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Le banche “emergenti” destabilizzano l’eurozona

Ora che tutti si stupiscono osservando il rovinoso franare della Russia, che pure era previsto e prevedibile con un po’ di attenzione, si ha gioco facile a far notare che nulla di tutto ciò dovrebbe stupire chi ha consumato ore e ore a leggere i preoccupati resoconti delle istituzioni finanziarie internazionali sulla crescente marea di rischi che le economie emergenti hanno accumulato in questi anni nei quali hanno goduto di crediti facili e crescita rigogliosa.

Tutti guardano alla Russia, ma solo perché il danno lì ormai è conclamato, ma che dire della Turchia, la cui moneta sta franando sul dollaro mentre il rublo tocca record negativi inusitati? E del Sudafrica,? del Messico? del Brasile? o della stessa Cina?

Per non ripetere cose già da lungo tempo scritte, prendo spunto dall’ultima analisi disponibile sulla situazione dei paesi emergenti non a caso contenuta nella Financial stability review della Bce pubblicata a novembre dove un box si chiede alquanto retoricamente se “la crescente importanza delle banche dei paesi emergenti pone un rischio sistemico”.

Mi limito a questo perché fotografa un aspetto del problema ancora poco osservato, ossia la possibilità che le banche di questi paesi hanno di destabilizzare il già periclitante sistema finanziario globale, sempre più ciclotimico. Ai più curiosi segnalo anche l’ultima rassegna trimestrale della Bis, di cui ho già accennato, che contiene diverse informazioni sul rischio emergenti, a cominciare dall’esposizione delle banche europee proprio verso la Russia e l’Ucraina, nonché verso la Cina per sua fortuna entrata in un cono d’ombra dei mercati. Per ora.

La prima informazione interessante la traggo da un grafico che quota il numero di banche dei paesi emergenti entrate nella classifica delle top 100 per asset totali. Una premessa: quando la Bce parla di emergenti si riferisce a Sudafrica, India, Singapore, Russia, Corea del Sud, Brasile e Cina.

Bene. Nel 2008 le banche degli emergenti nella top 100 erano 17, con la Cina a far la parte del leone con otto banche in classifica. Nel 2013, ultimo anno analizzato dal grafico, le banche emergenti entrate in classifica erano 28, delle quali 15 cinesi. Al grande balzo, oltre alla Cina, hanno contribuito la Corea del Sud, prima assente, (quattro banche) e il Brasile (quattro). Ma anche Singapore, che adesso ha due banche in classifica, come la Russia, che è rimasta allo stesso livello del 2008.

Ciò spiega perché la Bce ne deduca che “uno degli effetti nascosti della crisi finanziaria globale è stata la forte crescita del peso delle banche dei mercati emergenti nel sistema finanziario globale”. Non so voi, ma io ho avvertito un filo di inquietudine quando ho letto questa considerazione.

La pervasività della finanza in questi paesi è aumentata anche e soprattutto per i forti afflussi di capitali che la crisi ha direzionato verso questi paesi, vuoi per la fame di rendimento, vuoi perché venivano percepiti come gli unici capaci di crescere.

Qualunque sia stata la ragione, l’esito è stato che la capitalizzazione di queste banche è quasi quadruplicata in sei anni ed è arrivata a pesare il 35% del valore globale del mercato bancario. Almeno fino a quando, nel maggio 2013, la Fed non accennò solo parlandone a un inizio di tapering terremotando mezzo mondo. Per lo più emergente.

La starnuto della Fed provocò una terribile febbre agli emergenti e ciò bastò a far comprendere quanto il boom di questi paesi fosse scritto sull’acqua. Il 35% di valore globale degli asset, infatti, scese repentinamente sotto il 30%, mentre i valori complessivi passarono da 1.750 miliardi di dollari a circa 1.400.

La veloce retromarcia della Fed tornò a invertire il clima, ma sempre con circospezione. Il mondo aveva imparato la lezione, essendo peraltro troppo tardi per tornare indietro.

Sicché nel 2014 le banche emergenti sono tornate sopra il 30% della quota del valore globale delle banche per un valore di circa 1.500 miliardi. Ed è con queste cifre che tutti noi dobbiamo fare i conti. E chi pensasse che in fondo non ci riguardano, le traversie di queste entità commetterebbe un errore grave. Il mondo è troppo interconnesso per ignorare le fibrillazioni di una banca russa o cinese.

Ciò malgrado la Bce nota che “finora le banche emergenti hanno una presenza regionale”. Ma ciò non tiene conto del fatto che una crisi bancaria non è  mai un fatto isolato in un paese, avendo influenze su tutti i settori dell’economia, sia interno che esterno, sia privato che pubblico.

Con un’aggravante: “Gli aspetti regionali possono avere conseguenze rilevanti per la stabilità dell’euroarea”.

Già, il problema è che “le banche emergenti residenti in paesi vicini all’euroarea/Ue hanno recentemente intensificato le loro connessioni con l’eurozona e la Ue”.

“Poiché lo stress finanziario fra le banche dei paesi emergenti può essere trasmessa all’eurozona sia a causa dell’esposizione diretta che quella indiretta, le banche emergenti significative possono avere ripercussioni sulla stabilità del settore finanziario europeo”.

Adesso che sentite parlare della crisi russa sono certo inizieranno a fischiarvi le orecchie.

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Le banche spagnole ballano la samba

Il segreto di Pulcinella meglio custodito, ma in quanto tale noto a tutti, sulle banche spagnole è che sono ballerine. E non tanto perché sono state al centro di un salvataggio europeo, con alcune decine di miliardi di euro elargiti dal fondo Esm e ciò malgrado siano ancora piene di problemi. Ma perché conservano una pesante esposizione verso i paesi emergenti dell’America Latina, a cominciare dal Brasile.

Ballerine di samba, perciò. Ma anche amanti dei nachos, visto che dopo il Brasile nella classifica dei rischi esteri viene il Messico.

Le ultime statistiche consolidate rilasciate pochi giorni fa dalla Bis, relative all’ultimo trimestre 2013, totalizzano l’esposizione delle banche spagnole verso i paesi latino-caraibici a quota 488 miliardi di dollati, quasi un terzo del totale degli oltre 1.500 miliardi di esposizione estera.

Di questa montagna di denaro, il Brasile assorbiva 161 miliardi a fine 2013, in calo rispetto al picco di 2010 miliardi toccato nel 2011, e, a seguire il Messico, con altri 159 miliardi. A grande distanza segue il Cile, con circa 67 miliardi e poi il Perù con 22.

Ma poiché è il totale che fa la somma, come direbbe Totò, quello che risulta chiaro scrutando tali statistiche è che la Spagna, per evidenti ragioni storico-culturali, è pesantemente esposta verso un’area geografica che sta vivendo grandi turbolenze provocate dai timori degli irrigidimenti della politica monetaria americana.

Il dato interessante che si può osservare andando a ritroso è che tale esposizione è considerevolmente aumentata durante la crisi. Basta notare che nel 2007 (primo trimestre) superava di poco i 250 miliardi. E con l’avvento della crisi è aumentata. Le banche spagnole, insomma, hanno provato a lucrare rendimenti investendo sui paesi emergenti (come hanno fatto tutti in realtà) mentre all’interno sempre le stesse banche rischiavano il crack a causa della pesante esposizione al settore immobiliare, che ha condotto al salvataggio europeo.

Se andiamo ancora più indietro scopriamo che nel 2000 l’esposizione estera delle banche spagnoe verso quest’area era appena a 98 miliardi. E questo spiega di ogni altro commento cosa siano stati i primi dieci anni del XXI secolo.

La ricerca del rendimento, tuttavia, adesso rischia di far rientrare dalla finestra la crisi bancaria che, faticosamente, la Spagna ha per adesso scongiurato grazie ai soldi dell’Esm e al prezzo di una devastante correzione fiscale e della posizione estera che ha distrutto la domanda interna e portato la disoccupazione al 27%. Anche perché le previsioni per le economie emergenti non sono delle migliori.

Nella sua ultima relazione annuale la Banca d’Italia, pur notando che la crescita del Pil in Brasile è stata robusta nel 2013, non può fare a meno di notare la panoplia di criticità di fronte alle quale si trova l’economia brasiliana. Il settore esterno, che poi è quello che nei primi anni del 2000 ha fatto gridare al miracolo brasiliano, ha contribuito negativamente alla crescita con un -0.9%, al contrario di quanto ha fatto la domanda interna, cresciuta soprattutto grazie all’aumento dei salari reali, con un’inflazione al consumo che ha raggiunto il 5,9% a fine 2013.

Tutto ciò si è ripercosso sulla posizione fiscale, che si è deteriorata. Il deficit sul Pil è arrivato al 3,3%, l’avanzo primario si è ridotto all’1,9% e il debito è arrivato al 66,3%. tutti elementi che hanno indotto S&P ad abbassare il rating, mentre a febbraio 2014 il governo decideva di tagliare 14 miliardi al bilancio pubblico per evitare ulteriori abbassamenti dell’avanzo primario.

Come se ciò non bastasse, è arrivata la tegola del tapering americano, che a maggio 2013, dopo le esternazioni di Bernanke, ha terremotato il real brasiliano, già affaticato da un saldo di conto corrente negativo per il 3,6% del Pil (era il -2,4 nel 2012).

Son partiti i deflussi di capitale, persino dalla Spagna, che dai 181 miliardi di inizio 2013 è passata bruscamente ai poco più di 160 del terzo trimestre. Alta inflazione e grandi deflussi hanno costretto la banca centrale a stringere i cordoni della borsa.

La conseguenza è che i tassi sono schizzati alle stelle. Il Selic, che ad aprile 2013 era al 7,25%, è stato rialzato nove volte di fila, arrivando all’11% del 2014. E le prospettive di crescita del paese adesso sono decisamente orientate al ribasso.

Questo pattern, pure se con le dovute differenza, si è visto anche in Messico che come il Brasile e tante altre economie emergenti ha aumentato i suoi debiti, spesso emettendo bond sui mercati internazionali, e ha sofferto svalutazione, inflazione e saldo di conto corrente negativo. L’intera area, infatti, ha visto peggiorare significativamente la sua posizione estera. I saldi dei conti correnti di tutti i paesi sono peggiorati e il debito estero pure. Il Brasile ormai sfiora il 14% del Pil (era il 12% nel 2011), il Messico ha superato il 20%, il Cile ha superato il 47%, la Colombia il 24% e il Perù il 29%.

Che l’America Latina impensierisca non poco la Spagna si deduce agevolmente anche sfogliando l’ultimo report della banca centrale spagnola proprio su queste economie, e notando che tale reportistica sia ormai consuetudine del regolatore spagnolo.

Nell’ultimo disponibile, che analizza lo stato dell’arte nella prima metà del 2014, leggo che “i rischi per l’America Latina sembrano dipendere più dal mutamento delle condizioni monetarie internazionali che dal rallentamento dell’economia cinese”. La Banca di Spagna nota preoccupata il rallentamento dell’area latina cominciato già nel 2012, in Argentina e Brasile, per poi estendersi, nel corso del 2013, in Messico, Cile e persino Colombia e Perù. E l’outlook per il 2014 è stato ancora rivisto al ribasso.

E proprio al Brasile la banca di Spagna ha dedicato un approfondimento, notando in conclusione che se è vero che l’economia brasiliana ha delle fragilità (il credito al settore privato è crescito del 21% l’anno fra il 2004 e il 2013), ha pure dei buffer che potrebbero funzionare da salvagente anche se pare ormai evidente che quest’economia gigantesca abbisogni di profonde riforme per non finire in stallo.

E per fare le riforme serve tempo. Risorsa, questa sì, scarsissima.

In un contesto così complesso, con gli Stati Uniti pronti a premere il freno monetario alzando i tassi già dall’anno prossimo, è più che comprensibile che la banca centrale spagnola guardi all’America Latina come a una possibile fonte di contagio e di instabilità per il sistema bancario domestico, peraltro ancora tutt’altro che risanato, e di conseguenza per tutta l’Europa.  Il rischio importato dagli emergenti latini, in sostanza, è diventato assai sostanzioso e non riguarda solo la Spagna, ma tutti noi.

L’ultimo post programma surveillance della commissione Ue sulla Spagna, rilasciato nel maggio scorso, nota che nel 2013 il settore bancario è tornato a far utili, ma la profittabilità rimane ancora bassa, con una quota di crediti non performing (NPLs) ancora inchiodata al 13,4% a febbraio.  “Inoltre – aggiunge – un rallentamento nei mercati emergenti, in particolare in alcuni paesi latino-americani, potrebbe indebolire la redditività di alcune banche”, per non parlare dei rischi di aprire vere e proprie voragini.

Il segreto di Pulcinella, appunto.

I Brics preparano il governo ombra

C’è un pizzico di megalomania e tanta buona volontà nelle dichiarazioni d’intenti dei cinque paesi – i famosi Brics – che oggi e domani si vedranno in Sudafrica, a Durban, per discutere delle sorti magnifiche e progressive del mondo a venire. Un mondo nel quale, manco a dirlo, Brasile, Russia, Cina, India e Sudafrica giocheranno un ruolo sempre più importante. Se non altro per il loro peso demografico.

Qualche numero aiuterà a capire. Il prodotto interno lordo dei Brics rappresenta il 21% del Pil mondiale. I Brics occupano il 26 per cento della superfice del pianeta e totalizzano il 42% della popolazione mondiale.

Qualche giorno fa i giornali russi riportavano le roboanti dichiarazioni di Putin, secondo il quale “è necessario trasformare i paesi in via di sviluppo nel nuovo centro di influenza euroatlantica”. Il piano prevede di creare anche un’alternativa alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale. L’istituto, che prenderà il nome di Banca dello Sviluppo, sarà un centro nevralgico per la raccolta delle informazioni e delle analisi della situazione economica attuale che sarà dunque un’alternativa agli esistenti rapporti forniti da FMI e BM, analisi, fa sapere il premier che potrebbero anche discostarsi da quelli fino ad ora conosciuti. Per completare l’opera Putin vuole regalare all’Occidente anche una nuova agenzia di rating. In pratica un occhio “indipendente” sul mondo dell’economia.

Quale sia il disegno è chiaro: fare dei Brics una specie di G5.

Replicare in piccolo il sistema di potere che ha consentito ai vincitori della seconda guerra mondiale di restare in sella per 60 anni, istituendo anche una sorta di governo ombra del sistema finanziario, può anche essere una trovata interessante, in un mondo che ormai tutti dicono multipolare, ma sconta un problema di fondo: la fragilità dei suoi partecipanti.

Una fragilità che è innanzitutto finanziaria. Se guardiamo alla posizione netta sull’estero dei cinque Brics, servendoci delle statistiche del Fondo monetario internazionale, scopriamo che il Brasile, nel 2011, aveva un debito netto con l’estero pari al 33,12% del Pil; la Russia, sempre nel 2011, ha realizzato un saldo netto positivo pari al 7,97% del Pil, ma fino al 2008 era negativo per l’11,47%, segno di una situazione finanziaria sempre troppo esposta alle turbolenze e alla connotazione energy-based del proprio export. La Cina mantiene un saldo netto positivo per il 23,71% (dato 2011) del Pil, ma ben lontano dal 32% del 2008 e in costante calo dal allora. L’India ha visto il suo saldo negativo ampliarsi dal 5,9% del Pil del 2007 al 12,4 del 2011. Quanto al Sudafrica, il saldo è stato sempre negativo con una punta del 23% nel 2007 fino al 6,7985 del 2011.

Questo se si guardano solo i conti esteri.

Che tale fragilità sia ben nota ai cinque Brics lo dimostrano i primi atti che dovrebbero essere firmati in questo meeting. Banca mondiale ombra a parte, uno dei primi incontri previsti è quello fra le autorità brasiliani e quelle cinesi per regolamentare le transazioni effettuate non più in dollari, ma nelle rispettive monete. Il che la dice lunga sullo spirito dell’iniziativa: mettere d’assedio il principale strumento grazie al quale viene esercitata l’egemonia euroatlantica: il sistema monetario internazionale basato sul dollaro fluttuante.

Che i primi tentativi in tal senso vengano effettuati da Brasile e Cina non deve stupire, visti i rapporti sempre più intensi fra i due paesi. Un esempio basterà a chiarire: il volume degli scambi tra il Brasile e gli altri Brics è quasi raddoppiato in quattro anni: nel 2008, era di 48 miliardi di dollari e nel 2012 è stato di 95 miliardi di dollari. E la Cina è diventata lo scorso anno il primo partner commerciale del Brasile, scavalcando gli Stati Uniti. Ma i saldi netti esteri dimostrano come tale intensa attività di scambi sia fortemente sbilanciata.

Aldilà di come finirà il meeting di Durban, è evidente che due diverse visioni del mondo stanno emergendo e finiranno per contendersi l’egemonia globale. La prima, quella che Putin chiama euroatlantica, è destinata a confrontarsi con la visione emergente, quella eurasiatica, visto il peso relativo di Russia, Cina e India nei Brics.

Non è un caso che l’Europa stia in mezzo.

L’ottimismo dell’Ocse e il pessimismo della ragione

L’Ocse ha rilasciato il Composite leading indicator, uno strumento di analisi che serve a individuare i punti di svolta delle economia dell’area e a monitorarne i trend. Si tratta di una delle tante palle di vetro che gli analisti costruiscono per provare a scrutare nel futuro, ma in pratica valgono più per l’oggi che per il domani. Quantomeno sono utili indagini di clima. E il clima secondo l’Ocse non volge più al brutto. Ma neanche al bello però.

La schiarita in realtà non è uniforme. Se l’intera area Ocse, nel suo complesso, sembra fuori dal tunnel della grande crisi (l’indice è tornato sopra i 100 punti e sembra orientato al rialzo), rimangono profonde differenze fra le singole regioni, mentre sembrano ancora incagliati i paesi emergenti, specie la Cina.

Se guardiamo ai grafici dell’indicatore notiamo subito la grande differenza fra l’area euro, che sta faticosamente stabilizzandosi (peraltro a un livello di indicatore ben più basso di quello ante-crisi), e gli Stati Uniti. Questi ultimi, sebbene ancora non abbiano raggiunto livelli pre-crisi, mostrano un trend di deciso rialzo e lo stesso accade per la Gran Bretagna. Ma sono gli unici portatori di buone notizie.

In Giappone l’indice mostra una curva quasi piatta, orientata debolmente verso la crescita, proprio come accade in Brasile. Mentre la Cina addirittura mostra un andamento della crescita sotto il trend (indice sotto 100 in calo dal 2010). In Europa la Germania e l’Italia mostrano segni di stabilizzazione, ma anche in questo caso ben al di sotto dei livelli di appena due anni fa (indice ancora sotto 100). In Francia va addirittura peggio: l’andamento della crescita è previsto debole, esattamente come accade per il Canada (curva dell’indice sotto 100 orientata verso il basso).

Se si guarda per macro-aree, le cinque maggiori economie asiatiche sono orientate verso una crescita debole, a differenza dei paesi del Nafta, che mostrano una crescita più robusta.

Le altre due grandi speranze dei Bric, ossia Russia e India, mostrano una curva decisamente orientata al ribasso. In India l’indice è sceso sotto 98, in Russia ci si avvicina. Solo il Brasile mostra segni di crescita (ma l’indice è ancora sotto 100).

Stando così le cose il relativo ottimismo dell’Ocse può facilmente lasciare il posto a un solido pessimismo della ragione. L’economia mondiale sembra attaccata più che mai al carro statunitense che, faticosamente, sta cercando di riportarsi al livello del 2007 (quando l’indice quotava quasi 102). Basterà per tirar fuori dalle sabbie mobili il mondo intero?

Questo l’Ocse non lo dice.

I fantastici 4 Bric (à Brac)

Nel campionario delle idee suggestive del decennio passato  dovremmo trovare un posto d’onore ai Bric, i fantastici 4.

Si era agli inizi del nuovo secolo quando un economista, Jim O’ Neill, finito poi a fare ricerca alla Goldman Sachs, profetizzò che i quattro fantastici Bric, ossai Brasile, Russia, India e Cina, si candidavano decisamente a diventare il motore della crescita globale. Addirittura il loro Pil, da lì al 2050, avrebbe superato quello delle economia sviluppate.

A distanza di una decina d’anni è un buon esercizio intellettuale dare corso alla fantasia di O’Neill, andando a vedere un po’ di numeri, anche perché nel frattempo i Bric (insieme ai Piigs, ma questa è un’altra storia), sono diventati uno dei luoghi comuni più ricorrenti nella letteratura economica, e non solo per i giornalisti. La Banca d’Italia, per dirne una, dedica ormai dal 2006 un capitolo fisso della sua corposa relazione annuale ai Bric, definiti pudicamente “le principali economie emergenti”.

Prima di esaminarli, è utile una premessa. Nel 2001, quando O’Neill scrisse il famoso studio, si usciva da una sbornia durata quasi un decennio durante il quale l’economia americana era cresciuta come mai nella sua storia, in presenza di inflazione bassa e conti pubblici in avanzo primario. La locomotiva Usa sembrava inarrestabile, meglio persino del Giappone degli anni ’80 (che intanto si era impantanato nella deflazione). Senonché persino un ciclo decennale prima o poi si inverte. Lo scoppio della bolla di Internet, fra il 2000 e il 2001 fece frenare gli Usa. Si pose la domanda da un milione di dollari: chi trainerà l’economia nei prossimi decenni?

Ed ecco spuntare all’orizzonte i fantastici 4. Fattori demografici, uniti ad alcuni dati macroeconomici, fecero preconizzare al nostro bravo economista che il tramonto dell’Occidente economico fosse ormai alle porte. Non subito, certo: da lì a un quarantennio. Però intanto chi aveva buoni orecchi poteva intendere, e magari fare una capatina in quei mercati, sia azionari che obbligazionari. Di sicuro c’era da guadagnarci a investire in Paesi, come il Brasile, reduce da un decennio terribile (gli anni ’90) fatto di crisi valutarie e prestiti internazionali, esattamente come la Russia (in default nel ’98), quindi con notevoli spread da lucrare, mentre Cina e India crescevano da tempo impetuosamente (grazie alla straordinaria domanda privata americana). Infatti molti ci guadagnarono e continuano a guadagnarci.

Fino al 2007 la cavalcata dei Bric, in effetti, prosegue senza riposo. Alla crescita debole delle aree avanzate, fa da contraltare quella dei fantastici 4. Negli Usa, nel 2007, il Pil cresce solo del 2,2%? Niente paura, la Cina è cresciuta dell11,9, l’India del 9,2, Brasile e Russia del 5,4 e dell8,1. Ma poiché le percentuali dicono solo una parte della verità, è utile ricordare che che il 2,2% di crescita americana del 2007 (circa 300 mld a prezzi correnti a fronte di un Pil di oltre 12.600 mld) corrisponde al 10% del Pil cinese dello stesso anno (sempre a prezzi correnti).  

Quando si magnifica delle cavalcate del Pil dei Bric, infatti, bisognerebbe sempre ricordare il punto di partenza. A fine 2010 (prezzi correnti) i quattro Bric insieme producevano un Pil di circa 9.200 miliardi, circa due terzi dei 12.500 del Pil Usa.

Senza dubbio la loro crescita è stata notevole. Basta considerare che nel 2000, sempre a prezzi correnti, il totale del loro Pil era di 2.142 miliardi, meno di un quarto degli 8.800 miliardi di Pil Usa. Ma tale crescita è stata accompagnata da alta inflazione e basata in larghissima parte sulle esportazioni, manifatturiere e di servizi per Cina e India, di prodotti petroliferi e metallici o agricoli, per Russia e Brasile.

Quindi, sebbene la domanda interna abbia iniziato a giocare un ruolo nei quattro Bric, e con essa gli investimenti, si tratta ancora di economie profondamente legate al ciclo economico estero, come d’altronde dimostrano il grande accumulo di riserve valutarie e l’afflusso di capitale estero. Nel 2007, per dirne una, il Brasile fu costretto a mettere un’imposta sugli investimenti esteri in titoli di stato, visto che aveva tassi di sconto all’11,75% ed era diventato il paradiso del carry trade.

Se ne ha la prova leggendo i dati del 2008. Le avvisaglie della crisi finanziaria americana del 2007 fanno rallentare tutti e quattro i Bric. L’export cala, mentre i mercati interni sono alle prese con la classica inflazione da domanda, che in Cina arriva al 6%, in India all’8,3, in Brasile al 5,7, in Russia al 14,1%. Tutti in notevole aumento. Per di più peggiorano i saldi di conto corrente della bilancia commerciale e anche i saldi di bilancio pubblico. Tanto che la Cina, per compensare il calo della domanda estera, decide di varare un piano di stimolo (come i giapponesi di oggi) e di allentare il credito.

Nel 2009 l’interscambio commerciale dei Bric, ossia la somma algebrica fra export e import, diventa addirittura negativo per la prima volta dal ’95. Merito degli incentivi pubblici che hanno fatto salire i consumi interni e gli investimenti. Ma anche i debiti pubblici. In Cina il deficit pubblico è arrivato al 3% del Pil dopo anni di pareggi. In India l’inflazione arriva a un picco del 16%, sospinta dalla speculazione sui prezzi agricoli, e il disavanzi pubblico ha superato il 10,5% del Pil. In Brasile è entrato addirittura in recessione (-0,2). La Russia ancora peggio: sprofonda del 7,9%.

I dati del 2010 vedono la ripresa della crescita, ma India e Brasile mantengono un deficit del conto corrente e tutti e quattro i Bric deficit pubblici. E tutti quattro sono alle prese con l’inflazione. La Cina con quotazioni crescenti del mercato immobiliare, l’India con quelle dei beni agricoli (ma quelli del gasolio rimangono amministrati), il Brasile con l’eccedenza dell’import sull’export che constringe la banca centrale a portare i tassi al 12%. In Russia l’inflazione quasi raddoppia (dal 5,5% al 9,6%).

Nel 2011 in Cina l’export rallenta e accelera l’import, con la conseguenza che il contributo alle esportazione sul Pil diventa negativo (-0,5 punti). Era già successo nel 2009. I prodotto interno rallenta in tutti e quattro i Bric, marcatamente in Brasile (dal 7,5 al 2,7%), meno negli altri. L’inflazione continua a crescere (salvo in India, dove cala dal 12 all’8,6%), calano i saldi di conto corrente (negativi quelli di India e Brasile) e migliorano i disavanzi pubblici.

I problemi di fondo non non mutati: la Cina ha poca domanda interna, la Russia dipende troppo dall’export di beni energetici, L’India ha una debolezza strutturale di bilancio pubblico, il Brasile è volatile. Sono davvero loro il futuro dell’economia mondiale?

Letto a ritroso lo studio di O’Neill strappa qualche sorriso. Ma non bisogna essere ingenerosi. Coniando l’acronimo dei Bric il capo economista di GS ha messo in vetrina i fantastici 4, e di sicuro ha giovato loro assai più di quanto li abbia danneggiati.

Oggi si può dire che si tratta di 4 fantastici Bric à Brac.