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Parte l’Unione del mercato dei capitali
E alla fine il momento è arrivato. Ormai da tempo l’Ue stava lavorando al progetto di Unione del mercato dei capitali, logica conseguenza dell’unione monetaria e di quella bancaria, nonché piena attuazione del Trattato di Roma del ’57.
Sapevamo già che il processo “istruttorio” era avanzato. Adesso sappiamo che si inizia a fare sul serio.
Pochi giorni fa, infatti, la Commissione Ue ha lanciato, insieme con il suo green paper dedicato alla materia, una consultazione pubblica su questa ennesima rivoluzione della nostra vita di europei, che come al solito finirà ignorata dalle grandi cronache e dai dibattiti finché non sarà stata portata a compimento.
La consultazione, che riguarda vari gruppi di cittadini, oltre che gli stati Ue, durerà tre mesi e l’esito verrà in qualche modo recepito nella piattaforma finale del documento che dovrebbe mettere le basi della nuova piattaforma giuridica che sosterrà l’Unione dei capitali.
Di tutto ciò, tuttavia, poco è filtrato sulle cronache. Ed è un vero peccato. Perché l’innovazione che si va a proporre sarà assolutamente sostanziale e cambierà la vita di ognuno di noi, pure se all’apparenza sembra molto lontana dalla nostra quotidianità.
La data di conclusione prevista del processo, quindi della creazione vera e proprio del mercato unico dei capitali è il 2019. E se vi sembra lontano nel tempo è solo perché avete dimenticato quanto ci abbiamo messo a realizzare l’Unione monetaria e quanto tempo è servito a realizzare l’Unione bancaria.
Ma tale orizzonte temporale significa anche un’altra cosa: è la dimostrazione pratica che l’impegno politico per aumentare l’integrazione europea non viene meno, ma anzi si intensifica, malgrado le varie crisi greche, i malpancismi tedeschi, le intemperie italofrancesi e tutte le variegatissime opinioni pubbliche euroscettiche che, a quanto pare, fanno tanto rumore per nulla. Parlano di euro, ma intanto stiamo andando verso l’unificazione del mercato dei bond.
Guardano al dito, ma non alla direzione.
“La libera circolazione dei capitali è stato uno dei principi fondamentali sui quali l’Ue è stata edificata – leggo nella premessa del libro verde -. a più di 50 anni fa dal Trattato di Roma dobbiamo cogliere questa opportunità, trasformando una visione in realtà”. Sempre perché l’eurotartaruga ha una memoria da elefante.
E se tutto ciò vi sembra astruso, come è sicuramente, è solo perché le banconote le tenete in tasca, mentre i bond, ammesso di poterne disporre, li custodisce un intermediario.
Ma in realtà le conseguenza dell’unificazione del mercato dei capitali sono diverse, sia a livello economico che finanziario.
Per farvela semplice riporto qui alcune dichiarazioni di principio che la Commissione Ue a messo sul suo sito per spiegare il contorno dell’operazione. Ma i lettori più attenti di questo blog ne sapranno già abbastanza.
In particolare, l’Unione del mercato dei capitali si propone di migliorare l’accesso al finanziamento di tutti i settori economici, dalle start up alle piccole e media imprese, fino ai progetti di investimento a lungo termine.
Poi la nuova Unione si propone di aumentare e diversificare le fonti di finanziamento, al fine esplicito di rafforzare il ruolo del mercato dei capitali rispetto alle banche quale fonte di approvvigionamento di credito per le imprese. Infine, rendere più efficiente il rapporto fra il mercato che finanzia e l’impresa che riceve il finanziamento, a prescindere dalla sua nazionalità.
Quest’ultima caratteristica presuppone che un bond emesso in Germania abbia lo stesso trattamento, giuridico e fiscale, di un bond emesso in Francia. E questo, almeno in teoria, implica necessariamente un coordinamento di alcune scelte di politica fiscale. Ossia un ottimo viatico per la prima prova generale di unione fiscale su una specifica materia, che a quanto pare sarà il modus operandi della tecnocrazia europea in assenza di modifiche dei trattati.
Chiunque abbia a cuore la tematica può seguire, per approfondire, un convegno che si terrà il prossimo 6 maggio a Bruxelles, o, meglio ancora, leggere il libro verde che la Commissione Ue ha messo a disposizione.
Poi non dite che non ne sapevate nulla.
L’eurotartaruga avanza decisa verso l’unione finanziaria
Poiché ho la massima considerazione per la sapienza contenuta nei proverbi, mi torna in mente il vecchio adagio che ricorda quanto vada lontano chi va piano, mentre leggo l’intervento di Yves Mersch, componente lussemburghese del board della Bce dall’esemplare titolo “Advancing monetary union” del 25 gennaio.
Provenendo dall’ex governatore della banca centrale del Lussemburgo, paese che sulla finanza e le agevolazioni fiscali ha costruito la sua fortuna, queste riflessioni mi risultano assai utili per apprezzare lo stato d’animo dei nostri banchieri centrali e segnatamente dei loro obiettivi per l’anno da poco iniziato. E scopro così che, con la lentezza implacabile della tartaruga, l’eurozona si sta muovendo decisamente lungo il percorso che già nei mesi scorsi è stato con chiarezza delineato da diverse autorità europee: l’unione del mercato dei capitali: il terzo passo dell’area euro.
Ai meno amanti della astruserie risulterà sofistica la distinzione fra mercato monetario e mercato finanziario, ma in realtà parliamo di due mondi che, pur appartendendo allo stesso universo, hanno logiche e dinamiche affatto differenti. La moneta nomina il prodotto finanziario, ma certo non lo esaurisce. E nell’eurozona abbiamo la moneta unica, mentre i mercati finanziari, a differenza di quelli delle merci, sono ancora tanti quanti sono gli stati dell’area.
Un esempio, preso a prestito dall’allocuzione di Mersch, aiuterà a capire. Mettiamo che un imprenditore tedesco voglia emettere un bond in Olanda. Nel suo prospetto deve specificare se il suo titolo di debito, comunque denominato in euro, sia emesso sotto la legislazione tedesca o quella olandese. Al contrario, in un mercato integrato dei capitali un imprenditore tedesco può emettere bond in Olanda senza specificare alcunché, visto che il diritto soggiacente all’obbligazione è comune in tutta l’eurozona. “Dopotutto i paesi dell’euro condividono la stessa moneta”, commenta Mersch. Unificare le regole finanziarie, quindi, rappresenterebbe una enorme semplificazione.
Ma non è solo la semplicità d’uso – ricorderete che si disse anche dell’euro – lo scopo di questa ennesima integrazione. A monte ci sta il fatto, e noi eurodotati dovremmo ormai averlo imparato, che le regole sussumono una politica economica.
Il nodo saliente del ragionamento di Mersh, infatti, è che un mercato finanziario integrato favorirebbe, nel tempo, un graduale spostamento dell’erogazione di credito dalle banche al mercato dei capitali, sul modello americano. Il che, oltre ad aumentare l’efficienza marginale del capitale e la sua allocazione, consentirebbe anche una migliore distribuzione del rischio.
Per dimensionare il problema, Mersch ricorda che l’economia europea è caratterizzata da piccole e medie imprese (SMEs) che generano il 60% del valore aggiunto dell’area. Queste aziende vivono in gran parte grazie al credito bancario delle loro banche domestiche. Con la conseguenza che in caso di stress bancario, come peraltro è accaduto di recente, anche le imprese ne risentiranno. Cosa che non accadrebbe se le imprese fossero in grado di procacciarsi il credito sul mercato dei capitali, oltre che dalle banche.
Il punto d’arrivo, o quantomeno di confronto, è quello degli Stati Uniti. Qui l’80% circa dei crediti concessi alle aziende arrivano dal mercato dei capitali, a fronte di un 20-50% nell’eurozona, Ciò rende le aziende Usa più resilienti alle crisi bancarie, che poi è quello che vorrebbero anche i nostri banchieri centrali, non paghi evidentemente di aver realizzato l’Unione bancaria.
Ora uno può pensare che questa esigenza sia figlia dell’esperienza fatta con la crisi, ma sbaglierebbe. La necessità di integrare l’infrastruttura e le regole della finanza viene da lontano. Ancor prima che entrasse in vigore l’euro, quindi nel 2001, un gruppo di lavoro, il Giovannini group, dal nome del leader degli studiosi, aveva elaborato un “Report on EU Clearing and Settlement Arrangements”, che vide una seconda stesura nel 2003.
Oggi Mersch ci fa sapere (ma in realtà ne avevamo già avuto avvisaglie) che la Commissione europea “presenterà a breve una prima proposta su come una unione del mercato dei capitali possa essere delineata in pratica”.
Il testo ancora non è noto, quindi per averne un’idea dobbiamo contentarci di leggere quelle di Mersch, per capire almeno come a lui piacerebbe che tale unione si realizzasse.
“Per me unione dei mercato dei capitali significa più che modificare la semplice regolazione. Implica ragionare sulle regole per le aziende, sulla supervisione dell’infrastruttura finanziaria, il diritto fallimentare e l’armonizzazione fiscale sui capital gain”. Un notevole passo in avanti, quindi, sul modello di quanto si è fatto con il SEPA, il single euro payment area, che adesso si vuol fare evolvere nel medio termine in modo, per esempio, che non si paghino più commissione per l’uso cross border delle carte di credito.
Anche qui, si parte dalle origini, ossia dal Trattato di Roma che piantò le radici dell’attuale Ue e che prevedeva, sia pure in forma basica, il libero movimento dei capitali nell’area europea, a testimonianza del fatto che la nostra tartaruga, oltre a muoversi con proverbiale lentezza, è dotata anche della memoria di un elefante.
Mi sorprendo a pensare che questa strana chimera, metà tartaruga e metà elefante, è la migliore rappresentazione dell’eurozona che ho immaginato sinora.
I vantaggi esemplificati da Marsch che deriverebbero da questa ennesima unificazione sono diversi e non voglio annoiarvi con i dettagli tecnici. Ciò che qui mi preme ancora sottolineare e che comunque, a integrazione effettuata, bisognerà anche pensare a un meccanismo armonizzato di gestione delle crisi dei mercati finanziari, sul modello insomma di quanto fatto per le banche.
“Un meccanismo singolo di risoluzione per le non-banche, come le controparti centrali o le central security depositories (CDS), è uno strumento fondamentale di un mercato unico dei capitali”, sottolinea, visto che queste entità sono ancora regolate dalle autorità nazionali. E l’esperienza del SRM della banking Union dovrebbe bastarci a capire dove si vuole andare a parare.
Provo comunque a farvela semplice. La nostra tartaruga-elefante ha unificato il mercato delle merci, poi la moneta, ora pensa a fare la stessa cosa con i suoi derivati, nel senso di strumenti finanziari. Al termine di questo processo avremo un significativo sviluppo delle entità sovranazionali, chiamate a supportare numerosi processi economici e, di conseguenza, politici.
Fatta l’Europa economica si faranno gli europei.
E anche questo mi pare si dicesse negli anni ’50.
Il terzo passo dell’eurozona: l’unione del mercato dei capitali
Dopo l’unione monetaria e quella bancaria, e non potendo per il momento aspirare alla logica conclusione, ossia l’unione fiscale, l’eurozona si appresta a muovere il terzo passo nel suo difficile e controverso percorso di integrazione: l’unione del mercato dei capitali.
Alcuni premesse ci sono già state, ma l’obiettivo è ancora lontano, come ha opportunamente ricordato Andreas Dombret, banchiere della Bundesbank, in una recente allocuzione al Brookings Institution di Washington (Designing a stable monetary union – progress and
open issues).
E si capisce, leggendolo, che le evidenti discrepanze fra le varie autorità europee, che non risparmiano neanche le banche centrali, non hanno alcun effetto sul dichiarato intento di costoro di arrivare, in un modo o nell’altro, a una profonda unione dell’eurozona, che dopo esser stata monetaria, bancaria, finanziaria e infine fiscale, culminerà in quell’unione politica che in tempi non sospetti ci è già stata preannunciata.
Di fronte a tanta determinazione s’ergono chiassosi e altrettanto vacui gli strepiti di tanti arruffapopoli che hanno gioco facile a promettere il paradiso trovandosi molti di noi all’inferno, ma che ignorano sostanzialmente, o fingono di ignorare, che spezzare il vincolo che ormai lega i paesi eurodotati gli uni agli altri richiederebbe ben altra forza e determinazione che un semplice comizio di piazza. E omettono di dire che tali forze, per loro natura primordiali, sfuggono ad ogni controllo, una volta che siano liberate.
Il caso vuole che Dombret abbia preso servizio alla Buba il 3 maggio 2010, proprio all’indomani della decisione dei ministri finanziari dell’Ue di concedere aiuti per 110 miliardi alla Grecia e trovandosi una settimana dopo, il 10 maggio, di fronte alla controversa decisione della Bce di acquistare bond governativi. Decisioni che molta parte della Buba non apprezzò e che tuttora mostra di non apprezzare, contravvenendo, nella loro opinione, la Bce a quel dogma della responsabilità che per i banchieri centrali tedeschi è l’asset principale che ogni sistema finanziario dovrebbe coltivare per smettere di privatizzare i guadagni e socializzare le perdite.
“Dopo quella settimana – dice Dombret – due cose mi divennero chiare: primo che molti osservatori, e in particolare dagli Stati Uniti – avevano sottostimato la volontà politica europea di tenere insieme l’area dell’euro. Secondo che molti, me compreso, avevano sovrastimato la stabilità dell’assetto istituzionale dell’eurozona”.
Mettendo insieme i due punti, osserva, la conclusione non può che essere una: far leva sulla volontà politica per migliorare l’eurozona. Ma come?
Dombret è convinto che aldilà di frange estreme che vorrebbero far saltare il banco, i cittadini europei ancora credano nel sogno dell’eurozona, e con loro la gran parte dei leader politici. Questi ultimi però non hanno determinazione sufficiente a saltare il fosso – probabilmente perché devono farsi eleggere in patria? – e colmare la strana contraddizione per la quale la politica monetaria europea è centralizzata mentre quella fiscale è ancora in mano ai singoli stati. Questo, nell’opione del banchiere, provoca uno squilibrio della responsabilità. Gli stati nazionali tenderanno a fare ciò che per loro è meglio piuttosto che guardare all’eurozona come quel tutt’uno che secondo Dombret e quelli che la pensano come lui sarebbe ideale.
L’Unione fiscale, di conseguenza, rimane ancora solo un bel sogno. Al più si possono invitare gli stati, e con scarso successo come insegnano il caso francese e italiano, a far valere le regole europee. Ma per il futuro prossimo, salvo esperimenti specifici che comunque richiederebbero importanti cessioni di sovranità, il lato fiscale rimane un tabù.
Ciò non vuol dire che si debba abdicare al dogma della responsabilità. Dombret infatti guarda con sospetto sia alla proposta di utilizzare il fondo Esm come provider di risorse per gi investimenti, che a suo dire indebolirebbe il senso politico di quell’organismo, che è innanzitutto quello di fornire fiducia e prestiti condizionati, sia alla recente decisione della Bce di comprare Abs che, socializzando di fatto le possibili perdite, aggiunge un ulteriore pregiudizio di responsabilità all’agire delle banche, che, come fanno di solito, potrebbero essere incentivate a sottovalutare i rischi sapendo che possono scaricarli sulla Bce e, insostanza, sui bilanci degli stati che della Bce sono azionisti per il tramite delle loro banche centrali.
Ma a parte queste divergenze, il punto centrale è che comunque le banche, con l’imminente avvio della supervisione unificata, verranno presto messe sotto la tutela della Bce con l’avvio della supervisioni unificata d’inizio novembre.
E’ chiaro già da adesso, tuttavia, che centralizzare la supervisione bancaria, associandola alla risoluzione e a un meccanismo centrale di tutela dei depositi, è già uno straordinario passo in avanti. Però, dice Dombret, è assai probabile che le banche europee, ancora fragili sul versante della loro profittabilità, dovranno tagliare i costi, essendo costrette ad agire in un contesto di bassi rendimenti, o sennò iniziare a fondersi fra loro per garantirsi la sopravvivenza.
Ma guardando avanti, il problema successivo riguarda proprio la frammentazione del mercato dei capitali nella zona euro. A parte le banche, ormai sotto tutela, c’è una pletora di operatori che nella zona euro fa girare i soldi: fondi, mercati azionari, controparti centrali. Queste entità sono ancora a chiara vocazione nazionale, come le banche d’altronde, e non sono ancora efficienti abbastanza, proprio a causa della frammentazione che esse replicano, di garantire al sistema produttivo i flussi di risorse che pure potrebbero generare. Ciò anche in conseguenza del fatto che le imprese europee sono a vocazione bancaria: chiedono prestiti più che provare a raccogliere capitali.
Invertire questa consuetudine richiede mercati del capitale più efficienti. O, che nel gergo degli internazionalisti è nella stessa cosa, slegati dalle logiche nazionali. Questo è ciò di cui si parla quando si discute di unione del mercato dei capitali, come hanno fatto il presidente della commissione Juncker e Mersch, del board della Bce.
L’integrazione politica, in tempi in cui tutto è economia, a quel punto sarà solo una questione da addetti ai lavori.
Il drago capitalista assedia la Grande Muraglia cinese
Nella grande confusione di significati che accompagna di solito il termine “mercato del capitale”, spesso viene trascurato il suo senso più evidente: ossia fare mercato del capitale. Quindi vendere e comprare il capitale secondo la legge della domanda e dell’offerta.
I misteriosi mercati dei capitali, perciò, non sono altro che sofisticate bancarelle dove si può comprare o vendere denaro, sotto forma di strumenti finanziari (depositi, titoli, eccetera).
I misteriosi mercati finanziari, quindi, non sono altro che compravendite di denaro.
Il presupposto filosofico che rende possibile la vendita di denaro è che esso sia una merce, al pari delle altre merci che si scambiano in un contesto di un’economia di mercato.
Ciò serve a sottolineare una cosa che spesso si confonde: il mercato dei capitali è una modalità dell’economia di mercato. Quindi il capitalismo (inteso come mercato dei capitali) NON è l’economia di mercato, ma una sua derivata sui generis che trova la sua ragion d’essere in un pensiero molto concreto. Ossia che il denaro, in quanto tale, abbia un valore intrinseco. Che sia quindi riserva di valore, e che perciò meriti di essere remunerato tramite il meccanismo dell’interesse.
Ciò provoca che il mercato del capitale sia in qualche modo “alternativo” al mercato dei beni. Se investo su un’obbligazione, perché magari più liquida e remunerativa, non investo su un negozio di gelati, per essere chiari. La famosa distanza fra finanza ed economia reale.
Perché questa noiosa premessa? Sennò non si capisce perché la Cina sia diventata la Grande Speranza del mercato del capitale. La Cina, con i suoi tassi di crescita e la sua economia gigantesca, potrebbe dare una dimensione al mercato dei capitali mai vista prima nella storia. Un’enorme torta fatta e imbottita di denaro.
Perciò il drago capitalista, potente e attraente come vuole la tradizione cinese, marcia a tappe forzate verso il gigante asiatico. Di fronte a sé, tuttavia, si erge la Grande Muraglia: i controlli di capitale, che la Cina tiene ancora ben serrati.
Ma la muraglia lentamente si sta erodendo. Gli stessi cinesi hanno voglia di entrare a far parte, una volta per tutte, nel grande gioco della finanza globale, del capitale liberamente circolante, che fa la gioia (e le crisi) delle economie avanzate da più di trent’anni.
Sarà per questo che la Bank of England ha dedicato alla questione un breve saggio nel suo ultimo Quaterly review intitolato “Bringing down the Great Wall? Global implications of capital account liberalisation in China”.
Il great wall, (la Grande Muraglia), altro non è che il controllo del conto capitale cinese. Una volta messo da parte si potrà (semplificando) denominare in renmimbi asset finanziari e renderli liberamente commerciabili su tutte le piazze del mondo. A cominciare da quella di Londra, manco a dirlo. Che già si è portata avanti, ma non è l’unica. Anche i tedeschi si stanno attrezzando per l’affare del secolo.
Ma per adesso questi controlli rendono pressoché impossibile per i residenti cinesi comprare o vendere asset all’estero e ai cittadini esteri comprare o venderer asset cinesi. Una bella scocciatura, per il nostro drago.
Che lo sia davvero, l’affare del secolo, è scritto nei numeri. Secondo la BoE tale liberalizzazione, cui seguirebbe l’internalizzazione del renminbi, avrebbe un grande impatto nel sistema finanziario globale (sempre la bancarella di cui sopra, ndr). La posizione lorda degli investimenti internazionali cinesi potrebbe crescere dal 5 al 30% del Pil mondiale entro il 2025″.
Che poi significa che il mondo sarebbe molto più cinese di quanto lo sia oggi.
Le autorità cinesi, ricorda la BoE, hanno confermato anche di recente di essere intenzionate a proseguire nel lento cammino di liberalizzazione dei capitali intrapreso a piccoli passi negli anni scorsi con l’apertura di alcune piazze off shore dove si può contrattare qualche strumento finanziario denominato in renminbi con diverse restrizioni e per lo più per transazioni correnti o a fini di riserva. Ma sono bruscolini. “A fronte di di un 10% di quota del Pil mondiale e un 9% di quota del commercio globale, la Cina ha meno del 3% di quota di asset/debiti all’estero. Il sistema bancario cinese è il più grande nel mondo per asset totali, ma è anche uno dei più concentrati sul mercato domestico e ancora poco usato per le transazione fuori dalla Cina”.
I passi più rilevanti, insomma, devono essere ancora fatti e potrebbero condurre “a una crescita più bilanciata e sostenibile in Cina e aiutare a riequilibrare la domanda globale”.
Ma perché allora, vi chiederete, non li fanno subito questi passi?
Il problema è che il drago capitalista è una bestia pericolosa. Seppure seduce con la sua promessa di potenza, altrettanto rischia di farvi finire in cenere qualora dovesse digerire male. Per nulla piacevole avere sul collo il fiato del drago.
“La storia di altri paesi – scrive la BoE – suggerisce che gli episodi di liberalizzazione del conto capitale possa essere accompagnata da rischi per le economie domestiche e la stabilità finanziaria, che potrebbero avere impatti sul sistema finanziario globale”.
Basta ricordare cosa è successo dal 2008 in poi nello splendido mondo delle economie con i capitali liberi per capire di cosa parla la BoE.
Nel caso della Cina, poi, ci sarebbe l’aggravante sistemica di un’economia che si candida ad essere la seconda del mondo. Aprire il conto capitale della Cina comporterebbe esporla ai marosi della fiducia, che noi tutti conosciamo bene, e al potenziale destabilizzante dei capitali esteri, che per adesso entrano in Cina quasi esclusivamente come investimenti diretti, peraltro assai bene remunerati, visto che la Cina vive il curioso paradosso di essere il più grande creditore del mondo con un saldo negativo sul lato dei redditi della bilancia dei pagamenti.
E tuttavia, nota la BoE “dalla grande crisi del 2008 c’è stato un rilassamento nei controlli in alcune aree”.
La seduzione del drago è inevitabile, e non è certo un caso che se ne occupi la BoE, portabandiera del più grande centro finanziario del mondo.
Purtroppo, nota la BoE, “il governo non ha ancora pubblicato una road map di questo processo”, anche è se probabile che “ci vorrà almeno un decennio”.
Nel 2024, dunque, il processo potrebbe essere completo. E la Cina diventare l’America asiatica, “una forza di stabilità e di crescita non solo per la Cina stessa ma il sistema monetario e finanziario internazionale”.
Manco a farlo apposta, il 2024, nel calendario cinese, è l’anno del Drago.