Etichettato: unione bancaria

Non fare l’Europa costa molto più di 2,8 trilioni

Il problema di fronte al quale ci troviamo noi europei è l’esatto opposto di quello lamentato da Massimo D’Azeglio all’indomani dell’unità d’Italia. Fatta quella, disse il letterato, pittore e politico del XIX secolo, rimaneva da fare gli italiani. Noi europei, invece, ormai più che fatti direi finiti, siamo ancora in attesa che si faccia l’Europa.

E a quanto pare dovremo ancora attendere a lungo, visto che l’argomento migliore che il Parlamento Europeo riesce a trovare per convincere gli indecisi – ossia i governi europei più che i cittadini – è che se la nostra struttura istituzionale fosse più robusta – se “facessimo l’Europa” sul serio – saremmo in grado di generare 2,8 trilioni di pil in più nell’orizzonte di scenario, che poi è il 2032.

Il pil, insomma. Il fatto economico che dovrebbe determinare la ragione politica, per la felicità degli orfani di Marx. L’Europa, nel suo cuore politico, mostra di rimanere robustamente ancora all’argomento misurabile – el dinero – e convincente per antonomasia per provare a sedurre gli scettici che dubitano delle riforme messe in campo e non ancora finalizzate. Ne ricordiamo solo due di cui abbiamo discusso più volte qui: l’unione bancaria e l’unione del mercato dei capitali. Che hanno a che fare col l’argent, ovviamente, ma perché come è accaduto sin dalla sua nascita l’Europa solo su das Geld ha trovato di che intendersi. Il denaro è davvero il linguaggio comune della nostra società.

Ma se davvero pensiamo questo, e abbiamo definitivamente abbandonato l’idea di poter costruire la nostra identità seguendo il retaggio di quello spirito europeo che attraversava l’Europa intellettuale già nel Settecento e anche dopo, quando era del tutto naturale per un governo avere un primo ministro di un’altra nazionalità e non esistevano confini impenetrabili né passaporti, allora eleviamo questo argomento al rango di universale e proponiamo ai nostri partner dell’Occidente e dell’Oriente un nuovo patto con l’argomento che avremo tutti più money.

Se inseguire la ricchezza vi sembra una motivazione poco nobile da mettere alla base di una nuova idea di convivenza, contentatevi di osservare che nella storia è bastato questo per trasformare in meglio le nostre società, pure se a costi rilevanti. L’Europa si inizierebbe a fare sul serio se si facesse portatrice di una proposta nuova, capace non solo di piacere a noi europei, che le vogliamo bene per stanchezza, ma anche ad altre regioni del mondo.

Nell’attesa che si faccia – la proposta, non l’Europa – contentiamoci del rapporto del Parlamento sul costo della non-Europa. Che è elevato. Ma più di quanto pensiamo.

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La ricetta Bce per l’EZ: lasciar fare alla Bce

Poiché l’eurozona è un caso di scuola, per come è nata e come si conduce, non dovete stupirvi nel notare la gran quantità di studi e ricerche che nell’ultimo ventennio, e in particolare da quando è esplosa la crisi, sono stati dedicati all’annosa questione di come farla funzionare. Fra i tanti ne ho scovato uno recente che vale la pena sottoporvi per la semplice ragione che proviene dagli economisti della Bce, la cosa più europea che conosco, e poi perché ha una ricetta semplicissima per far procedere le cose: lasciar lavorare la Bce, almeno nel breve periodo, fino a quando non saremo in grado, noi europei, di dotarci di istituzioni funzionanti.

Il paper si intitola “Macroeconomic stabilization, monetary-fiscal interactions, and Europe’s monetary union” e non va considerato nulla di più di quello che è: un’esercitazione accademica per provare a quadrare il cerchio di un’area economica che ha una banca centrale senza avere uno stato. Tale caratteristica, che è stata la vera innovazione istituzionale rappresentata dall’eurozona, è insieme la croce e la delizia degli eurodotati, e di conseguenza il punto di partenza di qualunque analisi che si proponga di arrivare a soluzioni capaci di restituire una crescita decente a un territorio così vasto e così benestante e che malgrado la sua ricchezza (o forse proprio a causa della sua ricchezza) non riesce a emergere dalle secche di una stagnazione strisciante.

“L’eurozona ha attraversato un periodo prolungato di attività economica debole e inflazione molto bassa”, notano gli autori, che sottolineano come ormai sia conoscenza comune, più volte reiterata dagli stessi banchieri centrali, che la politica monetaria da sola non basti a risolvere il problema. E poi come di recente abbia preso quota l’idea che a questo livello di tassi serva una politica fiscale accomodante per stimolare la crescita.

Ed ecco perché il paper ipotizza una strategia a doppio binario che mette insieme le cose. L’idea è semplice e si compone di due elementi distinti. Il primo è l’introduzione di un nuovo strumento finanziario, una sorta di eurobond non soggetto a default, emesso da un fondo dell’ez (tipo l’Esm per intenderci). Per asset non soggetto a default, gli autori intendono uno strumento che, emesso all’interno di una strategia di intervento politico, possa essere convertibile in moneta alla pari – in pratica monetizzato – analogamente a quanto avviene per le riserve in deposito presso la Bce. Emettendo questi asset, il Fondo potrebbe acquistare debito pubblico nazionale, sotto precise condizionalità. Inoltre, “il fondo, soggetto a un controllo democratico, potrebbe disporre di una limitata abilità fiscale uniforme fra gli stati membri, ad esempio un piccolo sovrappiù sull’Iva” e potrebbe anche spuntare qualche ricavo da signoraggio dalla Bce. Notate l’inciso sul “controllo democratico”.

Il secondo elemento della strategia è che gli stati dell’eurozona devono essere messi in grado di ristrutturare, se necessario, il proprio debito pubblico in maniera ordinata, potendo contare sull’assistenza del Fondo come acquirente di ultima istanza e come fornitore di risorse anche per il Risolutore unico dell’Unione bancaria (SRM) nel caso sia necessario sostenere il sistema bancario in crisi dopo la ristrutturazione del debito sovrano, sfruttando il meccanismo unico di copertura di depositi per evitare corse agli sportelli.

“Si potrebbe sostenere – riconoscono gli autori – che un’istituzione che emette debito non soggetto a default già c’è, ossia la Bce, e che la soluzione più semplice sarebbe che questa istituzione agisse come descritto. Infatti un mix di policy, dove si combinano tassi bassi e espansione della base monetaria per comprare debito pubblico nazionale, come implementato dal public sector purchase programme, insieme con un accomodamento fiscale rimale un’opzione sensibile sul breve termine. Nel paper – concludono – noi spieghiamo come la struttura istituzionale che include il fondo appare preferibile nel medio lungo termine”.

Provo a tradurre: intanto che c’è lasciate lavorare la Bce. Poi si vedrà.

Caccia al tesoro dei fondi pensione e delle assicurazioni

In un mondo dove prevale l’eterogenesi dei fini, è buona prassi interrogarsi sulle conseguenze non intenzionali di scelte – al contrario – non soltanto volute ma serratamente perseguite. Decisioni sistemiche che diventano esistenziali e che solitamente non occupano la nostra attenzione finché non si trasformano in coordinate reali della nostra vita.

E’ già accaduto più volte e il copione si sta ripetendo. L’unione monetaria è diventata un tema popolare solo dopo l’esplodere della crisi, e quella bancaria solo quando, entrata in vigore la normativa sul bail in, le persone comuni hanno scoperto che la moneta bancaria in comune cambiava antiche consuetudini – la socializzazione delle perdite bancarie ad esempio – e ne hanno sofferto le conseguenza non appena si sono verificati alcuni problemi con le banche.

Lo stesso accadrà non appena l’Europa completerà l’ambizioso progetto che è stato chiamato Capital Market Union (CMU), che ormai da mesi sta sviluppando una narrativa purtroppo ancora confinata nel recinto del sapere specialistico, ma in costante e coerente evoluzione.

Grande protagonista di questo racconto è la Commissione Ue, che rilascia continuamente documenti che temo siano letti da pochi, fra i quali segnalo un action plan diffuso alla fine del settembre scorso, e, più di recente, un altro approfondimento pubblicato in aprile in cui vengono svolte alcune analisi, relative al mercato finanziario europeo, delle quali una in particolare ha attirato la mia attenzione, visto che calcola l’impatto sul mercato dei capitali europeo dei fondi pensioni privati e dei fondi di riserva delle pensioni pubbliche. La qualcosa ha interesse non solo perché ci dà la misura di come questi investitori – i cosiddetti investitori istituzionali – impattino sui mercati europei, ma soprattutto – ed è qui che il discorso diventa interessante – come potrebbero contribuirvi in un’ottica di unificazione dei mercati di capitali.

Queste risorse, pare di capire, potrebbero essere utilizzate per ottimizzare la capacità finanziaria dell’economia europea. Dal che deduco che queste entità, custodi di tesoretti di milioni accumulati dai lavoratori nel corso della loro carriera, saranno chiamate a contribuire di più e meglio alla finanza europea e scovo in questa strategia un pensiero perfettamente coerente con lo spirito del nostro tempo: poiché la finanza è malata, dobbiamo fare più finanza per farla guarire. L’eccesso, come cura dell’eccesso: vale d’altronde per la liquidità e i debiti, perché non dovrebbe valere per gli strumenti finanziari che in fondo sono l’una e l’altra cosa insieme? L’esempio americano, che è la pietra di paragone costante dell’analisi della Commissione Ue, è chiaramente ciò a cui dobbiamo tendere perché giudicato, in ultima analisi ottimale. Peccato sia soggetto a guasti, di tanto in tanto.

Staremo a vedere. Intanto è utile ricordare i dati presi a prestito dall’analisi. Alcuni grafici aiutano a dimensionare il problema. Il primo dà una metrica dell’ammontare di questi asset disponibili. Assicurazioni e fondi pensioni cumulano insieme quasi 10 trilioni di euro. Per la precisione sono 9.300 miliardi, dei quali la maggior parte, pari a 7.300 miliardi, sono in pancia alle assicurazioni. E’ utile sapere che queste ultime investono assai più in bond che in fondi di investimento (circa il doppio) mentre i fondi pensione hanno la politica opposta, quindi privilegiano i fondi di investimento. Il secondo grafico ci misura il peso specifico rispetto al Pil di queste entità nei singoli paesi.

E’ proprio questo tesoretto l’oggetto del desiderio dei nostri decisori. Il pensiero è che, in un contesto di unione dei capitali, queste risorse potrebbero essere usate con maggiore efficienza per dare ossigeno agli investimenti e al mercato dei finanziamenti. Cosa comporterebbe per i legittimi proprietari di queste risorse, però, è tutto da vedere.

(1/segue)

Puntata finale

Ecco quanto ci costerebbe un crack bancario stile 2008

Pensare al meglio e prepararsi al peggio, ammonisce la saggezza popolare, che ormai scopro essere patrimonio persino dei cerebralissimi economisti di Bruxelles.

Costoro, assai versati nel maneggio di algoritmi, come peraltro tutti gli esemplari di questa nutrita genìa, ci hanno regalato un delizioso paper l’aprile scorso (“Banking Stress Scenarios for Public Debt Projections”) che mi è suonato come un omaggio, postumo ma non per questo tardivo, proprio  a quel buonsenso che l’economania matematizzata che impera nel nostro evo ammalato aveva relegato nello sgabuzzino delle scope del pensiero, a uso di vecchi e bambini.

Lo hanno fatto chiedendosi una cosa che ci chiediamo tutti: cosa succederebbe ai bilanci pubblici, e quindi in definitiva a ognuno di noi noi, se si verificasse un crack bancario stile 2008?

Già il fatto che se lo chiedano è di per sé degno di nota. In fondo non deve essere così remota, questa possibilità se ha dignità di ricerca.

Anche perché quasi 600 miliardi dopo – tanto è costato all’incirca agli stati europei il salvataggio del sistema bancario otto anni fa – è quantomeno saggio chiedersi quanto ci costerebbe di nuovo ripulire le banche dai loro problemi, che in fondo sono i nostri. Almeno per sapere se possiamo permettercelo.

Ed è qui che l’econometrista dà il meglio di sé. Produce cifre belle tonde, al netto certo di astrusissime ipotesi, ma si spinge ancora oltre. Ne fornisce pure per mostrare come il conto di un altro crack diminuirebbe sensibilmente con un sistema di bail in funzionante e meglio ancora con un fondo di risoluzione gonfio di denari da spremere.

Ed è così, in questo lieto fine, che l’economia suggella il suo ennesimo matrimonio con la politica, con la quale è tutt’uno, checché ne dicano gli specialisti.

Ma poiché di chiacchiere ne ho fatte già troppe, passo a illustravi per sommicapi teorie e conteggi di questo notevole lavoro, dandovi subito la migliore delle notizie: al bilancio pubblico italiano, nella peggiore delle ipotesi, le banche da salvare costerebbero appena uno 0,89% del Pil: una decina di miliardi.

I risultati sono sommarizzati in una semplice tabella, che però richiede una qualche prolusione per essere apprezzata.

Vale la pena ricordare i danni che possono fare le banche ai bilanci pubblici. E il caso dell’Irlanda, che fra il 2007 e il 2013 ha visto il debito/Pil crescere di quasi 100 punti, o della Spagna, dove è cresciuto “solo” il 50%, è più che giovevole alla bisogna.

Vi risparmio la premessa tecnica e metodologica. Basta sapere che le stime sono ricavate dal modello Symbol (Systemic Model of Banking Originated Losses) che simula le perdite utilizzando dati bancari reali presi da Bankscope, un database commerciale.

Nel modello si stima un monte di asset bancari pari a oltre 37 trilioni di euro, che copre il 72% del totale degli asset bancari europei. Di queste banche, 71 sono considerate sistemiche perché hanno asset superiori a 3 miliardi di capitale Tier 1, cui corrisponde un indice, ai sensi di Basilea III, dell’8%.

Sulla base dell’esperienza post 2008, che ha condotto a perdite e ricapitalizzazioni per un totale di circa 590 miliardi, il modello ipotizza un impatto simile di una ipotetica crisi futura, con l’avvertenza che si tratta di una probabililtà “teoretica” più che teorica quella che la magnitudo di una futura crisi abbia impatto simile a quella post 2008.

Insomma, al netto di queste ed altre ipotesi, il modello estrae alcune stime che, al di là della loro attendibilità ci dicono alcune cose sul sistema bancario europeo e in particolare su quali sistemi bancari nazionali siano più o meno robusti. La simulazione ipotizza che l’evento bancario traumatico si verifichi nel 2015.

La prima informazione che traggo dai risultati è che i paesi più esposti, dal punto di vista fiscale, a causa della fragilità del loro sistema bancario sono il Portogallo, che rischia di pagare fino al 6% del Pil il crack delle sue banche, quindi la Spagna e l’Olanda, cui un dissesto bancario potrebbe costare fino, rispettivamente, al 3,5 e al 4% del Pil.

Anche la Francia, che ha uno dei sistemi bancari più importanti dell’area, rischia di pagare un conto salato, quasi il 3% del suo Pil. Al contrario Belgio e Italia se la caverebbero con relativamente poco: 0,76 il Belgio e 0,89 l’Italia. Il primo perché il peso degli RWS (risk-weighted assets), ossia gli asset ponderati per i rischio, è basso. La seconda perché ha un alto livello di capitalizzazione.

La Germania se la caverebbe con l’1,73%, un po’ più dell’UK, all’1,66%.

I risultati cambiano, ed è facile capire perché, se attorno al bilancio pubblico viene attivato il salvagente del bail in e del fondo di risoluzione, ossia tutto ciò che l’Europa ha realizzato nell’ultimo biennio, in particolare con l’approvazione dell’Unione bancaria.

Nel caso italiano, l’applicazione del bail in ridurrebbe l’onere a carico del bilancio pubblico allo 0,45% e se fosse operativo anche il fondo di risoluzione, arriveremmo allo 0,05%. Per gli altri paesi il copione si replica, ma vi risparmio le cifre perché il ragionamento è chiaro.

Bail in e fondo di risoluzione, insomma, abbattono notevolmente l’impatto delle crisi bancarie sul bilanci dello stato.

Come volevasi dimostrare.

L’ottimismo della volontà: l’unione politica di Supermario

Mentre lucida il suo bazooka, pronto a riporlo se del caso, il presidente della Bce, Mario Draghi, fa sfoggio del suo migliore ottimismo della volontà circa gli esiti della guerra alla deflazione che la banca centrale europea ha iniziato ormai da mesi.

I mercati attendono il prossimo 22 gennaio, quando il consiglio della Bce annuncerà i suoi prossimi passi operativi, come il D-day del quantitative easing in salsa europea, pur consapevoli che quanto farà la banca servirà al più a dare una scossa, ma non sarà certo risolutivo.

Ma il punto non è tanto sapere se e quanti titoli pubblici la Bce comprerà sul mercato primario, opzione peraltro controversa e invisa ai paesi nordeuropei. La questione saliente è squisitamente politica. In gioco non c’è soltanto un pacchetto di miliardi che la Bce, magari per il tramite delle banche centrali nazionali, inietterà sul mercato. Ciò di cui discute è l’assetto dell’unione monetaria, la sua precisa costituente.

A tal proposito il nostro Supermario ha le idee chiarissime e chiunque abbia letto i suoi tanti interventi negli ultimi anni lo sa bene.

Ai più distratti vale la pena segnalarne uno che Draghi ha rilasciato lo scorso 2 gennaio nell’ambito del Projcet Syndicate, dal titolo eloquente: “Stability and prosperity in Monetary Union”.

Un paio di paginette appena, ma pregne, come si dice. Già dall’inizio.

“C’è un comune malinteso sul fatto che l’euro area sia un’unione monetaria senza un’unione politica – osserva – . Ma questo riflette un profondo fraintendimento su ciò che un’unione monetaria sia. Un’unione monetaria è possibile solo in virtù di una sostanziale integrazione già acquisita fra i paesi europei, e condividere una moneta unica approfondisce questa integrazione”.

Il punto di vista, insomma, è esattamente l’opposto di quello contrabbandato in questi anni da tanta stampa. L’unione monetaria è stata possibile solo perché c’era già una sostanziale unità d’intenti sull’unione politica.

D’altronde chi frequenti la storia europea questo lo sapeva già. Guardando in casa nostra, basta ricordare un celebre saggio di Luigi Einaudi, intitolato “Per una federazione economica europea”, dove già si delineava la necessità di una moneta comune, manifestandosi con ciò la volontà di superare i vecchi stati nazionali, delegando la sovranità economica e militare a un’entità sovranazionale.  Ricordo a tal proposito il fallimento, determinato dai francesi, della Comunità europea di difesa del 1953, che avrebbe dato sostanza a questa visione assai prima dell’euro.

Il tema, quindi, non è tanto quello del più Europa, come incita la pubblicista mainstream, ma quello della presa d’atto che il più Europa c’è già. Manca solo di essere statuito.

A tal proposito Draghi ha gioco facile a ricordare che gli osservatori hanno sottostimato l’investimento politico che l’Europa ha fatto sulla moneta unica, segnale evidente dell’intento, che data ormai più di sessant’anni, di arrivare a una sostanziale unione politica,passando magari per succedanei di un bilancio fiscale unico.

Ciò non vuol dire che i giochi siano fatti. Lo stesso Draghi riconosce che “l’unione monetaria è ancora incompleta”. E all’uopo ricorda la lettera dei quattro presidenti che un paio di anni fa le principali autorità europee, compreso lui, rilasciarono all’opinione pubblica per illustrare il percorso di integrazione dell’Unione, rispetto al quale “importanti progressi sono stati fatti”.

Ma cosa significa esattamente unione incompleta? La risposta è molto pragmatica: “Significa disporre di condizioni grazie alle quali i paesi membri sono più stabili e prosperi di quanto non sarebbero se fossero fuori dall’Unione”. Risposta ovvia, ma incompleta a sua volta. La domanda è come creare queste condizioni.

“In altre unioni politiche – sottolinea Draghi – la coesione è mantenuta attraverso una forte identità comune, ma spesso anche tramite trasferimenti fiscali permanenti dalle regioni ricche a quelle più povere. Nell’euro area questi trasferimenti non sono previsti. Questo significa che abbiamo bisogno di un approccio differente per creare le condizioni che assicurino che ogni paese tragga vantaggio dall’Unione”.

Ciò ci permette di capire quale sia, nella visione di Draghi, la via europea all’Unione politica. Il primo passo è che le regole europee devono mettere ogni paese nella condizione di prosperare autonomamente: “Tutti i paesi membri devono essere in grado di sfruttare i vantaggi comparativi all’interno del mercato unico, attrarre capitali e generare posti di lavoro. E hanno bisogno di avere sufficiente flessibilità per rispondere rapidamente a shock a breve termine. Questo deriva dall’adozione di riforme strutturali che stimolino la concorrenza, riducano la burocrazia superflua, e rendano i mercati del lavoro più flessibili”.

Le riforme, dunque.

Il problema è che finora la decisione di adottare o meno tali riforme è stata “largamente una prerogativa nazionale”, mentre “in un’Unione sono un chiaro interesse comune”. Come dire: se l’Italia non fa le riforme, che sono anche interesse della Germania, l’entità sovranazionale dovrebbe disporre degli strumenti per “costringere” l’Italia a farle. Ciò significa “passare da un coordinamento a un processo decisionale comune, dalle regole alle istituzioni”.

La seconda implicazione dell’assenza di trasferimenti fiscali è che “i paesi devono investire di più in altri meccanismi per condividere il costo degli shock”. “Anche nelle economie più flessibili – sottolinea – gli aggiustamenti interni saranno sempre più lenti di quanto sarebbero se i paesi avessero la libertà di disporre del loro tasso di cambio”. Quindi? La soluzione è creare un meccanismo di condivisione del rischio “per evitare che le recessioni lascino cicatrici permanenti e rafforzino le divergenze economiche”.

La strada indicata per sviluppare meccanismi di risk-sharing è quella di approfondire l’integrazione finanziaria: “Meno condivisione pubblica del rischio vogliamo, più serve condivisione privata del rischio”. Ed ecco spiegata la logica dell’unione bancaria e degli altri profondi quanto poco osservati cambiamenti intrapresi dall’infrastruttura finanziaria europea. Condividere il rischio privato, infatti, significa responsabilizzare tutte le banche, ma anche i mercati dei capitali, per arrivare a una rapida unione finanziaria.

E ciò malgrado la variabile fiscale riveste e rivestirà sempre un’importanza vitale. Uno shock fiscale in un paese ha conseguenza chiare su tutti gli altri, quindi “è fondamentale che le politiche fiscali nazionali siano in grado di interpretare un ruolo di stabilizzazione”. E questo spiega i vari fiscal compact che affliggono le nostre contabilità pubbliche.

Ma c’è un caveat: “Per consentire alle  fiscalità nazionali di funzionare, un governo deve potersi finanziare a un costo sostenibile in periodi di stress. Un forte framework fiscale è indispensabile, ma l’esperienza della crisi suggerisce che in tempi di tensione estrema anche un paese con una posizione fiscale soddisfacente può essere soggetto a contagio”. E questo ci riporta alla riunione del 22 gennaio prossimo, quando il principio teorico dovrebbe tramutarsi in pratica, come anche ha ribadito in un’intervista all’Irish Time Benoit Couré, componente del direttorio Bce, sottolineando che perché tale politica funzioni  “deve essere grande”.

Per questo serve l’unione economica, che ristabilisce fiducia nei momenti di crisi: “Con l’impegno dei governi a attuare le riforme strutturali, l’unione economica rafforza la credibilità circa la capacità dei paesi dell’unione di crescere senza fare debiti”.

Sicché, “per completare l’unione monetaria dobbiamo approfondire ulteriormente la nostra unione politica: definire i diritti e doveri in un ordine istituzionale rinnovato”. E state pur certi che la Bce farà la sua parte, nella costruzione della nuova costituzione materiale dell’eurozona, visto che quella formale è stata bocciata (sempre dai francesi). Cominciando proprio dal suo personalissimo QE.

Ma attenzione: approfondire ulteriormente l’Unione politica. Non cominciare a farla.

Per il semplice fatto che c’è già.

(2/segue)

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La Buba non salva nemmeno la Germania

A un certo punto mi fischiano le orecchie mentre sfoglio la sintesi dell’ultimo Financial Stability review della Bundesbank. Precisamente quando scrive che l’intoppo nel quale è finita l’Europa “è dovuto a problemi strutturali” che “non possono essere risolti attraverso misure di politica monetaria, ma solo tramite appropriate riforme”.

Il fischio diventa assordante quando leggo che “mentre i paesi europei che hanno lanciato riforme strutturali stanno mostrando chiari segni di reale ripresa, altri paesi core dell’eurozona stanno facendo solo progressi lenti nella loro implementazione” e che “il bisogno di consolidare le finanze pubbliche, alla luce dell’alto livello di debito pubblico, è stato ripetutamente chiamato in causa”.

Starà mica parlando di noi?

Ma poi andando avanti mi accorgo che, semmai, saremmo solo in buonissima compagnia. La Buba ne ha per tutti: per le banche tedesche, ancora troppo poco profittevoli ed esposte a rischi, per il mercato immobiliare nazionale, che mostra segni di pericolosità crescente, e persino per le autorità di regolazione, che devono fare tutto ciò che è necessario per togliere il trattamento preferenziale ai titoli di stato.

Dall’alto della sua torre, la Buba rotea il suo bastone all’indirizzo di mezzo mondo da brava vegliarda arrabbiata.

D’altronde, sempre dall’alto della sua torre, la Buba non ha tutti i torti. Persegue, più o meno dalla data della sua fondazione, una visione economica dove il principio aureo è quello della responsabilità a tutti i costi. E ciò spiega meglio di ogni altro termine perché saluti con soddisfazione l’avvento del nuovo principio del bail in, che costringe i creditori a metterci di tasca propria, quando fallisce una banca. In teoria.

In pratica infatti, la vecchia Buba non sembra ottimista. Poiché ne ha viste tante, sa bene che un principio teorico, specie quando condizionato da una pletora di politici bizantini, può facilmente venir vanificato dalla pratica. Di suo potrà solo vigilare, certo, ma state pur certi che le sue grida, qualora dovessero risuonare, risuoneranno forti e chiare.

Ma non sono gli sviluppi dell’Unione bancaria il principale aspetto di questa review, anche se, certo, ne occupano una parte saliente, stante le speranze che i nuovi meccanismi hanno suscitato fra i banchieri, bisognosi di restituire fiducia al sistema finanziario europeo, e segnatamente a quello bancario.

Facile capire perché. Dal 2008 l’esposizione delle banche europee verso i debitori dell’eurozona è scesa dal 191% del pil dell’area al 168%. Solo che questo aggiustamento, tutto sommato modesto ma comunque dirompente, si è verificato semplicemente con una fuga. Ossia le banche creditrici più grosse sono fuggite dai paesi debitori. Ma ciò non vuol dire che adesso stiano al sicuro. Al contrario.

La Buba osserva col sopracciglio alzato che molte banche tedesche continuano ad essere esposte in maniera significativa verso i paesi dell’eurozona, spesso gli stessi dai quali erano scappate. E questo appunto giustifica la necessità di ridar fiducia: gli stress test, il comprehensive assessment, l’Unione bancaria e tutto il resto.

Specie in un contesto in cui i tassi ai minimi termini spingono al rialzo l’appetito per il rischio. La caccia al rendimento è la bestia nera della Buba, per il suo ruolo di custode della stabilità finanziaria tedesca.”Ci sono segni che questa ricerca sta conducendo ad esagerazioni in certi segmenti di mercato – osserva – e questo effetto è chiaramente percepibile nel mercato dei corporate bond e dei prestiti sindacati”.

E poi c’è l’effetto nel mercato assicurativo e dei fondi pensione. I tassi a zero mettono sotto pressione entrambi, diventando sempre più difficile, non volendo rischiare troppo, estrarre rendimenti capaci di coprire le prestazioni.

In generale e per il momento, tuttavia, il sistema è stabile. I requisiti patrimoniali delle banche tedesche sono migliorati e la frusta della Bce, che ha spinto le banche ad adeguarli, ha sicuramente contribuito, come anche l’ingente somma messa a disposizione dal governo tedesco all’indomani della crisi.

Il problema però non è il presente, ma il futuro. La Buba ha analizzato le “sue” banche simulando vari scenari di stress macroeconomici e, in particolare, una rapida risalita dei tassi di interesse a breve termine e un andamento avverso del mercato immobiliare. “I test hanno mostrato  – osserva – che, malgrado perdite crescenti, il verificarsi di questi eventi sarebbe gestibile. Ma l’esperienza insegna che i rischi macroeconomici non avvengono singolarmente. E un cumulo di rischi potrebbero provocare problemi per il settore finanziario tedesco”.

Ciò anche in quanto le banche continuano a essere deboli sul lato della redditività, e quindi sono vulnerabili sia agli shock di mercato che a fasi prolungate di tassi bassi che rischiano di prosciugarla del tutto.

Esattamente come accadrebbe se il mattone iniziasse a scricchiolare. La Buba nota con evidente raccapriccio che nelle città dove il mattone è salito di più, una quota importante dei mutui concessi ha un loan to value superiore al 100%. In pratica le banche hanno prestato una cifra persino superiore al valore dell’immobile, e questo “conduce a una vulnerabilità strutturale del sistema bancario tedesco rispetto all’andamento del mercato immobiliare nelle città”. Neanche la Germania, insomma, sfugge alla sindrome da suicidio immobiliare.

Ciò spiega perché gli occhiuti osservatori della Buba abbiano annunciato che il mattone è sorvegliato speciale.

E spiega anche perché l’ultimo capitolo sia dedicato all’affermazione del principio di responsabilità dei creditori qualora si renda necessario una risoluzione bancaria. Dal punto di vista Buba è perfettamente logico che se una banca eroga mutui con un LTV superiore al 100% e poi il debitore va in default e magari la banca di conseguenza, i primi a farsi carico del buco devono essere i padroni della banca, assai prima dello stato che, nella visione Buba, deve intervenire solo in casi estremi e attentamente regolamentati per non creare azzardo morale.

Punire i creditori incauti invece dei pagatori di tasse, insomma, è il sogno autunnale della Buba, che all’uopo ricorda l’architettura di norme che, sempre teoricamente, sono state approvate dopo il 2008 per arrivare a sostanziare questo principio.

Poi certo, fatta la legge si trova sempre l’inganno.

La prossima crisi dell’eurozona

La prossima crisi dell’eurozona non sarà provocata dai dilemmi dell’euro o dagli esiti infausti del processo di unificazione dell’area monetaria. La prossima crisi dell’eurozona partirà da dove sta già covando: dal mercato finanziario, come d’altronde è già accaduto anche in passato.

Lo capisco mentre leggo l’assai utile rapporto sulla stabilità finanziaria della Bce, dove c’è scritto a un certo punto che “sotto diversi punti di vista, le condizioni finanziarie correnti ricordano quelle dell’era prima della crisi: bassi rendimenti, alta correlazione fra i mercati, e compressione degli spread sostenuta da un livello relativamente basso di volatilità e di prevedibili default per le aziende”.

Insomma: abbiamo fatto tanta strada per tornare al punto di partenza.

Ma in realtà c’è una differenza, sottolinea la Bce. “Mentre queste condizioni hanno condotto a una significativo aumento del leveraging del settore finanziario, nell’epoca prima della crisi, l’ambiente post-crisi è stato caratterizzato da un continuo processo di deleveraging bancario”. Differenza importante, a ben vedere, atteso che è stato proprio l’eccessivo indebitamento delle banche e il conseguente richiamo di molti capitali in patria, a provocare la crisi degli spread, del debito sovrano e, in ultimo, sollevato dubbi sulla tenuta della moneta.

Dovremmo essere più tranquilli, perciò. Le condizioni sono pericolose, ma le banche hanno dimostrato di aver imparato la lezione. E adesso c’è pure l’Unione bancaria a metter loro la mordacchia.

Senonché il pericolo si è semplicemente spostato altrove, manifestandosi così l’attitudine principe dei mercati finanziari a giocare a rimpiattino, facendo sempre credere, come ebbe a titolare un celebre libro, che “questa volta è diverso”.

La stessa Bce, infatti, individua la nuova fonte di vulnerabilità. Subito dopo aver notato che le banche stanno portando avanti il deleveraging, la Banca centrale sottolinea che però “allo stesso tempo i fondi di investimento, che incorporano rischi di leverage e di riscatto, sono cresciuti di dimensione insieme al loro ruolo di intermediazione creditizia”.

Non sono più le banche la preoccupazione della Bce, insomma. Sono i fondi di investimento.

Facile capire perché. Il settore dei fondi di investimento europei è raddoppiato di taglia, dal 2009 a oggi, raggiungendo un livello di asset, a settembre scorso, di oltre 10 trilioni di euro. Per il 99% si tratta di fondi aperti. Quindi assai sensibili alle domande di riscatto dei sottoscrittori, che contano sul presupposto di poter rientrare in qualunque momento dei suoi investimenti. Ciò presuppone che tali strumenti siano molto liquidi.

Il problema, o uno dei problemi, è che si osserva in queste entità una quota declinante di asset liquidi. Ciò comporta che il fondo possa avere problemi, in caso di boom di richieste di riscatti, replicando gli effetti disastrosi, il cosiddetto fire-sale, ossia la vendita disordinata di asset, tipici del finanziamento del debito a breve. E infatti molti asset manager hanno tranquillamente ammesso di aver un livello basso di risorse finanziarie in cassa, compensato però da linee di credito presso gli istituti bancari. Ed ecco perciò che il rischio, uscito dalla porta delle banche, ha finito col rientrare dalla finestra.

Peraltro le osservazioni empiriche hanno acclarato che i clienti di queste entità sono assai sensibili ai cambiamenti di prezzo e di orientamento di politica monetaria. Quindi si tratta di investitori instabili che molto facilmente possono destabilizzare l’industria.

Ad aggravare la circostanza si aggiunge che i fondi sono altamente interconnessi con le banche europee anche perché sono importanti acquirenti del loro debito. Quindi non solo si fanno mettere a disposizione linee di credito dalle banche, ma acquistano le loro obbligazioni. Sono sia debitori che creditori. Al momento si quota che abbiamo in pancia circa il 9% del totale delle obbligazioni emesse dalle banche europee, che equivalgono a circa 370 miliardi di prestiti concessi al settore bancario.

Tale quota è cresciuta parecchio da fine 2008 a oggi, ma assai meno di quanto sia cresciuta l’esposizione dei fondi verso il settore corporate non finanziario. Le imprese europee, insomma, stanno imparando a finanziarsi sul mercato dei capitali, piuttosto che su quello bancario. Al momento i fondi detengono il 25% del totale delle obbligazioni emesse dal settore corporate, dieci punti in più rispetto a fine 2008.

Altresì è cresciuta la quota di obbligazioni governative detenute dai fondi, anche se di poco, più o meno intorno al 12%.

Complessivamente perciò, i fondi europei hanno acquistato quasi il 50% delle obbligazioni emesse da banca, imprese e stati europei. “Di conseguenza – osserva la Bce – difficoltà in questo settore possono propagarsi rapidamente a settore bancario e a quello dell’economia reale”.

Ricapitolo: prima del 2008 l’instabilità è stata veicolata e trasmessa dalle banche. Oggi potrebbe partire dai fondi di investimento che, di fatto, dal 2009 in poi, hanno iniziato a sostituire le banche alimentando lo straordinario sviluppo dello shadow banking europeo, che ormai quota asset per quasi venti trilioni di euro.

Da dove pensate comincerà la nuova crisi?

Il mattone spinge la Danimarca nell’Unione bancaria

Non era poi difficile immaginare che Eurolandia avrebbe finito con l’allargarsi per via bancaria. In un mondo dove la moneta bancaria è quella che conta veramente, la denominazione dell’unità di conto rimane un dettaglio. Importante, ma sempre un dettaglio.

Questa riflessione, che a molti parrà esorbitante, quando non addirittura incompetente, me l’ha ispirata la lettura dell’ultimo intervento di Lars Rohde, governatore della banca centrale della Danimarca (The Danish economy against the background of global economic developments), paese che, come tutti sanno, aderisce all’Unione Europea, ma non all’euro. Per cui è rimasto fuori dalla diatriba sulla moneta unica di questi ultimi anni, ma non dalla tempesta finanziaria ed economica che tale diatriba ha scatenato e che ancora non si placa.

Ricorderete che il progetto di Unione Bancaria, ormai pienamente operativo dopo la pubblicazione degli stress test e l’inizio novembrino della supervisione unificata della Bce sulle principali banche dell’eurozona, prevedeva fra le altre cose che i paesi esterni all’euro avessero la possibilità di rimanere fuori dalla moneta unica, mentre sarebbe stati i benvenuti qualora avessero deciso, dopo l’avvio della supervisione, di aderire al progetto di Unione bancaria. Che in pratica significa innanzitutto mettersi sotto le amorevoli ali protettive della Bce, nel suo ruolo di supervisore. Ma poi, e soprattutto, di entrare anche nei costituendi meccanismi di risoluzione, con fondo annesso, e di assicurazione unificata dei depositi.

In questa lunga e travagliata storia, la Danimarca ha assunto il ruolo di osservatore. Ma ciò non vuol dire che sia rimasta neutrale. Quando la Bce, sin dal giugno scorso, ha portato il tasso sui depositi in territorio negativo, la banca centrale danese ha fatto lo stesso abbassando i tassi sui certificati di deposito, che poi determinano i tassi sul mercato monetario, a -0,05%. Ciò ha inserito la Danimarca nel novero dei paesi europei che hanno intenzione di tenere i tassi assai bassi che i mercati, dice il nostro banchiere, “non si aspettanno verranno alzati prima del 2017”, con la conseguenza che l’euro da inizio anno ha perso circa il 10% sul dollaro e non accenna a riprendersi, per la gioia degli esportatori.

Questa situazione monetaria sta in qualche modo facilitando l’economia danese che, ancora immersa in un ondeggiante chiaroscuro, vede un aumento dell’occupazione fare da contraltare a una situazione della crescita ancora altalenante che però, secondo la banca centrale, è il prologo di una ripresa più robusta, col governo che esibisce un deficit fiscale entro la soglia del 3% e un deficit strutturale dello 0,5%, nei limiti quindi delle regole europee. La qualcosa porta con sé la fastidiosa controindicazione – in quanto i numeri sono al limite del consentito – di non aver spazi fiscali di manovra qualora il clima economico torni a volgere al brutto.

E il brutto, in Danimarca, è annidato innanzitutto nel mercato immobiliare, vuoi per le sue ricadute sull’economia reale, vuoi per quelle che può determinare sulla stabilità finanziaria.

Ciò in quanto il sistema finanziario danese esibisce una sua specificità, peraltro assai comune. Vale a dire l’esistenza di entità finanziarie espressamente dedicate all’emissioni di bond basati sui mutui, in qualche modo alternative alle banche commerciali. “E’ essenziale – spiega Rohde – che si preservi la fiducia nel sistema danese di credito per i mutui”, visto che “i bond basati sui mutui sono uno strumento molto importante nella gestione della liquidità bancaria”. Tanto più in un mercato che ha visto i corsi immobiliari diminuire notevolmente negli anni brutti della crisi e dove le famiglie sono pesantemente indebitate.

Di recente i prezzi degli immobili sono risaliti, ma in maniera diseguale e con differenze regionali considerevoli e tali discrasie, spiega il banchiere, “non possono certo essere risolte dal sistema del credito basato sui mutui”. Il quale, peraltro, ha avuto diversi problemi di reputazione negli ultimi anni. “Le agenzie di rating – osserva ancora – hanno cambiato opinione sul sistema danese dei mutui e se c’è un accordo generale su fatto che il rating di credito meriti una A, la questione è quante A debba avere”. Che è un modo elegante per dire che il sistema è sicuro, ma non si sa bene quanto.

Nel dubbio, il governo e la banca centrale hanno agito per via regolatoria per provare a scoraggiare le assunzioni eccessive di rischio, con la conseguenza però che sono sorti interrogativi se le norme elaborate per rendere più solide le banche che finanziano i loro mutui emettendo obbligazioni non abbiano finito col creare una malsana competizione con le banche ordinarie, pure se, come ammette Rohde “le banche e le banche che lavorano solo con i mutui hanno modelli di business separati”.

Il problema è sorto dal 2008 in poi, quando i regolatori hanno notato che i consumatori si rivolgevano sempre più alle banche di mutuo, chiamiamole così, per avere prestiti, piuttosto che alle banche ordinarie. Usavano, vale a dire, la garanzia rappresentata dal mattone come collaterale per avere liquidità. La controindicazione che tale pratica porta con sé è però che “il sistema del credito basato sui mutui è vulnerabile se i prezzi delle case cadono”.

Insomma: anche la Danimarca è appesa al rischio del calo dei corsi immobiliari. Ed è facile capire perché: i bond emessi sui mutui sono basati su un certo valore del collaterale. Se tale valore cala, i bond ne risentono direttamente e le banche che devono emetterne sempre di nuovi per finanziare a breve i loro investimenti a lungo, di conseguenza.

Perciò, osserva il banchiere “è essenziale che tale sistema sia disegnato in modo da poter reggere anche quando i prezzi delle case cadono”. Tanto più ricordando che i prezzi delle case sono estremamente sensibili agli aumenti del tassi che, prima o poi, arriveranno. “Se i tassi rimangono al livello attuale – dice – per un periodo molto lungo, i prezzi possono salire sostanzialmente, ma se gli interessi vanno su, i prezzi delle case possono cadere sostanzialmente”. E un calo dei prezzi delle case in un’economia basata sul debito privato, come quella danese, e dove lo stato non ha spazi fiscali, può diventare rapidamente un incubo.

Ed è qui che entra in scena l’unione bancaria. La risposta danese ai rischi per la stabilità finanziria insiti nel mercato del credito immobiliare è necessariamente legata alla costruzione di meccanismi regolamentari ancora più stringenti. E in tal senso l’ingresso nell’Unione bancaria potrebbe consentire alla Danimarca di raggiungere il suo scopo semplicemente appoggiandosi all’universo Bce.

Dice infatti Rohde: “Non ho dubbi: la Danimarca, i possessori di casa danesi e il sistema danese di credito immobiliare hanno un grande interesse acché a Danimarca partecipi all’Unione bancaria. Un buon modo per assicurare il futuro del sistema danese del credito immobiliare è la partecipazione al meccanismo unificato di supervisione. Fuori dall’Unione bancaria può succedere di tutto”. Dentro, quindi, sembra di capire, si sta al riparo.

L’argomento di Rohde suonerà familiare a molti di noi. Meglio dentro che fuori, nei meccanismi sovranazionali, perché, come osserva il banchiere “l’unione non terrà certamente conto dei desideri di un piccolo paese del Nord”.

Ovviamente, prerequisito di tale ingresso è che la supervisione accolga amorevolmente fra le sue braccia anche il settore del credito immobiliare danese, che è quello che fa patire di più i regolatori nazionali. E questo dal punto di vista di Rohde non è per nulla problematico.

E poi c’è il vantaggio che l’unione bancaria rafforza il mercato unico dei servizi finanziari e sarebbe una iattura per la Danimarca, osserva ancora, perdere quest’occasione.

Ciò spiega perché il nostro banchiere sia convinto che “la partecipazione all’Unione bancaria serve all’interesse dei danesi”.

Bisognerà vedere se i politici concorderanno. Ma intanto è divertente notare come cambino i tempi, ma non gli argomenti.

 

 

Dopo gli stress test sul ponte sventola bandiera b(i)anca

C’è sempre del metodo nella follia, e dovremmo ricordarlo tutti. E basta osservare quanto sia scrupolosa la metodica dei matti per comprendere quanto ciò che a noi pare insensato, a loro appaia assolutamente coerente.

Perciò se l’avvio della supervisione unificata della Bce, che inizia oggi, vi è sembrata avventata, è bene sappiate che la volontà dei banchieri ha una coerenza ferrea e un obiettivo addirittura storico: cambiare il volto della finanza europea. Vi sembra una follia? Ricordatevi allora che non solo c’è del metodo, ma che è estramente cogente.

Per capire esattamente la questione, basta dare una lettura all’intervento di Erkki Liikanen, governatore della banca centrale finlandese (“On a sound and growth-enhancing financial sector in Europe”) che si potrebbe definire un piccolo manifesto politico già a partire dalla conclusione.

Le banche, dice il nostro banchiere, svolgono un ruolo particolarmente importante nel settore finanziario europeo, in quanto fonte principale di finanziamento per le piccole e medio imprese. Al tempo stesso hanno un ruolo critico per la stabilità finanziaria. La crisi dell’euro lo ha dimostrato con chiara evidenza. Entrambi le due caratteristiche non sono particolarmente apprezzate dai banchieri centrali, che invece vorrebbero un sistema meno bancocentrico, quindi capace di far arrivare finanziamenti alle imprese sempre più dal mercato dei capitali non bancari, e soprattutto banche strettamente controllate e decisamente poco interessate a comprare i titoli di stato dei paesi dove risiedono.

Raggiungere un tale obiettivo porta con sé due precise scelte: da un lato sviluppare sempre più i mezzi alternativi di finanziamento, quindi favorire lo sviluppo di un sistema bancario ombra basato su intermediari non bancari, per far arrivare credito alle imprese. Dall’altro stringere sempre più la maglia della regolazione che, oltre alle banche europee, ormai controllate dall’occhiuta entità di Francoforte, includa lo stesso sistema ombra che la stessa occhiuta controllora vorrebbe sempre più monitorare, atteso che delle banche ombra sono riconosciuti i vantaggi, ma soprattutto i rischi sistemici che portano con sé.

In tal senso, la scelta della Bce di comprare Abs è un tassello del complesso mosaico che si sta costruendo. Al fine immediato di far arrivare credito alle imprese per via indiretta, si sovrappone quello di medio periodo di creare una classe di titoli securizzati che, per caratteristiche e composizione, siano giudicati abbastanza sicuri dal mercato. In modo che, un domani, quando la Bce smetterà di comprarli, rimarrà l’abitudine a considerare questi asset, che sono l’ossigeno che tiene in vita le banche ombra, come un buon collaterale per tute le operazioni che alimentano il mercato dei capitali.

A ben vedere, quello che la Bce sta facendo comprando Abs è comunicare fiducia su questa classe di obbligazioni. Che servono adesso, ma serviranno assai più dopo.

D’altro canto bisogna tenere a bada le banche. La mordacchia della supervisione unificata, che ha spostato la vigilanza bancaria dal livello nazionale a quello sovranazione è un ottimo viatico per costringere le principali banche europee, al netto di alcune vistose eccezioni come le casse di risparmio tedesche, a fare le brave. A non esagerare con i rischi. E soprattutto a incoraggiarle a fondersi l’una con l’altra in omaggio al darwiniano ed attualissimo principio che nella giungla come in finanza solo i più forti meritano di sopravvivere.

Da questo punto di vista gli stress test, e soprattutto il market toast che gli azionisti dell’italiana Mps hanno conosciuto da subito, giovano perfettamente alla bisogna. Appartiene alla natura delle banche centrali regolare il mercato e allearsi con lui nel momento del bisogno.

Che poi le autorità di regolazione riescano a manovrare gli animal spirit delle banche ombra è tutto a vedere. Negli Stati Uniti, dove tale pratica è invalsa ormai da decenni, non si può dire che i controllori abbiano avuto successo, visto il disastro provocato nel 2007 proprio dai titoli securizzati che le banche ombra si scambiavano come in un’iperbolica staffetta fino a quando il sistema non ha fatto crash.

Ma questo per noi europei è un problema di là da venire. Questo è il tempo di occuparsi delle banche, e l’Unione bancaria sembra abbia giovato alla bisogna. Anche se la parte sporca del lavoro l’ha fatta, tanto per cambiare, la crisi.

Di recente la Bce ha rilasciato il suo Banking structures report del 2014, documento che analizza lo sviluppo del settore bancario fra il 2008 e il 2013. Gli esiti di tale rapporto sono assolutamente coerenti con lo scenario che vi ho illustrato.

Nel 2013, infatti, il processo di consolidamento bancario iniziato già all’indomani della crisi è proseguito con decisione. Alla fine dell’anno l’Europa contava 5.948 istituti di credito attivi a fronte dei 6.690 del 2008 e dei 6.100 del 2012. Ovviamente il dato è riferito all’intera eurozona, col che vuole dirsi che non  si tratta di un processo omogeneo, ma che si differenzia anche notevolmente nei singoli paesi. Noi italiani siamo un po’ fanalino di coda, ma state pur certi che gli stress test e la supervisione made in Bce gioveranno alla bisogna.

Se andiamo a vedere quanto si siano ridotte le filiali locali (local branches) osserviamo che dal 2008 al 2013 sono diminuite del 12,7%, per un totale di 23.851 unità in meno. La conseguenza, di sicuro non intenzionale, di questo processo di razionalizzazione è stata che le prime cinque banche dei singoli paesi hanno in gran parte visto crescere il peso relativo dei loro asset sul totale. La qualcosa apre un altro scenario di cui parlerò un’altra volta: ossia che siano più grosse le banche too big to fail.

La crisi tuttavia ha fatto dimagrire parecchio le banche, che nel 2008 avevano asset per 33,5 trilioni di euro e nel 2013 appena 26,8, a fronte dei 29,6 del 2012. Merito senza dubbio del deleveraging, che ha fatto diminuire il valore degli asset. Ma anche della crescita davvero esplosiva che conosciamo già proprio del settore ombra.

Certo, anche la politica monetaria ha la sua parte di responsabilità. I tassi ormai a zero, per non dire negativi, hanno abbattuto la profittabilità delle banche e quindi la loro capacità di giocare un ruolo da protagoniste nel sistema finanziario, dovendosi preoccupare peraltro di ricapitalizzarsi (magari coi soldi dei governi) e di tappare le falle dei loro bilanci.

Tale situazione ha generato la crescita del ruolo delle istituzioni finanziarie non bancarie il cui peso relativo nell’eurozona cresce senza sosta dal 1999. Lo shadow banking, che quotava circa il 5% del sistema finanziario europeo, ora svetta verso il 20% e il settore delle assicurazioni e dei fondi pensioni, in valore assoluto, è semplicemente raddoppiato.

In valore assoluto, l’intero sistema finanziario europeo, nel 2013, ha raggiunto i 57 trilioni di valore, raddoppiato anch’esso dal ’99. Fondi e assicurazioni sono passati dai 4 trilioni a otto, mantendendo quindi sostanzialmente immutato il loro peso relativo sul totale, intorno al 14%.

Al tempo stesso il peso delle istituzioni monetarie e finanziarie, quindi anche delle banche, pur essendo cresciuto da 19 a 30 trilioni, è sceso in valore relativo dal 59 al 52%. Il che spiega bene l’esplosione dello shadow bankind, aumentato da 9 a 19 trilioni, in crescita persino più ripida dal 2012, quando le banche hanno accelerato il deleveraging.

E così il cerchio si chiude. L’avvio della supervisione unificata, della quale gli stress test sono stati l’esordio, completerà inevitabilmente il processo di “sanificazione” delle banche, che adesso sanno di non poter più contare sui bail out pubbilco in caso di fallimenti, ma dovranno rivolgersi intanto ai loro ai loro azionisti e obbligazionisti e poi ai depositanti non assicurati. Sul ponte bancario ormai sventola bandiera b(i)anca.

Al contempo i bassi tassi spingono le banche a sfogare la loro fame di rendimento altrove, replicando in sostanza quanto si faceva prima della crisi del 2007, ossia alimentando entità ombra magari da loro sponsorizzate. E all’uopo la Bce costruirà, per via regolamentare, una classe di asset – gli Abs “sicuri” – che serviranno nel breve ad alimentare le piccole e medie imprese tramite le banche commerciali, e nel medio, a incoraggiare lo sviluppo del mercato dei capitali, al fine dichiarato di innescare una transizione storica della finanza europea da bancocentrica a mercatocentrica. Mercato unico, ça va sans dire.

Infine, la Bce promette di puntare la sua occhiuta attenzione sulle banche ombra per impedire che diventino ciò che più volte hanno dimostrato essere: un pericolo per la stabilità finanziaria.

Se tutto questo vi sembra una follia, spero che adesso abbiate compreso quale sia il metodo.

Ma soprattutto che se ci sono pazzi, quelli siamo noi.

Il terzo passo dell’eurozona: l’unione del mercato dei capitali

Dopo l’unione monetaria e quella bancaria, e non potendo per il momento aspirare alla logica conclusione, ossia l’unione fiscale, l’eurozona si appresta a muovere il terzo passo nel suo difficile e controverso percorso di integrazione: l’unione del mercato dei capitali.

Alcuni premesse ci sono già state, ma l’obiettivo è ancora lontano, come ha opportunamente ricordato Andreas Dombret, banchiere della Bundesbank, in una recente allocuzione al Brookings Institution di Washington (Designing a stable monetary union – progress and
open issues).

E si capisce, leggendolo, che le evidenti discrepanze fra le varie autorità europee, che non risparmiano neanche le banche centrali, non hanno alcun effetto sul dichiarato intento di costoro di arrivare, in un modo o nell’altro, a una profonda unione dell’eurozona, che dopo esser stata monetaria, bancaria, finanziaria e infine fiscale, culminerà in quell’unione politica che in tempi non sospetti ci è già stata preannunciata.

Di fronte a tanta determinazione s’ergono chiassosi e altrettanto vacui gli strepiti di tanti arruffapopoli che hanno gioco facile a promettere il paradiso trovandosi molti di noi all’inferno, ma che ignorano sostanzialmente, o fingono di ignorare, che spezzare il vincolo che ormai lega i paesi eurodotati gli uni agli altri richiederebbe ben altra forza e determinazione che un semplice comizio di piazza. E omettono di dire che tali forze, per loro natura primordiali, sfuggono ad ogni controllo, una volta che siano liberate.

Il caso vuole che Dombret abbia preso servizio alla Buba il 3 maggio 2010, proprio all’indomani della decisione dei ministri finanziari dell’Ue di concedere aiuti per 110 miliardi alla Grecia e trovandosi una settimana dopo, il 10 maggio, di fronte alla controversa decisione della Bce di acquistare bond governativi. Decisioni che molta parte della Buba non apprezzò e che tuttora mostra di non apprezzare, contravvenendo, nella loro opinione, la Bce a quel dogma della responsabilità che per i banchieri centrali tedeschi è l’asset principale che ogni sistema finanziario dovrebbe coltivare per smettere di privatizzare i guadagni e socializzare le perdite.

“Dopo quella settimana  – dice Dombret –  due cose mi divennero chiare: primo che molti osservatori, e in particolare dagli Stati Uniti – avevano sottostimato la volontà politica europea di tenere insieme l’area dell’euro. Secondo che molti, me compreso, avevano sovrastimato la stabilità dell’assetto istituzionale dell’eurozona”.

Mettendo insieme i due punti, osserva, la conclusione non può che essere una: far leva sulla volontà politica per migliorare l’eurozona. Ma come?

Dombret è convinto che aldilà di frange estreme che vorrebbero far saltare il banco, i cittadini europei ancora credano nel sogno dell’eurozona, e con loro la gran parte dei leader politici. Questi ultimi però non hanno determinazione sufficiente a saltare il fosso – probabilmente perché devono farsi eleggere in patria? – e colmare la strana contraddizione per la quale la politica monetaria europea è centralizzata mentre quella fiscale è ancora in mano ai singoli stati. Questo, nell’opione del banchiere, provoca uno squilibrio della responsabilità. Gli stati nazionali tenderanno a fare ciò che per loro è meglio piuttosto che guardare all’eurozona come quel tutt’uno che secondo Dombret e quelli che la pensano come lui sarebbe ideale.

L’Unione fiscale, di conseguenza, rimane ancora solo un bel sogno. Al più si possono invitare gli stati, e con scarso successo come insegnano il caso francese e italiano, a far valere le regole europee. Ma per il futuro prossimo, salvo esperimenti specifici che comunque richiederebbero importanti cessioni di sovranità, il lato fiscale rimane un tabù.

Ciò non vuol dire che si debba abdicare al dogma della responsabilità. Dombret infatti guarda con sospetto sia alla proposta di utilizzare il fondo Esm come provider di risorse per gi investimenti, che a suo dire indebolirebbe il senso politico di quell’organismo, che è innanzitutto quello di fornire fiducia e prestiti condizionati, sia alla recente decisione della Bce di comprare Abs che, socializzando di fatto le possibili perdite, aggiunge un ulteriore pregiudizio di responsabilità all’agire delle banche, che, come fanno di solito, potrebbero essere incentivate a sottovalutare i rischi sapendo che possono scaricarli sulla Bce e, insostanza, sui bilanci degli stati che della Bce sono azionisti per il tramite delle loro banche centrali.

Ma a parte queste divergenze, il punto centrale è che comunque le banche, con l’imminente avvio della supervisione unificata, verranno presto messe sotto la tutela della Bce con l’avvio della supervisioni unificata d’inizio novembre.

E’ chiaro già da adesso, tuttavia, che centralizzare la supervisione bancaria, associandola alla risoluzione e a un meccanismo centrale di tutela dei depositi, è già uno straordinario passo in avanti. Però, dice Dombret, è assai probabile che le banche europee, ancora fragili sul versante della loro profittabilità, dovranno tagliare i costi, essendo costrette ad agire in un contesto di bassi rendimenti, o sennò iniziare a fondersi fra loro per garantirsi la sopravvivenza.

Ma guardando avanti, il problema successivo riguarda proprio la frammentazione del mercato dei capitali nella zona euro. A parte le banche, ormai sotto tutela, c’è una pletora di operatori che nella zona euro fa girare i soldi: fondi, mercati azionari, controparti centrali. Queste entità sono ancora a chiara vocazione nazionale, come le banche d’altronde, e non sono ancora efficienti abbastanza, proprio a causa della frammentazione che esse replicano, di garantire al sistema produttivo i flussi di risorse che pure potrebbero generare. Ciò anche in conseguenza del fatto che le imprese europee sono a vocazione bancaria: chiedono prestiti più che provare a raccogliere capitali.

Invertire questa consuetudine richiede mercati del capitale più efficienti. O, che nel gergo degli internazionalisti è nella stessa cosa, slegati dalle logiche nazionali. Questo è ciò di cui si parla quando si discute di unione del mercato dei capitali, come hanno fatto il presidente della commissione Juncker e Mersch, del board della Bce.

L’integrazione politica, in tempi in cui tutto è economia, a quel punto sarà solo una questione da addetti ai lavori.