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La Buba non salva nemmeno la Germania


A un certo punto mi fischiano le orecchie mentre sfoglio la sintesi dell’ultimo Financial Stability review della Bundesbank. Precisamente quando scrive che l’intoppo nel quale è finita l’Europa “è dovuto a problemi strutturali” che “non possono essere risolti attraverso misure di politica monetaria, ma solo tramite appropriate riforme”.

Il fischio diventa assordante quando leggo che “mentre i paesi europei che hanno lanciato riforme strutturali stanno mostrando chiari segni di reale ripresa, altri paesi core dell’eurozona stanno facendo solo progressi lenti nella loro implementazione” e che “il bisogno di consolidare le finanze pubbliche, alla luce dell’alto livello di debito pubblico, è stato ripetutamente chiamato in causa”.

Starà mica parlando di noi?

Ma poi andando avanti mi accorgo che, semmai, saremmo solo in buonissima compagnia. La Buba ne ha per tutti: per le banche tedesche, ancora troppo poco profittevoli ed esposte a rischi, per il mercato immobiliare nazionale, che mostra segni di pericolosità crescente, e persino per le autorità di regolazione, che devono fare tutto ciò che è necessario per togliere il trattamento preferenziale ai titoli di stato.

Dall’alto della sua torre, la Buba rotea il suo bastone all’indirizzo di mezzo mondo da brava vegliarda arrabbiata.

D’altronde, sempre dall’alto della sua torre, la Buba non ha tutti i torti. Persegue, più o meno dalla data della sua fondazione, una visione economica dove il principio aureo è quello della responsabilità a tutti i costi. E ciò spiega meglio di ogni altro termine perché saluti con soddisfazione l’avvento del nuovo principio del bail in, che costringe i creditori a metterci di tasca propria, quando fallisce una banca. In teoria.

In pratica infatti, la vecchia Buba non sembra ottimista. Poiché ne ha viste tante, sa bene che un principio teorico, specie quando condizionato da una pletora di politici bizantini, può facilmente venir vanificato dalla pratica. Di suo potrà solo vigilare, certo, ma state pur certi che le sue grida, qualora dovessero risuonare, risuoneranno forti e chiare.

Ma non sono gli sviluppi dell’Unione bancaria il principale aspetto di questa review, anche se, certo, ne occupano una parte saliente, stante le speranze che i nuovi meccanismi hanno suscitato fra i banchieri, bisognosi di restituire fiducia al sistema finanziario europeo, e segnatamente a quello bancario.

Facile capire perché. Dal 2008 l’esposizione delle banche europee verso i debitori dell’eurozona è scesa dal 191% del pil dell’area al 168%. Solo che questo aggiustamento, tutto sommato modesto ma comunque dirompente, si è verificato semplicemente con una fuga. Ossia le banche creditrici più grosse sono fuggite dai paesi debitori. Ma ciò non vuol dire che adesso stiano al sicuro. Al contrario.

La Buba osserva col sopracciglio alzato che molte banche tedesche continuano ad essere esposte in maniera significativa verso i paesi dell’eurozona, spesso gli stessi dai quali erano scappate. E questo appunto giustifica la necessità di ridar fiducia: gli stress test, il comprehensive assessment, l’Unione bancaria e tutto il resto.

Specie in un contesto in cui i tassi ai minimi termini spingono al rialzo l’appetito per il rischio. La caccia al rendimento è la bestia nera della Buba, per il suo ruolo di custode della stabilità finanziaria tedesca.”Ci sono segni che questa ricerca sta conducendo ad esagerazioni in certi segmenti di mercato – osserva – e questo effetto è chiaramente percepibile nel mercato dei corporate bond e dei prestiti sindacati”.

E poi c’è l’effetto nel mercato assicurativo e dei fondi pensione. I tassi a zero mettono sotto pressione entrambi, diventando sempre più difficile, non volendo rischiare troppo, estrarre rendimenti capaci di coprire le prestazioni.

In generale e per il momento, tuttavia, il sistema è stabile. I requisiti patrimoniali delle banche tedesche sono migliorati e la frusta della Bce, che ha spinto le banche ad adeguarli, ha sicuramente contribuito, come anche l’ingente somma messa a disposizione dal governo tedesco all’indomani della crisi.

Il problema però non è il presente, ma il futuro. La Buba ha analizzato le “sue” banche simulando vari scenari di stress macroeconomici e, in particolare, una rapida risalita dei tassi di interesse a breve termine e un andamento avverso del mercato immobiliare. “I test hanno mostrato  – osserva – che, malgrado perdite crescenti, il verificarsi di questi eventi sarebbe gestibile. Ma l’esperienza insegna che i rischi macroeconomici non avvengono singolarmente. E un cumulo di rischi potrebbero provocare problemi per il settore finanziario tedesco”.

Ciò anche in quanto le banche continuano a essere deboli sul lato della redditività, e quindi sono vulnerabili sia agli shock di mercato che a fasi prolungate di tassi bassi che rischiano di prosciugarla del tutto.

Esattamente come accadrebbe se il mattone iniziasse a scricchiolare. La Buba nota con evidente raccapriccio che nelle città dove il mattone è salito di più, una quota importante dei mutui concessi ha un loan to value superiore al 100%. In pratica le banche hanno prestato una cifra persino superiore al valore dell’immobile, e questo “conduce a una vulnerabilità strutturale del sistema bancario tedesco rispetto all’andamento del mercato immobiliare nelle città”. Neanche la Germania, insomma, sfugge alla sindrome da suicidio immobiliare.

Ciò spiega perché gli occhiuti osservatori della Buba abbiano annunciato che il mattone è sorvegliato speciale.

E spiega anche perché l’ultimo capitolo sia dedicato all’affermazione del principio di responsabilità dei creditori qualora si renda necessario una risoluzione bancaria. Dal punto di vista Buba è perfettamente logico che se una banca eroga mutui con un LTV superiore al 100% e poi il debitore va in default e magari la banca di conseguenza, i primi a farsi carico del buco devono essere i padroni della banca, assai prima dello stato che, nella visione Buba, deve intervenire solo in casi estremi e attentamente regolamentati per non creare azzardo morale.

Punire i creditori incauti invece dei pagatori di tasse, insomma, è il sogno autunnale della Buba, che all’uopo ricorda l’architettura di norme che, sempre teoricamente, sono state approvate dopo il 2008 per arrivare a sostanziare questo principio.

Poi certo, fatta la legge si trova sempre l’inganno.

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Scricchiola la stabilità finanziaria tedesca


La nube dei Pigs che da qualche mese si addensa nel cielo sopra Berlino è finita nel mirino degli attentissimi metereologi della Bundesbank.

Non siamo ancora all’allarme meteo, però le previsioni volgono al brutto.

Tanto è vero che l’ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria, rilasciato pochi giorni fa dalla Banca centrale tedesca, è stato accompagnato da preoccupate allocuzioni dei pezzi grossi della Buba.

Il perché è presto detto.

La Banca centrale vede chiaramente i rischi per la stabilità finanziaria tedesca delle scelte espansiva di politica monetaria della Bce, teme per la montagna di miliardi prestate all’estero dalle banche tedesche e dalle assicurazioni e registra con somma preoccupazione l’andamento del mercato immobiliare, che è sempre più surriscaldato e perciò incoraggia le famiglie tedesche a accendere mutui sempre più onerosi e le banche a farsi carico della rischiosità che ne consegue,

Quello che è successo nei Piigs negli anni buoni, potrebbe capitare a Berlino negli anni brutti.

Il succo è tutto qua.

Da qui l’allarme.

“Più a lungo verrà mantenuto l’ambiente di tassi bassi, più si sposta l’equilibrio fra costi e benefici – scrive la Banca – I persistenti tassi di interesse bassi stanno ponendo un rischio crescente sulla stabilità finanziaria”.

Il problema è generale, visto che “sui mercati finanziari internazionali c’è un pericolo crescente che la ricerca di rendimenti incrementi in maniera esagerata la quota di investimenti rischiosi”. E più si darà la sensazioni che tali politiche monetarie dureranno, più alto sarà il costo quando le politiche torneranno normali.

Con l’aggravante che le istituzioni finanziarie tedesche, nel confronto con i propri competitori, “dovranno rivedere i loro modelli di business e consolidare i loro bilanci” per prepararsi adeguatamente alla fine della bonanza monetaria.

A preoccupare sono innanzitutto le assicurazioni lato vita, dove “i tassi bassi stanno erodendo i buffer di capitale, visto che fanno più difficoltà a guadagnare” mentre sono costretti a garantire almeno un rendimento minimo ai loro sottoscrittori.

Come se non bastasse, la crisi del debito sovrano in Europa non è ancora finita. Per risolverla, scrive la Buba, “bisogna abolire il trattamento regolatorio preferenziale assegnato all’esposizione bancaria sui debiti sovrani“, oltre a procedere con speditezza sulla strada dell’Unione bancaria.

Se dai temi generali sollevati dalla Buba si va alle questioni specificamente tedesche, il tono non è meno allarmante.

A parte la situazione degli assicuratori, i cui contratti con i clienti prevedono rendimenti assai maggiori di quelli attualmente garantiti sui mercati (a meno di non correre più rischi), a preoccupare la Buba è anche il sistema bancario.

“Nel sistema bancario tedesco – scrive la banca – il reddito da interessi è la fonte maggiore di guadagni. Tassi bassi restringono i margini da interesse, che si stanno erodendo sin dal 1980”. E non sembra che il mondo bancario tedesco stia facendo quanto necessario per consolidarsi.

L’abbondante liquidità, infatti, “sta impedendo il necessario cambio strutturale nelle banche dell’eurozona”, aggravando quella connessione fra queste ultime e il debito sovrano favorito dal trattamento preferenziale che hanno i bond pubblici secondo le regole di Basilea (rischio zero, quindi nessuna necessità di capitale). “Questo privilegio – dice la Buba – deve essere abolito nel breve termine”.

E sarà pure un caso ma ieri le cronache hanno riportato che la Bce considerà i bond pubblici risk free in sede di asset quality review, quindi fino a novembre 2014. E dopo “verranno messi sotto pressione”, ha detto Yves Mersch. Ancora non è chiaro come.

Ma di sicuro le banche tedesche dovranno farci i conti.

Tuttora la classe di asset composta dai crediti verso i paesi dell’eurozona afflitti dalla crisi del debito sovrano (compresi quind i bond pubblici) pesa parecchio sui loro portafogli e “ha ancora un enorme potenziale capace di causare default e contagio”.

Tanto per dare un’idea di che cifre si parla, la Buba ricorda che le banche tedesche, dopo quelle francesi, sono quelle che hanno i crediti più rilevanti nei confronti di Grecia, Irlanda, Portogallo e Cipro, ossia dei paesi sottoposti a programma di rientro, ma anche nei confronti di Italia e Spagna.

Fra il 2009 e il 2013 le banche tedesche hanno tagliato la loro esposizione nei confronti di questi paesi di ben 198 miliardi di euro, arrivando a 234 miliardi totale. In particolare, le banche tedesche “tagliarono notevolmente l’esposizione nei confronti del governo italiano (evviva lo spread, ndr) e delle banche spagnole (finite sotto tutela Esm, ndr)”.

Ma ancora oggi le banche tedesche hanno in pancia 234 miliardi di crediti nei confronti dei Piigs. L’Italia, in particolare, ha debiti nei confronti del tedeschi per 96 miliardi, la Spagna per 82 e i quattro paesi sotto programma altri 56.

Capite bene perché i tedeschi pregano per la nostra buona salute.

Come se non bastasse, le banche tedesche si sono esposte seriamente anche nei confronti dei paesi emergenti.

A metà del 2013 la montagna di crediti concessi ha superato i 155 miliardi di dollari. Se questi paesi, sui quali incombe la minaccia dell’exit strategy americana, finiranno vittime di un deflusso di capitali nel prossimo futuro, le banche tedesche potrebbero subirne le conseguenza.

A differenza delle banche, invece, le assicurazioni, alla disperata caccia di rendimenti capaci di ripagare i sottoscrittori, hanno aumentato l’esposizione nei confronti dei vari Piigs, che a metà 2013 quotava 137 miliardi, il grosso dei quali, 112 miliardi, concentrati in Italia e Spagna.

In pratica stiamo pagando le rendite ai tedeschi assicurati con le nostre tasse.

E ciò malgrado le assicurazioni tedesche si stanno mangiando le loro riserve.

Torniamo un attimo alle banche.

C’è un’altra classe di asset che genera preoccupazione. In particolare quella legata ai rischi di credito derivante dall’esposizione in alcuni settori specifici, come le cartolarizzazioni o  l’esposizione bancaria estera nel settore degli immobili commerciali.

Lato cartolarizzazioni, le banche tedesche hanno ridotto di 21 miliardi, portandolo a 94 miliardi, il book value delle operazioni cartolarizzate. Il grosso di questa cifra, il 52%, è rappresentato da residential mortgage backed securities (RMBS), un altro 19% sono CDO (collateralised debt obligations) e un altro 10% sono CMBS (commercial mortgage-backed securities). I prestiti studenteschi cartolarizzati sono appena l’8%.

Lato mattone, l’esposizione delle prime otto banche tedesche in prestiti esteri legati agli immobili commerciali è arrivato a quota 105 miliardi nel primo quarto del 2013, 16 in meno di fine 2011. Il grosso di questa esposizione, il 22%, è allocata in Gran Bretagna, seguita dagli Usa (21%), Francia (12%) mentre Spagna, Italia e portogallo cumulano un 14% e l’Olanda appena il 7%. Anche questa esposizione estera è fonte di rischio, scrive la Buba, al contrario di quella delle stesse banche nei confronti del settore commerciale interno.

Ciò non vuole che il mattone non sia diventato infatti una delle fonti di preoccupazione della Buba.

Al contrario.

Era facile prevederlo. In un mercato profondamente deflazionato dalla crisi, gli investitori immobiliari non potevano che rivolgere la propria attenzione verso il mattone tedesco, l’unico grande mercato che nel corso degli anni ha visto calare costantemente le proprie quotazioni reali. Peggio (o meglio, dipende dai punti di vista) ha fatto solo il Giappone.

“L’esperienza di altri paesi – scrive – ha mostrato che un boom immobiliare finanziato a debito rappresenta uno dei più seri rischi alla stabilità finanziaria”.

Ecco la nube dei Pigs che spaventa la Buba.

“La crescita dei prezzi immobiliari ha continuato nel 2012 – sottolinea -. I prezzi in sette grandi città sono aumentati in media dell’8,6% e basandosi sui primi tre quarti del 2013, le sette città potrebbero registrare un aumento ulteriore del 9% quest’anno”. Un dato particolarmente allarmante, se si considera che in queste aree “i prezzi sono aumentati di un quarto fra il 2009 e il 2012”.

La fine del boom immobiliare nei Pigs ha spostato l’attenzione sul moderato e solido mercato tedesco, evidentemente.

Un’altra rilevazione, infatti, calcola che “in 125 piccole città tedesche i prezzi sono saliti in media del 5%”. “Questo suggerisce che l’inflazione dei prezzi delle case si stia trasferendo dalle grandi città alle piccole”.

Il che fa venire l’orticaria ai nostri banchieri centrali che sottolineano come, basandosi su rilevazioni demografiche e statistiche, si possa già stimare che “le proprietà residenziali potrebbero essere sopravvalutate del 20% nelle città più attrattive”.

Ecco la nube dei Pigs che si fa bella grossa.

E infatti “le banche tedesche hanno registrato un chiaro aumento delle domande di mutuo delle famiglie sin dal 2010”.

Da ciò ne deriva che “è assolutamente necessario che l’aumento corrente dei prezzi non incoraggi le banche ad assumersi rischi eccessivi”. Proprio per evitare che dalle nuvola dei Piigs comincino a piovere guai.

Sono i guai di chi ha troppi soldi e non sa più dove metterli, quelli tedeschi

Ma sempre guai sono.

Le banche zavorrano il riequilibrio tedesco


Nel paradiso terrestre della Germania le banche somigliano al serpente biblico. Lo stesso Fondo monetario, che nel suo ultimo Staff report ha definito la Germania un “safe heaven”, vista la robustezza dei suoi fondamentali, non può fare a meno di rilevare che “il settore finanziario continua a trovarsi di fronte delle sfide strutturali”, e che il sistema bancario, benché abbia fatto progressi, “rimane ancora vulnerabile”.

Le ragioni di tale vulnerabilità sono molteplici. La prima, strutturale, è la politica di bassi tassi seguita dalla Bce, che se da un lato favorisce la domanda di credito, (in teoria, perché in pratica la domanda di credito è ancora molto debole) dall’altro indebolisce sempre di più il margine di redditività delle banche, oltre a mettere sotto pressione tutto il settore assicurativo e dei fondi pensione.

Come se non bastasse, sebbene le banche tedesche abbiano migliorato i propri requisiti di capitale, e si apprestino ad adeguarsi agli standard di Basilea III, a livello strutturale i loro requisiti patrimoniali rimangono deboli, in confronto ad altri competitori globali. Ciò anche a causa dell’alto livello di crediti deteriorati, il 41 per cento dei quali riguardano l’eurozona e il resto il settore immobiliare commerciale internazionale e diverse attività cartolarizzate.

Ed ‘ stata proprio l’eurozona il territorio sul quale si è consumato gran parte del riequilibrio bancario fra il 2007 e il 2012.

Un grafico elaborato dal Fmi mostra con chiarezza che a fine 2007 l’esposizione estera delle banche tedesche quotava 3.110 miliardi di euro, dei quali oltre 500 miliardi nei confronti dei GIIPS (gli ex Piigs). Sul finire del 2012, l’esposizione era diminuita del 36%, fermandosi a quota 1.989 miliardi, e uno dei rientri maggiori di capitali tedeschi dall’estero è stato compiuto proprio ai danni degli stati del Sud Europa, nei confronti dei quali l’esposizione è crollata di oltre la metà, mentre è rimasta stabile la quota di esposizione nei confronti di altri paesi dell’area.

In compenso la montagna di soldi che il governo tedesco ha messo sul piatto per sostenere il settore nel corso della crisi (29 miliardi di capitale e 174 miliardi di garanzie) ha dato i suoi frutti: 12 miliardi sono stati già restituiti dalle banche al Fondo di stabilità finanziaria (SoFFin) e rimangono in piedi appena 1,1 miliardi di garanzie. Ciò ha consentito a uno degli anelli più deboli della catena bancaria tedesca, le Landesbanken, di effettuare un corposo deleveraging e di migliorare il proprio coefficiente Tier 1.

Malgrado tutto ciò, la dipendenza della grandi banche tedesche dal finanziamento all’ingrosso rimane alta e il Fmi  suggerisce agli istituti di aumentare ancora la propria dotazione di capitale, specie in vista dell’attivazione del meccanismo di supervisione europeo, che convolgerà circa i due terzi dell’intera sistema bancario.

A tal proposito, il Fmi nota che “la visione delle autorità tedesche nei confronti dell’Unione Bancaria non è pienamente allineata con quella di livello europeo. Le autorità tedesche sembrano particolarmente riluttanti nell’adozione di un’autorità centrale di risoluzione“. D’altronde lo stato di salute del sistema bancario nazionale giustifica i timori relativi a una gestione sovranazionale del meccanismo di risoluzione (leggi fallimento).

Le complessità del settore finanziario si innestano in un più ampio meccanismo di riequilibrio che, nell’opinione del Fondo monetario, è ormai ineludibile per la Germania, definita “un’ancora di stabilità per la regione”.

Il presupposto è che il peso dell’export sul Pil tedesco è quasi raddoppiato negli ultimi anni, arrivando a sfiorare il 90%, grazie anche alle esportazionei crescenti nei confronti dell’Asia, ma soprattutto grazie all’interconnessione crescente con alcuni paesi dell’Est, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Slovacchia.

Che l’economia tedesca sia sempre più export-led, tuttavia, porta con sé alcune fastidiose controindicazioni. A cominciare dalla crescente sensibilità agli shock globali.

Il partner principale del commercio tedesco è ancora l’Europa, dice il Fondo, ma l’interrelazione con Usa e Cina “è molto più ampia di quella che certificano le statistiche”. Trattandosi di un’economia molto aperta, è del tutto fisiologico che “il sistema finanziario tedesco sia altamente interconnesso con il resto del mondo, e quindi esposto all’evoluzione dello sviluppo altrui”.

E qui si torna al problema iniziale: “Poche grandi banche tedesche sono notevolmente interconnesse con altre banche sistemiche globali europee. Queste grandi banche hanno tuttora una notevole esposizione all’estero e sono esposte a rischi di ricadute interne da shock esteri”.

Ricapitoliamo: il successo dell’economia tedesca, ossia il boom delle esportazioni, porta con sé il rischio di pesanti contraccolpi finanziari, visto che commerciare con l’estero porta con sé di dover tessere rapporti sempre più complessi e sostanziosi con altre banche e con altri paesi.

Tali rischi sono mitigati, ma non eliminati, dai robusti fondamentali macroeconomici di cui gode la Germania: bassi livelli di debito pubblico e privato, che la rendono capace di assorbire meglio gli shock. Ma ciò non vuol dire che il paese non abbia bisogno di una robusta inversione di tendenza.

Il Fmi dedica un capitolo del suo staff report proprio a questo: la tenuta della stabilità esterna. Il conto corrente tedesco è cresciuto di un altro 0,8% nel 2012, arrivando al 7% del Pil. Molto di tale progresso, tuttavia, è dipeso dalla contrazione degli investimenti e dal calo di import, visto che dal 2007 il saldo positivo di conto corrente nei confronti dei GIIPS è andato costantemente declinando (in parallelo, e non è un caso, col rientro dall’esposizione bancaria nei confronti di questi paesi). Ciò dimostra una volta di più che la Germania, con le sue banche, finanziava le sue esportazioni nei paesi del Sud Europa.

E tuttavia il “dividendo” dell’euro ha consentito alle Germania di accumulare una posizione netta sull’estero pari a circa il 40% del Pil: una montagna di denaro che in qualche modo deve essere impiegata. E che non è detto duri per sempre.

L’analisi del Fmi, infatti, individua un gap del conto corrente corretto per il ciclo di 5-6 punti di Pil, in parte dovuto alla mancanza di un meccanismo di aggiustamento del tasso di cambio entro l’unione monetaria e in parte agli sviluppi in altri paesi dell’area dell’euro. A proposito di cambio, il Fondo calcola che il tasso reale di cambio risulta sottovalutato fra il 2 e il 10% e si trova circa l’8% al di sotto la sua media storica.

Sarà per questo che nelle sue previsioni il Fondo stima che nel medio termine il conto corrente tedesco si ridurrà di circa il 2-3% del Pil e perciò sarebbe prudente, scrive, “che tale processo di naturale riequilibrio fosse accompagnato da riforme strutturali nei settori non legati al commercio”.

Insomma: la Germania dovrebbe investire di più su un modello di sviluppo non export-led. “Non sarebbe inappropriato – scrive il Fmi – che i salari reali crescessero. Ciò aiuterebbe a migliorare la labor share della ricchezza nazionale e aiuterebbe la domanda domestica, rendendo l’economia meno vulnerabile agli shock esterni. Meglio ancora se tutto venisse accompagnato da riforme fiscali e del sistema finanziario”.

Le autorità tedesche hanno replicato che in effetti la crescita dei salari è in atto e quindi, dal loro punto di vista, il riequilibrio è già in corso. Peraltro tutto ciò sta avvenendo in un momento di crescita dei valori immobiliari che “vengono attentamente monitorati”, anche per le importante ricadute che tale settore ha sul settore finanziario.

E qui si chiude il cerchio. Lo stato di salute delle banche tedesche rischia rallentare il riequilibrio del paese. Al saldo positivo del conto corrente, infatti, corrisponde ovviamente un saldo negativo sul conto finanziario della bilancia dei pagamenti. I larghi afflussi di capitali tedeschi all’estero sono insieme la fonte dei notevoli guadagni sui redditi delle partite correnti, ma al contempo la fonte di rischio principale di banche ancora deboli sul versante della redditività, e sottocapitalizzate.

Sono loro il peso che zavorra il riequilibrio tedesco.