione con un organismo di banca centrale, quale antidoto necessario al laissez faire contro il quale Keynes scaglierà nel corso della sua lunga carriera i suoi dardi più appuntiti. A ragione, diranno in molti. A controprova di quanto il keynesianesimo, nelle sue varie declinazioni, sia consustanziale oggidì nella nostra costituzione di europei e occidentali.
Checché ne dica la vulgata, infatti, Keynes non fu, o almeno non solo, spesa statale in deficit, che poi divenne popolare solo perché fu lo strumento degli stati per incoraggiare la deriva capitalistica camuffata dalla società dei consumi. Nel suo fondo l’economista inglese diceva solo una cosa: non si può fidarsi della mano invisibile in economia. Ergo: bisogna intervenire. Con ciò legittimando una supremazia, quella della politica sull’economia, che ha dato forma e foraggio all’epopea occidentale del dopoguerra.
Pensiero comune, peraltro.
A Friburgo, ai tempi di Weimar, per dirne una, maturavano i talenti dell’ordoliberalismo tedesco, che poi frutteranno nella dottrina dell’economia sociale di mercato che ha reso celebre la Germania del dopoguerra, proprio mentre Keynes confezionava la sua Teoria generale. Segno che la reazione alla mano invisibile, tentativo maldestro di celare la potenza dello stato nazionale dietro una vernice di ottimismo economico, era nell’aria: matura, per così dire. E nessuno più di Keynes, probabilmente suo malgrado, è stato associato a tale movimento.
In tal senso non possiamo non dirci keynesiani.
Questa parole sulla necessità di un’Unione bancaria per dare corpo a un’Unione monetaria Keynes le scrive nel 1941, dicevo, e più precisamente in un documento del 15 dicembre intitolato “Proposte per un’Unione monetaria internazionale”, uno dei tanti papelli che andarono ad alimentare la proposta inglese sui tavoli di Bretton Woods, che poi finì com’è noto. Il meccanismo di clearing fondato su una moneta unità di conto internazionale proposto da Keynes per trovare finalmente una soluzione alle costanti crisi delle bilance dei pagamenti fu accantonato perché la potenza egemone, l’America, una moneta l’aveva già e non aveva nessuna convenienza a metterla in comune, rinunciandoci.
Ma l’Europa non dimenticò la lezione. Una decina di anni dopo, la clearing house di Keynes delineò la fisionomia di uno degli esperimenti meglio riusciti della nascente Comunità europea: l’Unione europea dei pagamenti. Ancora una volta lezione keynesiana, ma a metà, giocoforza. Gli stati nazionali europei preferirono affidare al welfare – quindi alla redistribuzione politica del reddito – il ruolo di integratore sociale, esattamente come oggi mettendo all’indice il welfare rischiano il risultato opposto, ossia disintegrare la società usando il pretesto del suo costo ormai immane.
E qui entra in gioco l’entità sovranazionale, della quale Keynes era un grande estimatore, da bravo inglese che aveva bene assorbito la lezione imperiale e sperava ingenuamente di insegnarla anche agli americani.
Costoro però, assai più sensibili alla roba che alla seduzione del pensiero astratto, sapevano con l’istinto del predatore che l’impero – il loro – era già nelle cose. Non abbisognava certo dei calcoletti di uno studioso inglese, malgrado le rassicurazioni costanti di costui circa la convenienza reciproca, quindi angloamericana, a far funzionare la sua clearing house. “La banca (la clearing house, ndr) deve essere posta sotto una direzione angloamericana – scrisse -. Potremmo richiedere che la sede centrale sia situata a Londra e il consiglio direttivo si riunisca qui e a Washington”. S’intravede la preoccupazione dell’economista, anzitutto inglese, di “dare continunità storica all’area della sterlina”, nonché preservare “la tradizionale libertà di Londra come piazza finanziaria”. Preoccupazioni affatto aliene agli Usa, che infatti non abboccarono.
L’entità sovranazionale era per definizione il miglior antitodo contro la prepotenza statale (non inglese). La Bri, ad esempio, pervicacemente difesa in sede di contrattazione a Bretton Woods, quando gli americani volevano chiuderla, e che poi diventerà il contabile dell’Unione europea dei pagamenti, dopo esserlo stata negli anni ’30, quando si trattava di commercializzare le riparazioni tedesche, e oggi la scrittrice delle regole bancarie che tanto fanno affannare le autorità.
Ma soprattutto il principio che più stava a cuore di Keynes era quello della compensazione multilaterale, che peraltro l’esperienza dell’UeP dimostrò funzionare egregiamente, a certe condizioni. La prima delle quali, ovviamente, era la cessione di sovranità.
Tale principio ha una radice ancora più profonda. Ed è lo stesso Keynes a mostrarcela sempre in uno scritto del 1941, dell’8 settembre stavolta, intitolato “Il problema degli squilibri finanziari globali”. Lettura consigliata, perché Keynes mostra in poche pagine come il problema delle bilance squilirate dei pagamenti abbia trovato nel ventennio occorso fra le due guerre, ogni soluzione immaginabile trovandosi ogni volta sbagliata. Fra questa vale la pena citare quella dell'”uso della deflazione, e peggio ancora di “deflazioni competitive per forzare un aggiustamento dei livelli dei salari e dei prezzi, al fine di spingere o di attrarre il commercio verso nuovi canali”, che oggi richiama alla memoria la recente strategia mercantilistica tedesca.
Tanto per dire che torniamo sempre alle origini.
Fu proprio la Germania di allora, infatti, a trovare il principio che illuminò Keynes. “Dopo i tentativi e gli errori precedenti – scrive – il dottor Schacht inciampò per disperazione in qualcosa di nuovo che aveva in sé i germi di un buon accorgimento tecnico (..) e permise a una Germania impoverita di accumulare le riserve senza le quali non avrebbe potuto imbarcarsi nella guerra. Il fatto che tale metodo sia stato usato al servizio del male non deve impedirci di vedere il vantaggio tecnico che offrirebbe al servizio di una buona causa”. Il meraviglioso pragmatismo inglese.
Il dottor Schacht era quel Hjalmar Schacht, bancario tedesco di cultura americana che stabilizzò il marco dopo la tremenda iperinflazione di Weimar e finì a presiedere la Reichsbank, la banca centrale tedesca di Weimar, dove rimase fino al 1930, tornandovi tre anni dopo, quando Hitler divenne cancelliere. Nel 1934 fu nominato ministro dell’economia e da quella posizione organizzò il suo personalissimo New deal alla tedesca, peraltro nei suoi risultati assai più efficace di quello americano, realizzando un keynesianesimo ante litteram: quindi spesa pubblica per creare posti di lavoro, obbligazioni statali destinate a circolare all’interno della Germania (Mefo) e, soprattutto, il meccanismo della compensazione dei crediti con i debiti, tramite il quale la Germania finì con l’annullare il suo debito estero. Il principio era molto semplice: le importazioni da un paese venivano pagate con merci tedesche, non con denaro.
A queste compensazioni bilaterali, la Germania sostituì una compensazione multilaterale che agiva pienamente già nel ’41, quando Keynes scriveva il suo documento. Schacht aveva già abbandonato la vita ministeriale e al suo posto era arrivato in più conosciuto Walther Funk. Fu proprio in quel periodo che riprese vigore il dibattito sulla Großraumwirtschaft, l’economia del grande spazio di cui i teorici tedeschi discutevano già dagli anni ’30 (Ai più curiosi suggerisco la lettura del saggio di Paolo Fonzi “La «Großraumwirtschaft» e l’Unione Europea dei Pagamenti: continuità nella cultura economica tedesca a cavallo del 1945”, in Ricerche di storia politica, nr 2, 2012, pp. 131-154, il Mulino).
I successi militari della Germania hitleriana, infatti, avevano riesumato una discussione che sembrava confinata nell’alveo accademico. C’erano ampi territori da sfruttare e strumenti tecnici da realizzare per favorire il commercio fra il Reich e i territori occupati. L’idea perciò di creare e organizzare forme di integrazioni sovranazionali di livello regionale parve agli economisti tedeschi il miglior modo per garantirsi le forniture e le risorse economiche necessarie a proseguire la guerra. La Großraumwirtschaft, peraltro, riprendeva suggestioni del secolo precedente, quando dopo la vittora di Sedan (1870) la Germania si fece sedurre dall’idea di un’area economica integrata a forte egemonia tedesca.
Il 1940, anno in cui la vittoria finale nazista sembrava ormai imminente, Goring conferì a Funk l’incarico di progettare questo “spazio economico” europeo a guida tedesca. Si formò un gruppo di lavoro al quale ovviamente presero parte anche i banchieri della Reichsbank, l’antenata della Bundesbank, al quale si diede l’incarico di promuovere l’unificazione europea con l’obiettivo finale di arrivare a un’unificazione monetaria e doganale. Vale la pena ricordare che già nei primi anni ’30 era fallito a Ginevra il tentativo di realizzare un’Unione doganale europea, col risultato, assai avversato dai francesi, che se ne creò una fra l’Austria e la Germania.
I punti salienti del piano tedesco del ’40 prevedevano la formazione di un sistema di clearing centralizzato, il progressivo alleggerimento dei controlli valutari, formazione di un sistema di cambi fissi in Europa. Tutte questioni che diverranno di stringenti attualità nell’immediato dopoguerra, come abbiamo visto. Ma lo sono anche oggi.
Il punto saliente, che ci ricollega al presente, è che il progetto prevedeva che l’area integrata fosse a due velocità. Nel primo cerchio stavano i paesi “affini”, quindi la grande Germania, la Boemia e la Moravia oltre al governatorato generale (parte della Polonia, la Danimarca, la Norvegia, l’Olanda, il Belgio il Lussemburgo e forse la Slovacchia). Quindi un cerchio esterno, all’inizio escluso da meccanismo di clearing e dall’Unione monetaria, dove dovevano stare i paesi del sud est europeo.
Oggi diremmo, i paesi dell’euro A e quelli dell’euro B.
Anzi, lo dicono in tanti, immaginandola come l’unica soluzione ai guai della moneta unica. E tanti hanno ricominciato a parlare del clearing keynesiano quale strumento tecnico utile a pareggiare gli squilibri Target 2.
Potremmo fermarci qui, ma vale la pena fare un altro paio di esempi per mostrare come a tali radici corrispondano comportamenti attualissimi. Prediamo l’Ltro, il piano di rifinanziamento delle banche deciso dalla Bce che ha prestato mille miliardi alle banche all’1% per tre anni.
Nel 2011, quando fu deciso, si disse che era un’idea dell’ex governatore Trichet. Ma gli storici ci dicono che tale modalità di intervento, collegato però alla fissazione di investimenti produttivi da parte delle imprese, era stato delineato da Keynes già nel 1930 proprio per abbassare i tassi di lungo termine. E in effetti quella era l’idea della Bce. Ma poi è finita che le banche hanno iniziato a fare carry trade con i soldi della Bce, e alle imprese sono arrivati solo gli spiccioli.
Abbiamo già visto il debole che Keynes, negli anni ’30, nutriva per le pratiche mercantilistiche, oggi quanto mai attuali. Ma che dire della Tobin Tax? “L’introduzione di una sostanziosa imposta governativa su tutte le transazioni finanziarie potrebbe rivelarsi la riforma più praticabile di cui disponiamo per mitigare il predominio della speculazione sull’impresa”, scriveva Keynes nel capitolo 12 della sua Teoria generale.
Tasse sulla finanza e sulla rendita, deciso interventismo statale (diretto o tramite le banche centrali), clearing dei saldi delle bilance del pagamenti, unioni sovranazionali economico-monetarie, e quindi bancarie: l’Europa keynesiana.
Ma in salsa tedesca.
I governatori dell’eurozona battono un colpo
Dunque Mario Draghi ha confermato, nel corso di un dibattito al Parlamento europeo, che “i bond sovrani verranno sottoposti a stress come altri titoli”.
Non era difficile immaginare che sarebbe finita così, ma averne la conferma serve anche a comprendere che la partita che si sta giocando su questa class di asset è la più strategica, per non dire sistemica, dell’intera eurozona.
Non che avessi dubbi. Ne avevo talmente pochi che mi sono portato avanti col lavoro e, qualche post fa, mi sono inerpicato con grande fatica nella ragnatela della regolamentazione bancaria di Basilea II e III, che anche ieri Draghi ha citato come fonte di ispirazione normativa, spiegando che non tocca certo alla Bce decidere come trattare i bond sovrani, ma proprio ai banchieri di Basilea (che per la cronaca è espressione delle Banche centrali). Alludendo con ciò al fatto, già messo in evidenza dal suo collega della Bundesbank Weidmann, che i regolatori di Basilea fossero stati troppo generosi nel giudicare risk free (e quindi non bisognosi di accantonamento nel capitale di vigilanza delle banche) i titoli di stato.
Abbiamo visto che non è così. Le regole di Basilea, di recente ribadite anche dalla Bri, dicono esattamente il contrario: ossia che tutte le classi di titoli, quindi anche quelli sovrani, sono soggetti a una classificazione del rischio. E fissa anche un criterio di ponderazione, legato al rating, in virtù del quale le banche possono sapere esattamente quanto capitale devono mettere da parte ogni tot di titoli di stato.
Quello che i nostri governatori (Weidmann, Draghi) omettono di dire (difficile credere che sia sfuggito a tutti), è che le regole di Basilea III sono state tradotte nella direttiva europea CRD IV (36/2013) sui requisiti della patrimonializzazione bancaria e in un regolamento (575/2013) che entreranno in vigore dal prossimo gennaio. Il regolamento, in particolare, (articolo 114) fissa un rischio zero per i titoli di stato denominati in valuta nazionale da parte di tutti i paesi europei. Quindi non è tanto Basilea ad aver creato il “problema”, ma semmai il mondo politico europeo.
Questo ovviamente i nostri eurogovernatori non lo dicono.
La conseguenza di questa regolamentazione, quindi, è che i titoli italiani, denominati in euro, hanno la stessa classificazione di rischio di quelli tedeschi. Non per scelta dei banchieri, ma dei politici.
Vale la pena fare un ulteriore approfondimento andandosi a leggere il parere proprio su questo regolamento che la Bce depositò presso parlamento e consiglio europeo, citato nel preambolo. Un passaggio in particolare, laddove si sottolinea che “la Bce sostiene fermamente l’obiettivo di affrontare esposizioni al rischio specifiche relative, tra l’altro, a determinati settori, regioni o stati membri per mezzo di atti delegati che affidino alla Commissione la facoltà di imporre requisiti prudenziali più stringenti”.
Quindi non è che i banchieri non ci abbiano provato a dire come la pensavo. Solo che non hanno avuto successo.
Senonché i nostri governatori centrali intendono spezzare una volta per tutte il legame fra stati sovrani e banche residenti. Che poi è uno dei punti qualificanti dell’Unione Bancaria, sempre che si riesca ad approvarla entro aprile come Draghi ha esortato anche ieri l’europarlamento a fare.
E siccome questa certezza non c’è, ecco che intanto scatta il piano B: ossia usare la supervisione bancaria, che di sicuro è l’unico momento sovranazionale già operativo sul quale nessuno può mettere bocca, come grimaldello per scardinare il più possibile questo nesso stati-banche, in nome della prudente regolazione finanziaria e per evitare che la disciplina di mercato faccia più danni. Quindi per il nostro bene.
Il “fantasma” del governo degli eurobanchieri batte un colpo.
La conseguenza di tale prezzatura dei bond sovrani è evidente: detenere titoli dei Piigs sarà costoso per le banche dell’eurozona, mentre i titoli a rating elevato saranno a rischio zero, quindi gratis, proprio per le regole di Basilea hanno fissato. Una scelta che potrebbe amplificare la frammentazione dell’eurozona, anziché ridurla.
Sinceramente ammirato da tanta finezza, ho visto emergere la questione dei bond sovrani nel dibattito esoterico dei banchieri centrali fino a diventare di dominio pubblico, quindi essoterico, in queste ultime ore. Nella mattina in cui si è tenuto il dibattito di Draghi, il Financial Times riportava una pregevole intervista al responsabile della divisione economica della Bce Peter Praet, che spiegava come fosse necessario prevedere una qualche forma di meccanismo capace di arrivare a una “prezzatura” del rischio dei bond sovrani. Magari un fondo dove le banche siano “invitate” a depositare capitale di vigilanza.
Non è tanto lo strumento tecnico che interessa, ma il principio. E il pretesto economico anche.
Il pretesto economico è questo: i nostri governatori, che temono un’ondata deflazionaria nell’eurozona anche se dicono il contrario (ultimo sempre Draghi ieri), hanno il problema di fare arrivare credito alle imprese evitando che finisca come in passato, ossia che le banche facciano carry trade con i soldi della Bce. Per riuscirci devono “costringere” le banche a dare credito all’economia, scoraggiando quindi l’accumulo di bond sovrani. Così potranno anche spezzare il famoso legame fra stati e banche residenti, la qualcosa obbligherà gli stati a dare corso a tutti i necessari consolidamenti fiscali, visto che non potranno più contare sui soldi delle “loro” banche per finanziare i propri deficit.
Il principio è questo: usare il bastone della presunta market discipline (ovvero la minaccia che i mercati punirebbero scelte non coerenti con la loro fame di certezze) e la carota della regolazione (le famose norme di Basilea) per bypassare una precisa norma votata dalle autorità europee. Ossia che tutti i titoli dell’eurozona siano risk free.
Se la logica economica che guida questo ragionamento può essere comprensibile, rimane un dubbio metodologico sul principio.
E anche una domanda: chi governa l’eurozona: i politici o i governatori?