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La Bce spinge i ricavi delle banche italiane
Qualche giorno fa mi è capitato sotto gli occhi un articolo del Sole 24 ore che, citando uno studio di Prometeia, stimava in 3,8 miliardi i profitti aggregati del sistema bancario italiano, notando come la stima inverta un quadriennio di risultati negativi per il settore, gravato da ingenti rettifiche sui crediti deteriorati. Nel seguito veniva inoltre riportata la stima del CER, Centro europa ricerche, che vede gli utili aggregati fermarsi a due miliardi.
Ma a parte la differenza di vedute, l’articolo sottolineava altresì come tale risultato dipenda più dal calo di questa voce che dall’aumento dei ricavi, delineando però anche alcune prospettive positive.
Sempre secondo Prometeia, infatti, il ROE, ossia del ritorno sul capitale, passerà dal segno negativo al +3,7% nel triennio 2015-2017. Ancora poco, ma sempre meglio di nulla. Specie se il governo avvierà come ormai sembra imminente l’operazione bad bank per pulire definitivamente i bilanci delle banche.
La buona notizia, di cui sono assetato come tutti, mi ha fatto venire voglia di approfondire, sicché mi sono andato a rileggere l’approfondimento che Bankitalia ha dedicato al sistema bancario italiano nel suo ultimo Rapporto sulla stabilità finanziaria che contiene alcune informazioni che permettono di apprezzare cosa sia successo negli ultimi anni alle nostre banche e, soprattutto, cosa riservi il futuro.
In particolare trovo una tabella che ci racconta l’evoluzione dei conti economici delle banche italiane nell’ultimo ventennio, che trovo assai utile dalla quale estraggo alcune informazioni di sistema.
La prima è che il totale delle attività delle banche italiane è passato dai 1.291 miliardi del periodo 1994-1997, ai 3.219 del periodo 2013-2014. Degna di nota anche la circostanza che l’utile prima delle imposte (ROA, return on asset) era ol 0,37% del totale dell’attivo negli anni ’90, mentre è sceso a -0,23 nel biennio 2013-14.
Nel bel mezzo di erge il periodo d’oro del banking italiano, quello fra il 2004 e il 2007, quando gli attivi erano a quota 2.704 miliardi e l’utile prima delle imposte al +0,91.
Su questi conti pesano alcune importante scelte gestionali. I costi operativi, intanto. Negli anni ’90 pesavano il 2,37% del totale degli attivi, a metà 2000 l’1,70, negli ultimi due anni l’1,35%. D i questi costi, l’incidenza delle spese per il personale erano pari all’1,51% negli anni ’90, ossia il 63% del totale dei costi operativi, lo 0,92% a metà 2000, quindi il 54% dei costi operativi, e lo 0,69, pari al 51% dei costi operativi, nel biennio 2013-14.
Nel ventennio considerato, quindi, le banche hanno tagliato di dodici punti il peso dei costi del personale su quelli operativi, e ciò spiega perché i dipendenti siano passati dai 333 mila degli anni ’90, col picco di 338 a metà 2000, ai 298 mila di fine 2014, a fronte però di un aumento degli sportelli, passato da 24.600 dei Novanta ai 31.600 dell’ultimo biennio.
Altra voce pesante è stata quella delle rettifiche. Nei Novanta pesavano lo 0,75 degli attivi, crollano allo 0,29 nel periodo d’oro, e aumentano quasi del quadruplo nell’ultimo biennio, all’1,09. Se considerate l’evoluzione degli attivi, noterete che i valori assoluti sono parecchio importanti.
E ciò spiega perché gli indicatori di redditività del capitale proprio (ROE) sia crollato. In particolare, nel 2013 era negativo per lo 0,9 ed è arrivato a -0,2 nel 2014, dove si segnala un ROE negativo per -1,8% dei primi cinque gruppi bancari a fronte di un ROE positivo per l’1,7% delle altre.
Per dirla con le parole di Bankitalia, “alla riduzione (del ROE, ndr) hanno contribuito in misura pressoché analoga la diminuzione dei ricavi, dovuta soprattutto al forte calo del margine di interesse, e l’aumento delle rettifiche su crediti. Le banche hanno fatto fronte alla diminuzione dei ricavi in larga parte attraverso riduzioni dei costi operativi, soprattutto quelli per il personale (-10 per cento, -23 punti base in rapporto all’attivo). Il riassetto organizzativo è stato di ampie dimensioni: dal 2008 il numero di sportelli è diminuito dell’8 per cento e quello dei dipendenti del 12%”.
Le previsioni di Bankitalia, tuttavia, sono meno ottimistiche di quelle di Prometeia: “Se l’aggiustamento dei costi si dimostrasse strutturale e la ripresa economica consentisse di recuperare il calo dei ricavi e dimezzare le rettifiche”, con l’avvertenza che anche dimezzandosi nell’arco del prossimo quinquennio rimarrebbero su livelli quasi doppi rispetto al periodo pre-crisi, allora “il ROA potrebbe risalire a un livello sostanzialmente analogo a quello del quadrienni 2004-2007. Si tratta di un obiettivo ambizioso ma possibile nell’arco di un quinquennio”.
Il futuro ci dirà se ha ragione Prometeia oppure Bankitalia.
Nel mentre un altro approfondimento contenuto nel Rapporto sulla stabilità finanziaria ci consente di apprezzare un altro aspetto sovente sottaciuto nelle cronache: l’impatto del QE di Francoforte sui bilancio delle banche italiane.
La banca centrale ricorda che il QE “influisce sulla redditività delle banche italiane attraverso numerosi canali: la variazione dei tassi di interesse, il tasso di cambio dell’euro, i cambiamenti di valore dei titoli detenuti nel portafoglio delle banche e l’aumento della domanda di servizi di intermediazione connesso con il miglioramento del quadro macroeconomico”.
Ipotizzando che il QE provochi una flessione dei tassi a medio e a lungo termine di circa 85 punti base e un deprezzamento del tasso di cambio nei confronti del dollaro pari all’11,4 per cento, la simulazione prevede che il programma Bce aumenterebbe i profitti bancari, al lordo delle imposte, di circa 300 milioni nel 2015 e 1,4 miliardi nel 2016, mentre gli altri ricavi aumenterebbero di 400 milioni nel biennio “per effetto soprattutto dei risultati positivi dell’attività di negoziazione in titoli”.
Un paio di miliardi di più di utili lordi in due anni, quando l’utile nell’ultimo biennio è stato negativo per oltre sette miliardi, male non fa. Le banche italiane non sono nella condizione di rinunciare a nulla.
Figuratevi all’aiutino della Bce.
Bad bank, good fellas
So riconoscere quelle che si chiamano “operazioni di sistema”. Ne ho fatto esperienza ai tempi della rivalutazione delle quote di Bankitalia, e ne ho fatto tesoro, estraendone una sorta di vademecum, o un copione se preferite, che adesso vedo ricalcare le scene del nostro dibattito pubblico, discettando stavolta di un tema assai complicato per la nostra economia, ossia i crediti deteriorati delle banche.
La nuova operazione di sistema, che ormai matura da diversi mesi, è quella che la vulgata giornalistica chiama bad bank, un nome che vuol dire tutto e niente, e che come tale lascia ampi spazi agli azzeccagarbugli per infilarci quello che sembrerà loro più opportuno al momento in cui l’operazione diverrà legge dello Stato.
Nel frattempo però è utile creare il clima di consenso, atteso che parlare di banche, a torto o a ragione, fa venire l’orticaria a un sacco di connazionali.
Il copione prevede che l’argomento venga sponsorizzato in alto loco in un qualche consesso tecnico, quindi venga discettato ampiamente sugli organi di informazione, più o meno specialistici, e quindi approdi in Parlamento, dove le solite audizioni di personaggi legati al mondo della finanza spiegano ai nostri onorevoli il perché e il percome, mentre il governo dice perché no? Ovviamente il tutto nell’interesse pubblico, che usualmente implica che lo Stato dovrà farsene carico.
L’argomento principe, nel caso della bad bank, è che liberando le banche dai crediti deteriorati, sarà più agevole per loro fare più prestiti e quindi rilanciare l’economia. Che poi è lo stesso che si usò ai tempi della rivalutazione delle quote di Bankitalia, sebbene quelli più smaliziati siano perfettamente consapevoli che è la scomparsa delle domanda di credito, più che dell’offerta, ad aver paralizzato la nostra economia.
Tutto ciò è accaduto nel nostro Paese a partire dall’inizio del 2015, e prosegue fino ad oggi.
L’ultimo aggiornamento dello stato dell’arte l’ho ricavato dal rapporto sulla stabilità finanziaria rilasciato da Bankitalia pochi giorni fa. Peraltro, il tema bad bank, anche senza utilizzare questa espressione, è stato uno degli argomenti di un intervento del governatore Visco che risale al febbraio scorso e che poi è stato affrontato nuovamente in aprile, durante un’audizione al Senato.
Sempre in Senato erano stati auditi il 24 marzo scorso il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, e il 3 marzo Andrea Enria, Presidente dell’Autorità Bancaria Europea.
Quest’ultimo ha invitato a “completare con vigore la pulizia dei bilanci bancari”, ricordando che negli Usa tale processo è cominciato prima “e ciò ha consentito di far ripartire i prestiti per imprese e famiglie”, concludendo che “se vogliamo far rilanciare l’economia europea come quella americana, dobbiamo anche noi completare questo processo”.
Vegas, più addentro alle faccende italiane, ha ricordato che “anche in Italia si discute della creazione di una bad bank. La possibilità di seguire le soluzioni adottate negli altri Paesi europei presenta aspetti critici, sia per le implicazioni legate al ricorso a programmi di aiuti comunitari, sia per i riflessi negativi sul rapporto debito/Pil che potrebbero derivare da un intervento interamente a carico del bilancio pubblico”.
Da qui l’invito a “individuare forme alternative rispetto a quelle sperimentate in altri paesi europei, con un forte coinvolgimento del settore privato”, precisando che “in questa fase “la presenza di una garanzia pubblica potrebbe essere un elemento decisivo al fine di indurre investitori privati a sottoscrivere passività
emesse da un veicolo societario specializzato nell’investimento in crediti deteriorati”. Anche perché “la garanzia pubblica potrebbe inoltre rendere tali strumenti finanziari idonei ad essere oggetto del programma di acquisto di
titoli cartolarizzati da parte della BCE”.
Il governo intanto fa la sua parte. Sin dall’inizio dell’anno la bad bank è entrata nell’agenda del ministro del Tesoro che ha l’ingrato compito di far digerire la novità agli occhiutissimi commissari europei, pronti a far scattare l’accusa di aiuti di stato non appena intravedano un possibile coinvolgimento del bilancio pubblico nell’operazione. L’ultimo incontro di Padoan con la commissaria per la Concorrenza europea Margrethe Vestager sul progetto di Bad bank è avvenuta il 23 aprile.
Anche Padoan è stato audito il 5 maggio in Senato e ha fatto capire che l’operazione va fatta e anche in fretta ed esibendo anche una certa sinecura, laddove ha sottolineato che si deve “fare tutto ciò che si può fare senza chiedere il permesso a Bruxelles”.
Fin qui le cronache, che mostrano il grande affiatamento istituzionale fra governo, regolatori, e ovviamente banche e imprese, nelle loro varie declinazioni giornalistiche, per risolvere la questione dei crediti andati a male.
Dal canto suo Bankitalia, sempre nel suo rapporto sulla stabilità finanziaria, ci ricorda che “alla fine del 2014 la consistenza di prestiti deteriorati per il totale delle banche era pari al 17,7 per cento dei prestiti (10,0 per le sole sofferenze); per i primi cinque gruppi era del 18,5 (10,7 per le sofferenze). E ricorda che “sono allo studio iniziative per ridurre lo stock di partite deteriorate delle banche che costituisce un freno alla capacità di offrire nuovi prestiti”.
Ma fa ancora di più. In un approfondimento illustra lo stato dell’arte e individua anche un percorso praticabile per arrivare alla costituzione di questa entità.
E’ utile sapere, a tal proposito, che dal 2008 al 2014 i crediti deteriorati sono passati da 131 a 350 miliardi, da 75 a 197 le sole sofferenze. Tale deterioramento “ha riguardato principalmente i prestiti alle imprese e ha interessato banche di tutte le classi e dimensioni”.
A fronte di ciò, le cessioni di crediti deteriorate sono state di appena 7 miliardi nel biennio 2013-2014.
“In tale contesto – sottolinea – l’istituzione di una società specializzata per l’acquisto di crediti deteriorati e la conseguente riduzione del peso delle partite anomale nei bilanci delle banche avrebbero numerosi e importanti effetti positivi”.
Sul come procedere, Bankitalia ha le idee chiare. “L’intervento dell’AMC (asset management company) potrebbe essere limitato alle sofferenze ed escludere le altre categorie di crediti deteriorati (incagli e ristrutturati), per consentire alle banche di continuare a sostenere la clientela che versa in situazioni di difficoltà temporanea. Al fine di evitare un eccessivo aggravio operativo per l’AMC, gli acquisti potrebbero escludere le posizioni di valore inferiore a una certa soglia e riguardare i soli prestiti alle imprese (corsivo mio, ndr) che rappresentano la componente principale dei crediti deteriorati. Alcune ipotesi prevedono un programma di acquisti per un valore di circa 100 miliardi al lordo delle rettifiche di valore”.
Quanto al problema Ue, “in base alla normativa europea, qualora l’istituzione di un’AMC su iniziativa pubblica configurasse un aiuto di Stato, dovrebbero essere adottate diverse misure (richiesta alle banche aderenti di piani
di ristrutturazione, misure di burden sharing, cioè di condivisione degli oneri con azionisti e creditori
subordinati) che, nel contesto italiano, appaiono incoerenti con la realizzazione dell’intervento (corsivo mio, ndr)”.
Per cui “l’AMC dovrebbe pertanto avere caratteristiche diverse da quelle realizzate in altri paesi europei. In
particolare, a differenza di quanto accaduto altrove, il veicolo acquisterebbe i prestiti in sofferenza al
valore di mercato: il suo intervento non configurerebbe quindi un aiuto di Stato”.
Per cui, da quello che ne capisco, le banche conferirebbero al veicolo i crediti deteriorati al valore di mercato, non soffrendo quindi alcuna perdita patrimoniale, e una volta acquisiti l’AMC li impacchetterebbe in titoli da smerciare agli investitori, a cominciare dalla Bce (e quindi in ultima analisi della stessa Banca d’Italia), forti della garanzia statale. Il tutto per un valore di un centinaio di miliardi.
Concludo la lettura ammirato.
I bravi ragazzi che gestiscono il Paese non si risparmiano mai, quando si tratta di fare il nostro bene.
Le banche italiane si rifugiano nell’Ombra
Persino un appassionato come me della convegnistica finanziaria (nessuno è perfetto) ha esitato davanti al tema scelto dal NIFA (New international finance association) per il suo World finance forum del 2015: “La rinascita economica e finanziaria in Europa e in Italia”.
Gli organizzatori avranno avuto sicuramente le loro ragioni per parlare di rinascita. Hanno dimenticato però che una rinascita succede a un decesso, o a un qualsiasi forma di dipartita. Ed è proprio in questa inconscia dimensione della convegnistica finanziaria che trovo la ragione principale che mi spinge a leggere l’interessante intervento del nostro Carmelo Barbagallo, capo della vigilanza di Bankitalia: Lo shadow banking e la regolamentazione italiana.
Leggo nella filigrana di questo titolo la stessa incoscienza che fa parlare di rinascita europea. E mi convinco che gli organizzatori di convegni hanno una logica ferrea, alla quale mi inchino.
Parlare di shadow banking nel nostro paese, dove ci compiaciamo delle cronache strapaesane delle nostre fondazioni o banche popolari, sembra persino di cattivo gusto. Ma come: noi che siamo la patria delle banche sane e prudenti, che non fanno quelle stranezze anglosassoni, pure da noi c’è lo shadow banking?
Eccome se c’è. Chi legge i report del FSB lo sa benissimo. Ma poiché da noi questa roba la leggono in pochissimi, ecco che la relazione di Barbagallo diventa una bella occasione per fare il punto, sempre che la nostra meravigliosa stampa nazionale la legga fino in fondo.
Nel dubbio, decido di farlo io, ed ecco quello che ho imparato.
La prima cosa è che il vero tema del convegno è quello delle opportunità e i rischi dello shadow banking. Ricordo che tale pratica consiste nel concedere a intermediari finanziari non bancari il potere di fare le banche, e quindi gestire i tipici rischi dell’attività bancaria (maturity, transformation e liquidity) senza disporre degli obblighi regolamentari e i paracadute delle banche. In nome, ci dicono, dell’efficienza marginale del capitale.
Bene. I più appassionati ricordano come in Europa lo shadow banking sia cresciuto senza sosta, dall’esplodere della crisi, cui le pratiche ad esso correlate hanno influito non poco. Ma non solo in Europa: in Cina, negli Usa. Insomma: dappertutto. Tutto questo in un pugno di anni: pensate che l’espressione shadow banking è stata coniata nel 2007, anche se le pratiche ad esso connesse sono vecchie di almeno 80.
Pensare che l’Italia sarebbe stata un’eccezione è sicuramente ingenuo.
Barbagallo ci ricorda che in Italia lo shadow banking varrebbe 400 miliardi di dollari, ossia il 18,4% del Pil. Questo almeno è nelle stime del Fsb.
Per apprezzare questo dato è utile sapere che l’intermediazione bancaria tradizionale, quindi sostanzialmente il volume d’affari del le nostre banche gestiscono, è pari a circa 5 mila miliardi di dollari, ossia il 234% del Pil. Il che riduce il volume d’affari delle banche ombra a una torta sottile a bene vedere.
Ma ciò vuol dire poco. Le banche ombra, infatti, non possono raccogliere depositi per finanziarsi, non essendo appunto banche, e perciò per le proprie risorse devono rivolgersi al mercato dei capitali. Dal che ne segue che sono esposte a un rischio di liquidità assai peggiore rispetto alle banche tradizionali, i cui depositi, seppure a vista, sono solitamente stabili a meno di irrealistici bank run.
Cosa succede se una banca ombra si trova a corto di liquidità? Semplice: deve correre a cercarla. E poiché non è una banca e quindi non ha neanche una banca centrale alle spalle, può trovarla solo vendendo la carta di cui si alimenta, innescando terribili spirali depressionaria(fire-sales) suoi suoi attivi. In pratica quello che successo nel 2008. Oppure deve chiederla alle entità che l’hanno sponsorizzata (ossia finanziata), che solitamente è una banca, costringendola a sua volta a farsi carico del problema. Sempre come è successo nel 2008.
Barbagallo molto opportunamente di ricorda che “un fondo americano di media dimensione (il Reserve Primary Fund) con una modesta quota del proprio portafoglio (circa l’1,2 per cento, pari a 785 milioni di dollari) investito in titoli di Lehman Brothers, non fu in grado di mantenere il valore costante delle proprie quote. Il riscatto improvviso delle stesse creò non solo la crisi del fondo, ma generò negli Stati Uniti una sfiducia nell’intero comparto dei FMM (fondi monetari). In una sola settimana vi furono riscatti pari a 300 miliardi di dollari”.
“L’intervento del Tesoro americano, con un supporto per oltre 50 miliardi di dollari, ha contenuto una crisi sistemica in questo mercato, che negli Stati Uniti all’epoca aveva attività in gestione per oltre tremila miliardi di dollari”, conclude.
“Alla crescita del mercato delle cartolarizzazioni in alcuni paesi era strettamente associata una maggiore dipendenza della raccolta a breve termine sui mercati all’ingrosso. Il processo di canalizzazione della liquidità, dai detentori di fondi liquidi in cerca di rendimenti (ad esempio tramite i FMM) verso le banche d’investimento (broker-dealers), o altri soggetti che raccolgono liquidità a breve termine dando una garanzia collaterale, andò in crisi. Tra le entità attive in questi mercati vi erano anche gli hedge funds, i fondi pensione, le assicurazioni, i fondi sovrani, le società finanziarie (corporate)”.
Insomma. Si rischiò un irreparabile patatrac. “Le due clearing banks al centro del tri-party repo market (la Bank of New York Mellon e la J.P. Morgan Chase) si trovarono a gestire un eccessivo rischio di credito infragiornaliero. La Federal Reserve dovette intervenire per ripristinare la fiducia e sollecitare gli intermediari a una profonda riforma di questa importante infrastruttura di mercato”.
Capirete bene, perciò che 400 miliardi di masse gestite sono già una bella bella preoccupazione per un regolatore.
Non a caso le autorità italiane, forti anche del fatto che le nostre banche fossero meno avvezze a tali pratiche, hanno elaborato un approccio regolamentare che estendeva l’approccio della vigilanza prudenziale anche agli intermediari specializzati non bancari, cui si affiancò anche un disciplina fiscale che scoraggiava l’uso di prodotti finanziari con elevata trasformazione delle scadenze. Ciò non è bastato ad impedire che il mercato delle cartolarizzazione in Italia sia stato, negli anni prima della crisi, uno dei maggiori a livello europeo.
In tempi più recenti “le disposizioni di vigilanza sono state riviste in un’ottica di rafforzamento della vigilanza sul gruppo bancario, tenendo conto dei più avanzati standard internazionali (Core Principles for Effective Banking Supervision del Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria), e della recente evoluzione dei principi contabili e degli orientamenti internazionali in materia di shadow banking”. Quindi, pare di capire, dovremmo essere un po’ più al sicuro. Se non fosse che lo shadow banking si è dimostrato assai fantasioso nell’elaborare strategie di contenimento della regolazione.
E tuttavia Barbagallo ci ricorda che alla consapevolezza dei rischi che lo shadow banking porta con sé si aggiunge quella che sia anche capace di contribuire a promuovere la crescita. Sempre sottolineando, però, che “è importante che operino incentivi corretti; in presenza di asimmetrie informative o di altre inefficienze di mercato, anche la regolamentazione più incisiva può essere aggirata da agenti economici che perseguano, oltre il dovuto, la massimizzazione del profitto di breve termine, a scapito della stabilità”.
Insomma: la banche italiane, seppure regolate e vigilate, difficilmente resisteranno alla seduzione dei profitti teorici di questo sistema ombra, pure a costo dei rischi che esso sussume.
Faremmo bene a ricordarcelo.
Memorie d’Albione: il tradimento delle banche
E così il Regno Unito, più o meno faticosamente, sta recuperando la via della crescita, dicono gli osservatori. E ci sta riuscendo malgrado le sue banche, viene da pensare analizzando i dati contenuti nell’ultima survey che l’Ocse dedica all’UK.
Già. Le banche inglesi hanno patito forse più delle altre lo sboom seguito alla crisi del 2008. E soprattutto hanno generato un costo sociale enorme, atteso che lo Stato si è dovuto far carico dei loro problemi finanziari.
Come se ciò non bastasse, le banche inglesi sono riuscite nel miracolo di tagliare il credito alle imprese non finanziarie, aumentando al contrario quello alle famiglie. Ciò ha favorito il crollo del tasso di risparmio familiare, facendo schizzare l’indebitamento privato di questo settore, e al contempo ha sostenuto il boom dei corsi immobiliari, che così tante preoccupazioni ha sollevato e solleva fra i regolatori.
Insomma, le banche inglesi hanno in qualche modo tradito la loro vocazione di volano dell’economia nazionale, finendo col somigliare semmai a un fardello di cui la comunità si è dovuta far carico per evitare un crollo ancora più rovinoso.
Certo, non è tutta colpa loro. Il problema è che molte banche inglesi rivestono tuttora una rilevante importanza sistemica derivante, oltre che da una certa consuetudine storica, dalla rilevanza degli asset di cui dispongono. Parliamo di valori che oscillano intorno al 400% del Pil inglese e che, riporta Ocse, è previsto raddoppino da qui al 2050.
A fronte di ciò le banche inglesi mostrano debiti esteri per circa il 70% del Pil, collocandosi al terzo posto nella relativa classifica Ocse, che vede al primo posto l’Irlanda e al secondo l’Olanda.
Tutto ciò a significare che le banche inglesi sono estremamente sensibili all’andamento del contesto esterno. E l’economia nazionale di conseguenza.
Un dato usualmente poco osservato mostra come ormai da diversi anni il lato dei redditi della bilancia dei pagamenti abbia iniziato a contribuire negativamente al saldo del current account, già aggravato dall’andamento declinante delle esportazioni, lasciando ipotizzare che il crack del 2008 abbia innescato una sorta di bank run sulla sterlina, con le conseguenza che abbiamo visto sul cambio.
E in effetti, nota Ocse, il deficit delle partite correnti sta ancora intorno al 6%, e questo non è certo un buon viatico per lo stato di salute dei conti nazionali.
Lato fiscale, il contributo negativo è stato anche peggiore. L’Ocse sintetizza in un box i numerosi interventi che il governo ha dovuto mettere in gioco per salvare le sue banche. Una panoplia di decisioni che vanno dalla ricapitalizzazione, ai prestiti, dalla fornitura di garanzie alle nazionalizzazioni. Come sempre, la patria del libero mercato si scopre sempre molto interventista, quando si tratta di salvare la pelle.
Come risultato, la capitalizzazione delle banche è migliorata e gli istituti hanno ridotto alcuni palesi fragilità. Per dirvene una, gli asset fuori bilancio delle banche inglesi (ricordate come funzionava lo splendido mondo pre-2008?) si sono ridotti dai quasi mille miliardi del 2009 a poco più di 400. Noto che la quota di prestiti cartolarizzati è passata da oltre 400 miliadi e meno di 200, la quota di covered bond è rimasta pressoché costante, mentre sono crollati gli investimenti negli special purpose vehicles (SPVs), che sfiorano i 350 miliardi di sterline ormai ridotti a poche decine.
Quella che non è migliorata è stata l’erogazione di credito all’economia produttiva. “Il credito netto alle imprese è stato declinante sin dal 2009, più per le grandi imprese che per le piccole”. Ciò ha costretto le imprese più grandi a rivolgersi al mercato di capitali per i loro fabbisogni, senza però che ciò abbia impedito “una drammatica caduta nei prestiti bancari”.
Al tempo stesso le piccole e medie imprese non hanno avuto la possibilità di rivolgersi ai mercati per avere finanziamenti, quindi sono loro ad aver patito più di ogni altra impresa le conseguenza del crediti crunch.
“Al contrario, i prestiti alle famiglie sono ripresi, seppure a un moderato passo, sin dal 2010”, nota Ocse.
Per darvi un’idea di quello che è successo, osservo solo che i prestiti alle imprese medio piccole inglesi fra il 2010 e il 2012 sono sprofondati. In Italia questo non è successo. Il credito è diminuito, ma non è scomparso.
In questa scelta di prestare alle famiglie, magari mettendo a garanzia un bel mattone, invece che alle imprese scorgo un’altra sottile sfumatura del tradimento delle banche inglesi. Che tuttavia, come ogni tradimento porta con sé le conseguenze.
La prima è che il governo, ancora una volta, ha dovuto metterci una toppa, istituendo diverse iniziative a supporto dei prestiti alle SMEs, mettendo anche dei fondi sul tavolo. Sempre perché Albione è la patria del libero mercato.
La seconda è che le politiche di prestito alle famiglie hanno contribuito a far risalire il mattone, che così tanto ha contribuito al rilancio della domanda interna, ma al tempo stesso hanno aumentato il rischio a carico delle banche derivante da un possibile rialzo dei tassi, visto che questi debiti sono assai sensibili.
Ma non solo: è aumentato anche il rischio a carico delle famiglie. Gli indici dei prezzi delle case, nota l’Ocse, risultano elevati, sia il price-to-rent ratio, sia il price-to income. E ciò vuol dire che i debitori, i cui tassi di risparmio sono già al lumicino, si sono dovuti far carico di spingere il pil assumendone il rischio sulle loro spalle. Tanto più in un paese dove sono così diffusi gli interest-only-mortgages, ossia quei mutui dove paghi gli interessi fino a quando non devi restituire interamente il prestito. “Un problema, secondo l’Ocse”.
Sicché al tradimento dei banchieri bisogna sommare anche quelle consumato dalle famiglie, che adesso hanno accumulato 1.187 miliardi di sterline di debiti che prima o poi dovranno essere ripagati.
D’altronde per tradire, bisogna sempre essere (almeno) in due.
(4/fine)
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Le banche “emergenti” destabilizzano l’eurozona
Ora che tutti si stupiscono osservando il rovinoso franare della Russia, che pure era previsto e prevedibile con un po’ di attenzione, si ha gioco facile a far notare che nulla di tutto ciò dovrebbe stupire chi ha consumato ore e ore a leggere i preoccupati resoconti delle istituzioni finanziarie internazionali sulla crescente marea di rischi che le economie emergenti hanno accumulato in questi anni nei quali hanno goduto di crediti facili e crescita rigogliosa.
Tutti guardano alla Russia, ma solo perché il danno lì ormai è conclamato, ma che dire della Turchia, la cui moneta sta franando sul dollaro mentre il rublo tocca record negativi inusitati? E del Sudafrica,? del Messico? del Brasile? o della stessa Cina?
Per non ripetere cose già da lungo tempo scritte, prendo spunto dall’ultima analisi disponibile sulla situazione dei paesi emergenti non a caso contenuta nella Financial stability review della Bce pubblicata a novembre dove un box si chiede alquanto retoricamente se “la crescente importanza delle banche dei paesi emergenti pone un rischio sistemico”.
Mi limito a questo perché fotografa un aspetto del problema ancora poco osservato, ossia la possibilità che le banche di questi paesi hanno di destabilizzare il già periclitante sistema finanziario globale, sempre più ciclotimico. Ai più curiosi segnalo anche l’ultima rassegna trimestrale della Bis, di cui ho già accennato, che contiene diverse informazioni sul rischio emergenti, a cominciare dall’esposizione delle banche europee proprio verso la Russia e l’Ucraina, nonché verso la Cina per sua fortuna entrata in un cono d’ombra dei mercati. Per ora.
La prima informazione interessante la traggo da un grafico che quota il numero di banche dei paesi emergenti entrate nella classifica delle top 100 per asset totali. Una premessa: quando la Bce parla di emergenti si riferisce a Sudafrica, India, Singapore, Russia, Corea del Sud, Brasile e Cina.
Bene. Nel 2008 le banche degli emergenti nella top 100 erano 17, con la Cina a far la parte del leone con otto banche in classifica. Nel 2013, ultimo anno analizzato dal grafico, le banche emergenti entrate in classifica erano 28, delle quali 15 cinesi. Al grande balzo, oltre alla Cina, hanno contribuito la Corea del Sud, prima assente, (quattro banche) e il Brasile (quattro). Ma anche Singapore, che adesso ha due banche in classifica, come la Russia, che è rimasta allo stesso livello del 2008.
Ciò spiega perché la Bce ne deduca che “uno degli effetti nascosti della crisi finanziaria globale è stata la forte crescita del peso delle banche dei mercati emergenti nel sistema finanziario globale”. Non so voi, ma io ho avvertito un filo di inquietudine quando ho letto questa considerazione.
La pervasività della finanza in questi paesi è aumentata anche e soprattutto per i forti afflussi di capitali che la crisi ha direzionato verso questi paesi, vuoi per la fame di rendimento, vuoi perché venivano percepiti come gli unici capaci di crescere.
Qualunque sia stata la ragione, l’esito è stato che la capitalizzazione di queste banche è quasi quadruplicata in sei anni ed è arrivata a pesare il 35% del valore globale del mercato bancario. Almeno fino a quando, nel maggio 2013, la Fed non accennò solo parlandone a un inizio di tapering terremotando mezzo mondo. Per lo più emergente.
La starnuto della Fed provocò una terribile febbre agli emergenti e ciò bastò a far comprendere quanto il boom di questi paesi fosse scritto sull’acqua. Il 35% di valore globale degli asset, infatti, scese repentinamente sotto il 30%, mentre i valori complessivi passarono da 1.750 miliardi di dollari a circa 1.400.
La veloce retromarcia della Fed tornò a invertire il clima, ma sempre con circospezione. Il mondo aveva imparato la lezione, essendo peraltro troppo tardi per tornare indietro.
Sicché nel 2014 le banche emergenti sono tornate sopra il 30% della quota del valore globale delle banche per un valore di circa 1.500 miliardi. Ed è con queste cifre che tutti noi dobbiamo fare i conti. E chi pensasse che in fondo non ci riguardano, le traversie di queste entità commetterebbe un errore grave. Il mondo è troppo interconnesso per ignorare le fibrillazioni di una banca russa o cinese.
Ciò malgrado la Bce nota che “finora le banche emergenti hanno una presenza regionale”. Ma ciò non tiene conto del fatto che una crisi bancaria non è mai un fatto isolato in un paese, avendo influenze su tutti i settori dell’economia, sia interno che esterno, sia privato che pubblico.
Con un’aggravante: “Gli aspetti regionali possono avere conseguenze rilevanti per la stabilità dell’euroarea”.
Già, il problema è che “le banche emergenti residenti in paesi vicini all’euroarea/Ue hanno recentemente intensificato le loro connessioni con l’eurozona e la Ue”.
“Poiché lo stress finanziario fra le banche dei paesi emergenti può essere trasmessa all’eurozona sia a causa dell’esposizione diretta che quella indiretta, le banche emergenti significative possono avere ripercussioni sulla stabilità del settore finanziario europeo”.
Adesso che sentite parlare della crisi russa sono certo inizieranno a fischiarvi le orecchie.
I cinque dilemmi delle banche centrali
Perciò è meglio saperlo subito: se tutto andrà bene dovremo dimagrire, e parecchio. I debitori dovranno risparmiare abbastanza per abbassare i debiti senza farne di nuovi che aumentino quelli esistenti. E poi dovremo tenere le dita incrociate. Dovremo sperare che i mercati, a furia di collazionare rischi crescenti per far fronte ai rendimenti declinanti, non si stanchino e facciano saltare il tavolo. Che i governi non si lascino sedurre dalla voglia di fare la stessa cosa, magari tramite una ristrutturazione dei debiti. O magari che non finiscano col tirare il guinzaglio alle loro banche centrali puntando sull’inflazione.
Se tutto va bene saremo rovinati, insomma, ma con gentilezza.
Se tutto va male, saremo rovinati e basta.
Ora non scrivo questo per deprimervi, visto che l’ultima cosa che voglio è partecipare la gioco al massacro della nostra informazione. Lo scrivo solo perché ho finito di leggere l’intervento di Hervé Hannoun, vice direttore generale della Bis (“Central banks and the global debt overhang”) e vi ho trovato una illuminante esemplificazione dello stato in cui si trova l’economia globale, con i governi e le banche centrali, che dei governi sono un importante braccio finanziario, chiamate a fare i conti con una situazione debitoria ormai chiaramente insostenibile e che richiede di essere gestita per non rischiare di farla divenire incontrollabile.
In via prioritaria il nostro banchiere ricorda che per affrontare un così elevato livello di debito le strade conosciute sono diverse. La prima, quella ottimale, è che si ottenga una crescita più veloce che faccia decrescere l’indice del rapporto debito/pil agendo sul denominatore. Questo è il sogno proibito di tutti, ma “sfortunatamente – osserva – una crescita più veloce non può essere ottenuta per decreto”, ma richiede che i governi adottino “una ampio range di riforme strutturali e fiscali”.
La seconda opzione è un default o una ristrutturazione del debito, che “può essere inevitabile se il governo fallisce nel consolidamento fiscale”, ma non dovrebbe essere considerata “una soluzione appropriata” in quanto presuppone “un imprevedibile costo ed effetti redistributivi che possono essere meno accettabili di un consolidamento fiscale”. Inoltre “è improbabile che un default elimini i deficit e anzi potrebbe richiedere comunque misure di consolidamento”.
La terza opzione “è aumentare le tasse sulla ricchezza”. Una soluzione che “se disegnata in maniera appropriata può ridurre la diseguaglianza e rendere il consolidamento fiscale più accettabile”.
La quarta opzione “è un aumento dell’inflazione”, che però “non sarebbe accettabile dalle banche centrali e potrebbe rivelarsi insufficiente”. Anzi c’è il rischio che “il momentaneo sollievo sia gravato da un costo futuro permanente” visto che ne risentirebbe la credibilità della banca centrale” e potrebbe finire che il tasso reale aumenti, anziché diminuire.
La quinta opzione è la repressione finanziaria, costruita proprio allo scopo di tenere i tassi reali bassi. Una sorta di riedizione degli anni ’70, ma resa assai più difficile dalla circostanza che il mondo da allora è molto cambiato.
Infine rimane la soluzione dell’austerità, ossia fare i modo che i soggetti indebitati aumentino la loro capacità di risparmio e la mantengano a lungo per portare il debito in una traiettoria declinante. La logica dell’avanzo primario, insomma. che però porta con sé la spiacevole controindicazione di “una crescita più lenta per diverso tempo”.
Di fronte a tutto ciò la banca centrale deve fare i conti con i suoi personalissimi dilemmi la cui soluzione, in un modo o nell’altro, impatta sull’opzione finale che andrà a determinarsi.
Il nostro banchiere ci ricorda che finora le banche centrali hanno lavorato con l’obiettivo di ridurre gli indici del servizio del debito, ossia abbassando i tassi per diminuire il valore degli interessi in rapporto ai debiti. Quindi hanno riaffermato l’impegno a portare l’inflazione entro i target prefissati, rifiutando molti inviti del mondo accademico a ritoccarli al rialzo, e infine hanno provato a supportare la domanda riducendo i tassi a lungo con le loro misure non convenzionali.
Il problema però è che l’applicazione di queste politiche ha condotto le banche centrali di fronte non a un semplice dilemma, ma addirittura a cinque, poiché decisioni prese sull’impeto dell’emergenza hanno comunque conseguenze che devono essere gestite. Oltre a doversela vedere col debito, insomma, bisognerà pure valutare l’eterogenesi dei fini provocata dalle banche centrali.
Il primo dilemma è se le politiche monetaria non convenzionali abbiamo incentivato l’aumento dei debiti. Dilemma assai retorico, visto che è chiaro dai numeri che il debito è aumentato. Ciò che le BC hanno ottenuto è solo di diminuire il rapporto fra quota interessi e debito, ossia hanno reso tali debiti più sostenibili. Ma ciò “può creare un falso senso di comfort”, ricorda il nostro banchiere, “e disegnare un quadro fuorviante della sostenibilità“.
Il secondo dilemma è se le banche centrali possono davvero salvare il mondo dalla minaccia di una debt-deflation stile anni ’30. Hannoun è convinto che un scenario siffatto oggi sia improponibile, mentre se deflazione ci sarà, spiega, sarà sul modello Giappone degli anni ’90. Un costo tutto sommato gestibile, insomma. Al contrario, il costo di tenere i tassi bassi, in termini di incentivi al rischio, può essere assai più elevato. Per questo è necessario che innanzitutto le banche mettano i propri bilanci al sicuro e che gli stati realizzino i loro piani di consolidamento fiscale.
Il terzo dilemma è se le politiche monetarie abbiano contribuito a causare problemi di distribuzione, aumentando la diseguaglianza. Anche qui, la domanda suona assai retorica. Lo stesso banchiere ammette che che i correnti tassi bassi provocano sostanziali trasferimenti di risorse dai creditori ai debitori, e dai risparmiatori ai consumatori. “Da questo punto di vista le politiche monetarie possono essere interpretate come non differenti da quelle fiscali e quindi generare una richiesta di controllo pubblico più forte”. Ossia lo spauracchio delle banche centrali.
E infatti il quarto dilemma è proprio quella della minaccia della “fiscal dominance”, ossia la circostanza che le Bc si facciano convincere dalle esigenze fiscali dei governi, assai più che dalle considerazioni di politica monetaria, per decidere il da farsi. Usare la banca centrale come scorciatoia, insomma. E in effetti stanno proliferando le proposte più “eccentriche” come le chiama il nostro banchiere, come quella di “vendere” alle Bc obbligazioni dei governi senza interessi e irredimibili. Il trionfo del capitale fittizio del governo.
Ma è il quinto dilemma quello più pregnante: ossia quando e come normalizzare il livello dei tassi. Qui i banchieri dovranno essere capaci di calibrare i rialzi per garantire ai debitori la sostenibilità ed evitare ai creditori di assumere troppi rischi che graverebbero sul futuro. Una roba che somiglia alla mitica quadratura del cerchio.
Sarà per questo che Hannoun parla di “strategia ad alto rischio”. Se le BC sbaglieranno, avranno soltanto raggiunto l’obiettivo di aver posposto la temutissima debt-deflation senza eliminarla. E in quel caso ce la vedremo tutti assai male.
Se invece saranno brave, e se saremo capaci di risparmiare, specie quelli più indebitati, si potrebbe ottenere un graduale disindebitamento che ci garantirà una crescita lenta ma costante capace, nell’arco magari di una generazione di abbattere la montagna di debito sulla quale siamo seduti.
Nel frattempo saremo diventati tutti vecchi. Ma questo sarebbe pure il meno.
La Buba non salva nemmeno la Germania
A un certo punto mi fischiano le orecchie mentre sfoglio la sintesi dell’ultimo Financial Stability review della Bundesbank. Precisamente quando scrive che l’intoppo nel quale è finita l’Europa “è dovuto a problemi strutturali” che “non possono essere risolti attraverso misure di politica monetaria, ma solo tramite appropriate riforme”.
Il fischio diventa assordante quando leggo che “mentre i paesi europei che hanno lanciato riforme strutturali stanno mostrando chiari segni di reale ripresa, altri paesi core dell’eurozona stanno facendo solo progressi lenti nella loro implementazione” e che “il bisogno di consolidare le finanze pubbliche, alla luce dell’alto livello di debito pubblico, è stato ripetutamente chiamato in causa”.
Starà mica parlando di noi?
Ma poi andando avanti mi accorgo che, semmai, saremmo solo in buonissima compagnia. La Buba ne ha per tutti: per le banche tedesche, ancora troppo poco profittevoli ed esposte a rischi, per il mercato immobiliare nazionale, che mostra segni di pericolosità crescente, e persino per le autorità di regolazione, che devono fare tutto ciò che è necessario per togliere il trattamento preferenziale ai titoli di stato.
Dall’alto della sua torre, la Buba rotea il suo bastone all’indirizzo di mezzo mondo da brava vegliarda arrabbiata.
D’altronde, sempre dall’alto della sua torre, la Buba non ha tutti i torti. Persegue, più o meno dalla data della sua fondazione, una visione economica dove il principio aureo è quello della responsabilità a tutti i costi. E ciò spiega meglio di ogni altro termine perché saluti con soddisfazione l’avvento del nuovo principio del bail in, che costringe i creditori a metterci di tasca propria, quando fallisce una banca. In teoria.
In pratica infatti, la vecchia Buba non sembra ottimista. Poiché ne ha viste tante, sa bene che un principio teorico, specie quando condizionato da una pletora di politici bizantini, può facilmente venir vanificato dalla pratica. Di suo potrà solo vigilare, certo, ma state pur certi che le sue grida, qualora dovessero risuonare, risuoneranno forti e chiare.
Ma non sono gli sviluppi dell’Unione bancaria il principale aspetto di questa review, anche se, certo, ne occupano una parte saliente, stante le speranze che i nuovi meccanismi hanno suscitato fra i banchieri, bisognosi di restituire fiducia al sistema finanziario europeo, e segnatamente a quello bancario.
Facile capire perché. Dal 2008 l’esposizione delle banche europee verso i debitori dell’eurozona è scesa dal 191% del pil dell’area al 168%. Solo che questo aggiustamento, tutto sommato modesto ma comunque dirompente, si è verificato semplicemente con una fuga. Ossia le banche creditrici più grosse sono fuggite dai paesi debitori. Ma ciò non vuol dire che adesso stiano al sicuro. Al contrario.
La Buba osserva col sopracciglio alzato che molte banche tedesche continuano ad essere esposte in maniera significativa verso i paesi dell’eurozona, spesso gli stessi dai quali erano scappate. E questo appunto giustifica la necessità di ridar fiducia: gli stress test, il comprehensive assessment, l’Unione bancaria e tutto il resto.
Specie in un contesto in cui i tassi ai minimi termini spingono al rialzo l’appetito per il rischio. La caccia al rendimento è la bestia nera della Buba, per il suo ruolo di custode della stabilità finanziaria tedesca.”Ci sono segni che questa ricerca sta conducendo ad esagerazioni in certi segmenti di mercato – osserva – e questo effetto è chiaramente percepibile nel mercato dei corporate bond e dei prestiti sindacati”.
E poi c’è l’effetto nel mercato assicurativo e dei fondi pensione. I tassi a zero mettono sotto pressione entrambi, diventando sempre più difficile, non volendo rischiare troppo, estrarre rendimenti capaci di coprire le prestazioni.
In generale e per il momento, tuttavia, il sistema è stabile. I requisiti patrimoniali delle banche tedesche sono migliorati e la frusta della Bce, che ha spinto le banche ad adeguarli, ha sicuramente contribuito, come anche l’ingente somma messa a disposizione dal governo tedesco all’indomani della crisi.
Il problema però non è il presente, ma il futuro. La Buba ha analizzato le “sue” banche simulando vari scenari di stress macroeconomici e, in particolare, una rapida risalita dei tassi di interesse a breve termine e un andamento avverso del mercato immobiliare. “I test hanno mostrato – osserva – che, malgrado perdite crescenti, il verificarsi di questi eventi sarebbe gestibile. Ma l’esperienza insegna che i rischi macroeconomici non avvengono singolarmente. E un cumulo di rischi potrebbero provocare problemi per il settore finanziario tedesco”.
Ciò anche in quanto le banche continuano a essere deboli sul lato della redditività, e quindi sono vulnerabili sia agli shock di mercato che a fasi prolungate di tassi bassi che rischiano di prosciugarla del tutto.
Esattamente come accadrebbe se il mattone iniziasse a scricchiolare. La Buba nota con evidente raccapriccio che nelle città dove il mattone è salito di più, una quota importante dei mutui concessi ha un loan to value superiore al 100%. In pratica le banche hanno prestato una cifra persino superiore al valore dell’immobile, e questo “conduce a una vulnerabilità strutturale del sistema bancario tedesco rispetto all’andamento del mercato immobiliare nelle città”. Neanche la Germania, insomma, sfugge alla sindrome da suicidio immobiliare.
Ciò spiega perché gli occhiuti osservatori della Buba abbiano annunciato che il mattone è sorvegliato speciale.
E spiega anche perché l’ultimo capitolo sia dedicato all’affermazione del principio di responsabilità dei creditori qualora si renda necessario una risoluzione bancaria. Dal punto di vista Buba è perfettamente logico che se una banca eroga mutui con un LTV superiore al 100% e poi il debitore va in default e magari la banca di conseguenza, i primi a farsi carico del buco devono essere i padroni della banca, assai prima dello stato che, nella visione Buba, deve intervenire solo in casi estremi e attentamente regolamentati per non creare azzardo morale.
Punire i creditori incauti invece dei pagatori di tasse, insomma, è il sogno autunnale della Buba, che all’uopo ricorda l’architettura di norme che, sempre teoricamente, sono state approvate dopo il 2008 per arrivare a sostanziare questo principio.
Poi certo, fatta la legge si trova sempre l’inganno.
La prossima crisi dell’eurozona
La prossima crisi dell’eurozona non sarà provocata dai dilemmi dell’euro o dagli esiti infausti del processo di unificazione dell’area monetaria. La prossima crisi dell’eurozona partirà da dove sta già covando: dal mercato finanziario, come d’altronde è già accaduto anche in passato.
Lo capisco mentre leggo l’assai utile rapporto sulla stabilità finanziaria della Bce, dove c’è scritto a un certo punto che “sotto diversi punti di vista, le condizioni finanziarie correnti ricordano quelle dell’era prima della crisi: bassi rendimenti, alta correlazione fra i mercati, e compressione degli spread sostenuta da un livello relativamente basso di volatilità e di prevedibili default per le aziende”.
Insomma: abbiamo fatto tanta strada per tornare al punto di partenza.
Ma in realtà c’è una differenza, sottolinea la Bce. “Mentre queste condizioni hanno condotto a una significativo aumento del leveraging del settore finanziario, nell’epoca prima della crisi, l’ambiente post-crisi è stato caratterizzato da un continuo processo di deleveraging bancario”. Differenza importante, a ben vedere, atteso che è stato proprio l’eccessivo indebitamento delle banche e il conseguente richiamo di molti capitali in patria, a provocare la crisi degli spread, del debito sovrano e, in ultimo, sollevato dubbi sulla tenuta della moneta.
Dovremmo essere più tranquilli, perciò. Le condizioni sono pericolose, ma le banche hanno dimostrato di aver imparato la lezione. E adesso c’è pure l’Unione bancaria a metter loro la mordacchia.
Senonché il pericolo si è semplicemente spostato altrove, manifestandosi così l’attitudine principe dei mercati finanziari a giocare a rimpiattino, facendo sempre credere, come ebbe a titolare un celebre libro, che “questa volta è diverso”.
La stessa Bce, infatti, individua la nuova fonte di vulnerabilità. Subito dopo aver notato che le banche stanno portando avanti il deleveraging, la Banca centrale sottolinea che però “allo stesso tempo i fondi di investimento, che incorporano rischi di leverage e di riscatto, sono cresciuti di dimensione insieme al loro ruolo di intermediazione creditizia”.
Non sono più le banche la preoccupazione della Bce, insomma. Sono i fondi di investimento.
Facile capire perché. Il settore dei fondi di investimento europei è raddoppiato di taglia, dal 2009 a oggi, raggiungendo un livello di asset, a settembre scorso, di oltre 10 trilioni di euro. Per il 99% si tratta di fondi aperti. Quindi assai sensibili alle domande di riscatto dei sottoscrittori, che contano sul presupposto di poter rientrare in qualunque momento dei suoi investimenti. Ciò presuppone che tali strumenti siano molto liquidi.
Il problema, o uno dei problemi, è che si osserva in queste entità una quota declinante di asset liquidi. Ciò comporta che il fondo possa avere problemi, in caso di boom di richieste di riscatti, replicando gli effetti disastrosi, il cosiddetto fire-sale, ossia la vendita disordinata di asset, tipici del finanziamento del debito a breve. E infatti molti asset manager hanno tranquillamente ammesso di aver un livello basso di risorse finanziarie in cassa, compensato però da linee di credito presso gli istituti bancari. Ed ecco perciò che il rischio, uscito dalla porta delle banche, ha finito col rientrare dalla finestra.
Peraltro le osservazioni empiriche hanno acclarato che i clienti di queste entità sono assai sensibili ai cambiamenti di prezzo e di orientamento di politica monetaria. Quindi si tratta di investitori instabili che molto facilmente possono destabilizzare l’industria.
Ad aggravare la circostanza si aggiunge che i fondi sono altamente interconnessi con le banche europee anche perché sono importanti acquirenti del loro debito. Quindi non solo si fanno mettere a disposizione linee di credito dalle banche, ma acquistano le loro obbligazioni. Sono sia debitori che creditori. Al momento si quota che abbiamo in pancia circa il 9% del totale delle obbligazioni emesse dalle banche europee, che equivalgono a circa 370 miliardi di prestiti concessi al settore bancario.
Tale quota è cresciuta parecchio da fine 2008 a oggi, ma assai meno di quanto sia cresciuta l’esposizione dei fondi verso il settore corporate non finanziario. Le imprese europee, insomma, stanno imparando a finanziarsi sul mercato dei capitali, piuttosto che su quello bancario. Al momento i fondi detengono il 25% del totale delle obbligazioni emesse dal settore corporate, dieci punti in più rispetto a fine 2008.
Altresì è cresciuta la quota di obbligazioni governative detenute dai fondi, anche se di poco, più o meno intorno al 12%.
Complessivamente perciò, i fondi europei hanno acquistato quasi il 50% delle obbligazioni emesse da banca, imprese e stati europei. “Di conseguenza – osserva la Bce – difficoltà in questo settore possono propagarsi rapidamente a settore bancario e a quello dell’economia reale”.
Ricapitolo: prima del 2008 l’instabilità è stata veicolata e trasmessa dalle banche. Oggi potrebbe partire dai fondi di investimento che, di fatto, dal 2009 in poi, hanno iniziato a sostituire le banche alimentando lo straordinario sviluppo dello shadow banking europeo, che ormai quota asset per quasi venti trilioni di euro.
Da dove pensate comincerà la nuova crisi?
Il mattone sopravvalutato delle banche italiane
Sempre perché è utile capire l’aria che tira, ho letto con grande curiosità l’ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d’Italia che, com’era prevedibile, ha dedicato un lungo approfondimento alla questione dell’asset quality review, con relativi stress test, svolti dalla Bce e pubblicati alla fine del mese scorso.
Le cronache si sono ampiamente dilungate sulle manchevolezze di capitale di alcune banche e il market toast seguito agli stress test che ha colpito, tanto per dire, Mps, ha fatto il resto. Poi dai primi di novembre la Bce ha assunto ufficialmente il suo ruolo di supervisore e l’intera faccenda è finita nelle pieghe delle cronache, travolta dalle preoccupazioni del combinato disposto crescita bassa e disinflazione che ritma la nostra attualità.
Senonché, curiosando fra i recessi dell’imponente valutazione svolta dalla Bce sui bilanci bancari dell’eurozona, altre cose emergono, purtroppo oscurate dal dibattito pubblico.
Una in particolare ha catturato la mia attenzione. Ossia che la valutazione della Bce ha riguardato anche il terzo livello dei bilanci bancari, quello che, come si addice a qualunque terzo livello che si rispetti, è alquanto opaco.
Qui sono annidati degli attivi la cui valutazione è alquanto aleatoria, per non dire discrezionale. Vi campeggiano, ad esempio, le quotazioni di bilancio dei patrimoni immobiliari che le banche custodiscono assai gelosamente. E le italiane in particolare, visto che una quota robusta dei loro attivi sono gli immobili messi a garanzia dei prestiti che hanno concesso alle famiglie e alle imprese per i mutui per acquisto immobili, oltre agli immobili di proprietà.
Per darvi un’idea di quanto pesino, basti qui ricordare che l’esposizione verso le famiglie di mutui bancari supera i 338 miliardi di euro.
La Bce per stimare quanto valgano veramente gli immobili in pancia alle banche ha esaminato un campione di 8.000 immobili situati in Italia e all’estero per un controvalore di 33 miliardi di euro. La valutazione, che partiva dai valori di bilancio, è stata affidata a periti indipendenti.
Costoro sono arrivati alla conclusione che le stime del valore delle garanzie immobiliari delle banche italiane sono sopravvalutate dagli istituti per il 10,1%, che è di sicuro una bella cifra, anche se inferiore al 13% rilevato per l’intero campione.
Bankitalia, nel suo commento, spiega come tale differenza sia da attribuirsi sostanzialmente al ritardo col quale le banche aggiornano le valutazioni dei loro bilanci, e quindi non tengono conto del calo dei prezzi degli immobili intervenuti nel frattempo.
Sarà sicuramente così. Ma rimane il fatto che anche il 10,1% stimato è una media. Si va da un picco di sopravvalutazione del 17% per un quarto degli immobili a zero per l’ultimo quarto, con un valore mediano di circa il 6%.
In ogni caso, un aggiustamento dei valori immobiliari che li adegui ai valori correnti, ossia alle stime dei periti, implicherebbe un dimagrimento relativo dei bilanci. Il che certo non è un buon viatico per le nostre banche.
Tale circostanza peraltro interviene in un momento in cui il mercato immobiliare è ancora assai fragile.
La rilevazione svolta da Bankitalia mostra che i prezzi sono in calo praticamente dal 2007, con la curva dei prezzi che sprofonda fra il 2010 e il 2011, proseguendo il suo andamento anche fra il 2013 e il 2014.
Per darvi un’idea dello stato dell’arte, basta fare il raffronto dei prezzi fra i principali paesi dell’eurozona a partire dal 2000.
Fatto 100 l’indice dei prezzi nel 2000, l’Italia oggi mostra un livello di prezzi vicino a 140, allineato con la media della zona euro, che però evidenzia profonde differenza al suo interno. Nel momento del picco, il nostro paese aveva superato 160, di poco superiore alla media euro.
Da allora il mercato è molto cambiato. La Germania, dove la curva dei prezzi è rimasta schiacciata a 100 fino al 2010 ora si avvicina verso 120, ponendosi poco sopra l’Irlanda, che aveva toccato 200 nel 2007, e appena sotto i Paesi Bassi, che avevano raggiunto un picco di circa 150.
La Spagna, che aveva toccato un picco di 240, come il Regno Unito, ora quota circa 150 mentre in Gran Bretagna i prezzi, dopo esser calati fino a circa 180 ora svettano verso i 220.
In Belgio i prezzi hanno risentito poco della crisi, e ora si trovano al livello di quelli inglesi insieme con quelli francesi, che, nel 2011, hanno addirittura superato il picco del 2007.
Ciò vuole dire che nella zona euro c’è un gruppo di paesi dove le quotazioni sono aumentate dalla crisi in poi, altri dove sono diminuite parecchio e altri meno, fra cui, appunto c’è il nostro paese.
Tale frammentazione, l’ennesima dell’eurozona si inserisce in un contesto di crescita economica incerta e di inflazione declinante, combinazione pericolosissima per la stabilità finanziaria. Un correzione che dovesse partire dai paesi dove il mattone tira ci metterebbe un attimo a trasferirsi agli altri.
A quel punto i bilanci delle banche italiane saranno costretti a fare un esercizio di verità. Dovranno svalutare il mattone. E se le banche “ufficializzano” il calo dei prezzi, cosa succederà al mercato nel suo insieme?
Quota anno 2000 (dove peraltro il Pil è tornato di recente) è davvero dietro l’angolo.
Caccia a ottobre (in) rosso per le banche europee
Sfoglio distratto le pagine che riepilogano il lungo intervento di Ignazio Visco alla conferenza interparlamentare che le regole del fiscal compact prescrivono per gli stati, pubblicata giorni fa, ma l’unica cosa che mi suggeriscono è che il giorno della resa dei conti per le grandi banche europee è ormai dietro l’angolo.
Dal 26 ottobre la vicenda bancaria tornerà prepotentemente d’attualità con la pubblicazione dell’esito del comprehensive assessment che la Bce ha svolto in questi mesi. E solo allora sapremo se ci sarà un conto da pagare, che si aggiungerà alla già lunga lista della spesa del nostro governo, o se invece potremo tirare il fiato.
Non è una questione di poco conto. Visco ha sottolineato che “i fabbisogni di capitale risultanti dall’esercizio di valutazione dovranno essere soddisfatti in primo luogo attraverso il ricorso a risorse di natura privata”. Il che implica che eventuali carenze di capitale dovranno essere colmate dalle banche stesse e non dallo Stato. In primo luogo, però. Ma cosa succederebbe se i privati non dovessero rispondere all’appello?
Il tema è assai controverso, ed è comprensibile che nessuno azzardi una risposta. Visco, al contrario, ostenta un certo ottimismo, che solo i fatti ci diranno se è di maniera oppure se è fondato. “Al di là dell’entità dei fabbisogni di capitale che risulteranno dall’esercizio, – spiega – che prende a riferimento la situazione in essere alla fine del 2013, va ricordato che importanti risultati sono stati già ottenuti nel corso di quest’anno, rafforzando le iniziative assunte negli anni precedenti. In Italia numerosi intermediari hanno operato in bilancio ingenti svalutazioni delle poste dell’attivo (per oltre 30 miliardi nel solo 2013, per quasi 130 dal 2008), accrescendo la trasparenza dei bilanci. Sono state realizzate operazioni di rafforzamento patrimoniale per quasi 40 miliardi, di cui oltre 10 nel corso del 2014. Grazie a questi interventi le banche potranno far meglio fronte alle eventuali necessità di rafforzamento risultanti dall’esercizio”.
Per una di quelle misteriose vie che intraprende il pensiero, sapere che dal 2008 le banche italiane hanno svalutato 130 miliardi di crediti e hanno rafforzato il patrimonio per 40 miliardi, mi fa venire in mente un vecchio film degli anni ’90 che con le banche non c’entra nulla: caccia a ottobre rosso, la storia di un sottomarino sovietico sulla pelle del quale Usa e Urss giocano l’ennesimo esercizio di quel conflitto profondamente scacchistico che è stata la guerra fredda.
Ripenso alla trama e mi accorgo che in effetti le banche europee somigliano pericolosamente a quel sottomarino: sono dotate di armi nucleari, ossia gli esotici strumenti finanziari nascosti nei loro bilanci, e viaggiano negli abissi misteriosi del sistema finanziario, il loro personalissimo mare, senza che nessuno sappia bene cosa tengono ben nascosto nei loro arsenali. Sostanzialmente spaventano tutti, trattandosi di armi di distruzioni di massa, a cominciare dagli stati che pure le ospitano più che volentieri.
Da questa prospettiva il lungo discorso di Visco smette di annoiarmi e diventa interessante. L’avvio della supervisione unificata in sede europea, e segnatamente all’interno della Bce, è prevista per il 4 novembre, quindi pochi giorni dopo il disvelamento del comprehensive assessment. Da quel giorno a Francoforte si installerà una sorta di torre di controllo che potrà sindacare, finalmente fuori dai circuiti nazionali, sullo stato di salute delle banche, 120 al momento, molte delle quali fanno parte della lista dell istituzioni sistemiche che il Comitato di Basilea ha redatto. In sostanza quest’autunno vedrà il primo vagito dell’Unione bancaria, che segna l’inizio di una nuova Europa dove l’unificazione della valuta di conto viene completata dall’unificazione della moneta più consistente delle nostre economie: la moneta bancaria.
Per capire la rilevanza di questo passaggio storico, basta sottolineare come fa Visco che “l’azione di politica monetaria (della Bce, ndr), la definizione dell’Unione bancaria, il tornare a discutere di quella di bilancio, a progettare, in prospettiva, un’unione politica hanno contribuito ad avviare il ripristino durevole della stabilità finanziaria dell’area dell’euro e più favorevoli condizioni di finanziamento nei paesi esposti alle tensioni”.
L’istituzione della supervisione unificata, tuttavia, è solo il primo passo. Gli altri due, tuttavia, sono già stati compiuti e aspettano solo di essere attuati. Quindi l’attivazione del meccanismo di risoluzione e, soprattutto il più controverso: l’attivazione del fondo unico di risoluzione.
Visco ci ricorda che il consiglio unico di risoluzione sarà operativo dal primo gennaio 2015, “quando avvierà l’attività di raccolta di informazioni e di collaborazione con le autorità di risoluzione nazionali per la definizione dei piani di risoluzione delle banche. Il Consiglio, in particolare, adotterà le decisioni di risoluzione – con la collaborazione delle autorità di risoluzione nazionali – per le banche vigilate direttamente dalla BCE e per i gruppi bancari transfrontalieri”. Ma solo dal primo gennaio 2016 saranno operative anche le regole previste per il fondo unico di risoluzione che dovrebbe essere alimentato da accantonamenti delle stesse banche. Salvo per il periodo transitorio, che poi è quello che inizierà dal 1 gennaio 2015.
Ed è qui che torna la domanda: da chi dovranno essere coperte eventuali carenze di capitale che dovessero essere acclarate a fine ottobre? E chi pagherà il conto di eventuali risoluzioni bancarie che dovessero rendersi necessarie a partire dal 1 gennaio 2015?
Visco si limita a ricordarci ancora che “restano da definire, rapidamente, importanti aspetti operativi del meccanismo. Si tratta, in particolare, delle modalità per rafforzare la capacità finanziaria del Fondo di risoluzione, soprattutto nei suoi primi anni di vita, dei meccanismi per la definizione dei contributi dovuti dalle banche”. E poi che “andrà assicurato il rapido completamento dei passaggi necessari per garantire il rispetto di questa scadenza e consentire all’Italia di partecipare fin dall’inizio del 2015 alla preparazione del meccanismo unico di
risoluzione”.
Ma soprattutto è sullo schema assicurativo dei depositi che si giocherà la partita politica più importante: “Uno schema unico di assicurazione dei depositi, anche attraverso la mutualizzazione delle risorse all’interno dell’Unione, consentirebbe di affrontare meglio eventuali episodi di crisi sistemiche, attenuando decisamente i rischi di instabilità finanziaria a livello locale”.
Ed è proprio sul concetto di mutualizzazione delle risorse che andremo a vedere le carte di questa nuova eurozona. Se l’accettazione della mutualizzazione passerà per la logica degli aiuti condizionati, prevedendo al tal fine un ruolo apposito del fondo Esm, sarà evidente che l’eurozona avrà compiuto un importante passo in avanti verso l’unione fiscale utilizzando surrentiziamente quella bancaria. E non servirà molto tempo per capire se sarà così.
Una volta conclusa la “caccia” alle banche europee, che molto presto sapremo se ben capitalizzate o no, conosceremo anche chi e come dovrà pagare l’eventuale conto che la Bce presenterà ai mercati allo scopo, nobilissimo, di ristabilire la fiducia. Se poi la caccia a ottobre rosso finirà col farci scoprire banche in rosso ciò non potrà che affrettare il processo di unificazione bancaria, magari passando da una massicia stagione di fusioni e acquisizioni, visto che “il funzionamento della vigilanza unica sarà tanto più efficace quanto più verranno superati i limiti derivanti da ordinamenti ancora in gran parte nazionali”.
Ristabilire la fiducia, unificare il sistema finanziario, dopo quello monetario, preparerà anche il campo per un’ulteriore evoluzione della finanza europea. Oltre a spezzare il legame ancora forte fra banche e debito sovrano, bisognerà pure affievolire quello fra banche e imprese, cosicché queste ultime, ancora troppo dipendenti dai finanziamenti bancari, imparino a reperire fondi sul mercato dei capitali, come succede negli Stati Uniti.
Conclusione: alla fine di questo percorso avremo un nuovo sistema finanziario europeo, integrato, unificato, centralmente regolato e controllato. L’unione fiscale o politica, a questo punto, sarà solo questione di tempo.
E neanche troppo.