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I dinosauri del mercato: le banche d’investimento
Il problema è che i dinosauri sono di nuovo fra noi, ma pochi se ne sono accorti. L’uso di questo sostantivo, ormai divenuto un aggettivo, ormai viene relegato alle cronache di colore, riferendolo magari a pratiche desuete o entità paleolitiche – vecchi organismi burocratici magari. Uno pensa ai dinosauri e gli viene in mente Jurassic park, un museo di scienze naturali, scavi di ossa nel Gobi, le partecipazioni statali. Roba remotissima, insomma, o estremamente fantascientifica.
E invece i dinosauri esistono, eccome. Come i loro progenitori sono organismi giganteschi e voraci, preferibilmente carnivori. Ogni loro passo lascia impronte profonde nell’ecosistema in cui vivono, e sono capaci, cadendo, di provocare crolli a cascata e terremoti a distanza. A differenza dei loro progenitori, però, sono estremamente intelligenti.
Infatti per proliferare e ingrandirsi hanno scelto il migliore degli habitat possibili: tanto concreto quanto aereo: il mercato finanziario. Questi organismi, la BoE ne ha censiti 15 nel suo ultimo quaterly bulletin (“Investment banking: linkages to the real economy and the financial system”) muovono asset stimati per oltre 5 trilioni di dollari, ma soprattutto sono ovunque. A dispetto del loro numero esiguo, la loro influenza è pervasiva e ramificata. Sono pressoché onnipresenti in tutte le cronache dei mercati finanziari, visto che hanno a che fare con i governi, le banche commerciali, le imprese, le borse, e, in generale, tutti i vari tipi di intermediari.
Essere dinosauri, nel nostro tempo economico, significa perciò essere sistemici. E le banche di investimento sono fra i principali pilastri del sistema finanziario insieme alle banche centrali, e alle controparti centrali.
Qualcuno penserà a questo punto che sono prevenuto, ma posso assicurarvi che così non è. Patisco, come tutto ciò che è piccolo, il timore verso ciò che è grande, che mi appare per sua natura minaccioso. Mi dico che dev’essere una difetto della mia percezione, ma poi leggendo l’articolo della Boe mi scopro in buona compagnia.
Proprio in virtù del denaro che muovono e della quantità e qualità degli affari che gestiscono, le banche d’investimento sono un veicolo ideale di contagio. E basta ricordare cosa è successo al mondo quando è fallita Lehman Brothers, che fra questi dinosauri non era neanche uno dei più grossi. “E queste banche – ci ricorda la BoE – rimangono rilevanti per la stabilità finanziaria in Uk, poiché tutte le più grandi banche d’investimento hanno filiali a Londra“. E ciò spiega perché la banca centrale inglese abbia reputato utile dedicar loro un approfondimento.
Per poter apprezzare il lavoro che fanno, le banche di investimento, bisogna innanzitutto ricordare chi siano. La più grossa di tutte, il Tirannosauro rex, potremmo definirla, è la JP Morgan, che a dicembre 2013 risultava avere asset in trading per 895 miliardi di dollari, un bel po’ sopra Goldman Sachs, al secondo poso con 683. Il quartetto delle americane si chiude con Bank of America Merril Linch (665 mld) e Citigroup (625 mld). Poi abbiamo la tedesca Deutsche bank (595 mld), un’altra americana, la Morgan Stanley (564 mld), quindi un po’ di europee: Credit Suisse (511 mld), Barclays (481 mld), BNP Paribas (386 mld), Société Générale (369 mld), HSBC (351 mld), Royal Bank of Scotland (347 mld), UBS (256 mld), Crédit Agricole (163). Dulcis in fundo l’asiatica Mitsubishi (144 mld). Il che dà l’esatta misura di quanto pesi l’Oriente nel mercato finanziario globale.
Una volta che li abbiamo censiti, e ne abbiamo riconosciuto la pericolosità, è utile sapere, come ci ricorda la BoE, che proprio in ragione di ciò questi dinosauri sono soggetti alla regolazione finanziaria. Quindi sono vigilate dalla stessa BoE e dalla Financial conduct Authority (FCA). Ciò ovviamente viene reso complesso dalla vocazione globale di questi soggetti, e anche dal fatto che si tratta in molti casi di banche universali, che sommano alle attività tipiche delle banche di investimento (trading, assistenza per i collocamenti, emissioni obbligazioni, eccetera) anche quelle tipiche delle banche commerciali (accensione di depositi, concessione di prestiti e facilitazione dei pagamenti).
Vale la pena anche ricordare che hanno accesso alla Bank of England’s liquidity facilities tramite lo Sterling Monetary Framework. Insomma: sono clienti privilegiati della BoE e anche il FSB (financia stability board) li ha classificati come Global systemically important banks (G-SIBs). Insomma: i dinosauri, giustamente temuti e coccolati, sono la insieme la bestia nera dei regolatori e i loro pupilli, atteso che la stessa BoE riconosce loro un ruolo assai importante nei processi di efficienza degli scambi finanziari. Argomento assai simile a quello che viene utilizzato per i derivati, lo shadow banking e altre amenità del nostro incomprensibile mondo economicizzato.
L’articolo ci ricorda poi che questi dinosauri agiscono in tre differenti aree di servizi finanziari: sono operatori nel primary capital markets, e quindi assistono le imprese e le agenzie governative che hanno bisogno di raccogliere finanziamenti emettendo azioni o obbligazioni, agiscono nel settore del trading e nel secondary market, anche scrivendo contratti derivati, e infine agiscono come battitori liberi nel mercato finanziario assistendo gli altri operatori che prestano o prendono a prestito, in maniera più o meno collateralizzato, utilizzando tutte le diavolerie che le moderne tecniche finanziarie hanno inventato alla bisogna. Insomma: per farvela breve non si muove foglia che il dinosauro non voglia.
E’ utile sapere che buona parte dei guadagni queste entità li realizzano col trading proprietario (fixed income currency and commodities, FICC), che, sempre nel 2013, ha contribuito a più della metà dei loro incassi globali. Ciò malgrado le pesanti perdite subite con la crisi. La BoE ha calcolato che le banche inglesi hanno subito perdite da trading per 30 miliardi di sterline nel 2008.
Per darvi un’idea di tali profitti, basta ricordare che nel 2013 le prime dieci banche d’investimento hanno avuto guadagni per circa 140 miliardi di dollari, tre quarti dei quali per operazioni svolte nei confronti del mercato finanziario e per un quarto appena per servizi resi alla cosiddetta economia reale.
Se volgiamo lo sguardo al mercato secondario, possiamo notare due cose: la prima è che il portafoglio degli asset gestiti è diminuito significativamente fra il 2008 e il 2013, passando da circa 3.500 miliardi di dollari a meno di 3.000. Ma al contempo che sono aumentati i valori nozionali dei contratti derivati che hanno sottoscritto, passato da circa 400 trilioni a quasi 500.
Altresì è aumentata la quantità di emissioni cui queste entità hanno partecipato a vario titolo. Parliamo di 5,2 trilioni, un livello simile a quello del periodo 2003-07, anche se è mutata la composizione dei titoli emessi. Sono aumentate le amissione corporate e governative, mentre sono diminuite quelle di strumenti come gli Abs.
A questo livello di operatività, sia per volumi che per aree di intervento, non serve essere banchieri centrali per comprendere quanto questi dinosauri siano rischiosi per l’ambiente. E questo spiega perché vari regolatori internazionali, dalla BIS, al FMI passando per il FSB, si siano dedicati a elaborare una qualche forma di cornice normativa capace di contenere la loro esuberanza sovente irrazionale, per ricordare un celeberrima espressione di un ex guru della Fed. E soprattutto perché se ne occupi anche la BoE: “Quote sostanziali dei mercati sono basate in Gran Bretagna: il 70% delle transazioni globali di bond, per esempio, e quasi le metà di tutti i derivati sui tassi di interesse tratti over the counter”.
Insomma: i dinosauri parlano tutti inglese e abitano in gran parte alla City.
Stando così le cose riveste un mero interesse compilativo ricordare le varie riforme della regolazione che, dopo il 2008, sono state messe in campo per provare a mettere la museruola a questa bestia affamata. Solo la cieca fiducia dei banchieri centrali nel principio di razionalità può far credere di riuscire convincere un dinosauro a non far danni. L’esperienza difatti mostra con chiarezza che i finanzieri globali sono sempre molto creativi quando si tratta di inventare un inganno per aggirare una legge.
Perciò mi rassicura assai poco la conclusione della BoE, quando dice che vigilerà insieme con gli altri regolatori per assicurare che “le attività delle banche di investimento siano condotte in maniera sicura ed efficace”. Anche perché, sempre l’esperienza, ha mostrato che sono proprio le banche centrali a correre in soccorso dei dinosauri quando rovinano su main street dai grattacieli di Wall street.
Ma forse dipende dal fatto che amano gli animali.
L’eurotartaruga avanza decisa verso l’unione finanziaria
Poiché ho la massima considerazione per la sapienza contenuta nei proverbi, mi torna in mente il vecchio adagio che ricorda quanto vada lontano chi va piano, mentre leggo l’intervento di Yves Mersch, componente lussemburghese del board della Bce dall’esemplare titolo “Advancing monetary union” del 25 gennaio.
Provenendo dall’ex governatore della banca centrale del Lussemburgo, paese che sulla finanza e le agevolazioni fiscali ha costruito la sua fortuna, queste riflessioni mi risultano assai utili per apprezzare lo stato d’animo dei nostri banchieri centrali e segnatamente dei loro obiettivi per l’anno da poco iniziato. E scopro così che, con la lentezza implacabile della tartaruga, l’eurozona si sta muovendo decisamente lungo il percorso che già nei mesi scorsi è stato con chiarezza delineato da diverse autorità europee: l’unione del mercato dei capitali: il terzo passo dell’area euro.
Ai meno amanti della astruserie risulterà sofistica la distinzione fra mercato monetario e mercato finanziario, ma in realtà parliamo di due mondi che, pur appartendendo allo stesso universo, hanno logiche e dinamiche affatto differenti. La moneta nomina il prodotto finanziario, ma certo non lo esaurisce. E nell’eurozona abbiamo la moneta unica, mentre i mercati finanziari, a differenza di quelli delle merci, sono ancora tanti quanti sono gli stati dell’area.
Un esempio, preso a prestito dall’allocuzione di Mersch, aiuterà a capire. Mettiamo che un imprenditore tedesco voglia emettere un bond in Olanda. Nel suo prospetto deve specificare se il suo titolo di debito, comunque denominato in euro, sia emesso sotto la legislazione tedesca o quella olandese. Al contrario, in un mercato integrato dei capitali un imprenditore tedesco può emettere bond in Olanda senza specificare alcunché, visto che il diritto soggiacente all’obbligazione è comune in tutta l’eurozona. “Dopotutto i paesi dell’euro condividono la stessa moneta”, commenta Mersch. Unificare le regole finanziarie, quindi, rappresenterebbe una enorme semplificazione.
Ma non è solo la semplicità d’uso – ricorderete che si disse anche dell’euro – lo scopo di questa ennesima integrazione. A monte ci sta il fatto, e noi eurodotati dovremmo ormai averlo imparato, che le regole sussumono una politica economica.
Il nodo saliente del ragionamento di Mersh, infatti, è che un mercato finanziario integrato favorirebbe, nel tempo, un graduale spostamento dell’erogazione di credito dalle banche al mercato dei capitali, sul modello americano. Il che, oltre ad aumentare l’efficienza marginale del capitale e la sua allocazione, consentirebbe anche una migliore distribuzione del rischio.
Per dimensionare il problema, Mersch ricorda che l’economia europea è caratterizzata da piccole e medie imprese (SMEs) che generano il 60% del valore aggiunto dell’area. Queste aziende vivono in gran parte grazie al credito bancario delle loro banche domestiche. Con la conseguenza che in caso di stress bancario, come peraltro è accaduto di recente, anche le imprese ne risentiranno. Cosa che non accadrebbe se le imprese fossero in grado di procacciarsi il credito sul mercato dei capitali, oltre che dalle banche.
Il punto d’arrivo, o quantomeno di confronto, è quello degli Stati Uniti. Qui l’80% circa dei crediti concessi alle aziende arrivano dal mercato dei capitali, a fronte di un 20-50% nell’eurozona, Ciò rende le aziende Usa più resilienti alle crisi bancarie, che poi è quello che vorrebbero anche i nostri banchieri centrali, non paghi evidentemente di aver realizzato l’Unione bancaria.
Ora uno può pensare che questa esigenza sia figlia dell’esperienza fatta con la crisi, ma sbaglierebbe. La necessità di integrare l’infrastruttura e le regole della finanza viene da lontano. Ancor prima che entrasse in vigore l’euro, quindi nel 2001, un gruppo di lavoro, il Giovannini group, dal nome del leader degli studiosi, aveva elaborato un “Report on EU Clearing and Settlement Arrangements”, che vide una seconda stesura nel 2003.
Oggi Mersch ci fa sapere (ma in realtà ne avevamo già avuto avvisaglie) che la Commissione europea “presenterà a breve una prima proposta su come una unione del mercato dei capitali possa essere delineata in pratica”.
Il testo ancora non è noto, quindi per averne un’idea dobbiamo contentarci di leggere quelle di Mersch, per capire almeno come a lui piacerebbe che tale unione si realizzasse.
“Per me unione dei mercato dei capitali significa più che modificare la semplice regolazione. Implica ragionare sulle regole per le aziende, sulla supervisione dell’infrastruttura finanziaria, il diritto fallimentare e l’armonizzazione fiscale sui capital gain”. Un notevole passo in avanti, quindi, sul modello di quanto si è fatto con il SEPA, il single euro payment area, che adesso si vuol fare evolvere nel medio termine in modo, per esempio, che non si paghino più commissione per l’uso cross border delle carte di credito.
Anche qui, si parte dalle origini, ossia dal Trattato di Roma che piantò le radici dell’attuale Ue e che prevedeva, sia pure in forma basica, il libero movimento dei capitali nell’area europea, a testimonianza del fatto che la nostra tartaruga, oltre a muoversi con proverbiale lentezza, è dotata anche della memoria di un elefante.
Mi sorprendo a pensare che questa strana chimera, metà tartaruga e metà elefante, è la migliore rappresentazione dell’eurozona che ho immaginato sinora.
I vantaggi esemplificati da Marsch che deriverebbero da questa ennesima unificazione sono diversi e non voglio annoiarvi con i dettagli tecnici. Ciò che qui mi preme ancora sottolineare e che comunque, a integrazione effettuata, bisognerà anche pensare a un meccanismo armonizzato di gestione delle crisi dei mercati finanziari, sul modello insomma di quanto fatto per le banche.
“Un meccanismo singolo di risoluzione per le non-banche, come le controparti centrali o le central security depositories (CDS), è uno strumento fondamentale di un mercato unico dei capitali”, sottolinea, visto che queste entità sono ancora regolate dalle autorità nazionali. E l’esperienza del SRM della banking Union dovrebbe bastarci a capire dove si vuole andare a parare.
Provo comunque a farvela semplice. La nostra tartaruga-elefante ha unificato il mercato delle merci, poi la moneta, ora pensa a fare la stessa cosa con i suoi derivati, nel senso di strumenti finanziari. Al termine di questo processo avremo un significativo sviluppo delle entità sovranazionali, chiamate a supportare numerosi processi economici e, di conseguenza, politici.
Fatta l’Europa economica si faranno gli europei.
E anche questo mi pare si dicesse negli anni ’50.
La finanza islamica sbarca a Hong Kong
Ecco che l’Oriente estremo e quello medio, da sempre distanti e distinti, s’incontrano in nome degli affari, vero lievito globalizzante del nostro tempo.
La Costantinopoli cinese si candida a diventare la prima piazza finanziaria “laica” ad emettere bond governativi in versione sukuk bond, ossia i bond islamici costruiti secondo i dettati della sharia, che già tanto successo hanno mietuto anche in terra europea.
Ecco che ancora una volta il denaro, ossia la costituente stessa del lievito, si dimostra capace di superare qualsiasi barriera, anche quella religiosa, mutando come un camaleonte secondo i desideri di coloro che lo muovono.
Gli amanti dei paradossi della storia non potranno che compiacersi scoprendo che un’ex colonia dell’ex impero britannico, di recente braccio finanziario dei comunisti cinesi, ormai convertiti alle gioie del capitalismo, offra i suoi servigi agli investitori internazionali per trattare bond islamici, ossia strumenti finanziari costruiti secondo principi che dovrebbero far inorridire qualsiasi buon liberale.
Tutto fa brodo, purché faccia soldi.
E infatti i sukuk bond sembrano la miniera d’oro del capitalismo terminale. Se non altro perché, proprio in virtù del loro portato religioso, sono oggetto del desiderio di tante popolazioni, quelle islamiche appunto, e in particolare quelle del Golfo, che sempre l’astuzia della storia ha trasformato nelle uniche (insieme proprio alla Cina e alla Germania) che esibiscano corporsi surplus di conto corrente sulla bilancia dei pagamenti.
Sono gonfi di denaro in sostanza. E assai impazienti di farne qualcosa.
Ma perché proprio i sukuk?
Ce lo spiega bene Peter Pang, nome meraviglioso. Un Peter Pan – metafora di chi non vuole crescere, e quindi perfetta rappresentazione della nostra finanza contemporanea – ma orientale. La deriva del capitalismo. Il suo punto d’approdo.
Peter Pang di mestiere fa il vice chief executive dell’autorità monetaria di Hong Kong e nel suo poco tempo libero svolge istruttive allocuzioni, come quella che ha tenuto lo scorso 14 aprile alla conferenza dedicata proprio alla finanza islamica (“Sukuk as a viable fund-raising and investment instrument”).
Ebbene, mister Pang ci ricorda che “la finanza islamica sta diventando sempre più importante nel mercato finanziario globale, poiché registra crescita esponenziali negli ultimi anni”.
Vi sembra un’esagerazione? Macché: nel 2008, dice Pang, l’industria finanziaria islamica valeva 700 miliardi di dollari. Nel 2013 si stimava valesse 1,8 trilioni, “rappresentando una crescita al tasso annuale del 21%”, commenta Pang, mentre mi immagino i suoi occhi ruotare come le testine di una vecchia calcolatrice.
“E si stima che per il 2020 gli asset islamici arriveranno a 6,5 trilioni”, conclude sicuramente per nulla inesausto, ma anzi rinfrancato dalla teoria di dollari a venire che potenzia la sua immaginazione.
Il combinato disposto fra calcolo e immaginazione, che è un po’ lo spirito degli ultimi secoli in Occidente, ormai è dilagato come una pestilenza.
Il grosso di questa crescita di asset islamici è prevista proprio per i sukuk bond. Dieci anni fa le emissioni di questi strumenti quotavano appena 5 miseri miliardi di dollari l’anno, che oggi sono diventati oltre venti volte tanto: 117 miliardi. A spingere questa domanda la forte richiesta di investimenti sicuri da parte di investitori islamici, visto che “negli anni la regione del Golfo ha accumulato un notevole ammontare di ricavi petroliferi”.
“L’anno scorso – nota sempre più compiaciuto e calcolatore Pang – il surplus di conto corrente nel Gulf cooperation council (GCC) è stato stimato intorno ai 300 miliardi di dollari, mentre gli asset gestiti dai fondi sovrani di questi paesi ammontano a oltre due trilioni di dollari”. E poiché questi investitori hanno preferenza per gli strumenti finanziari islamici, ecco l’uovo di Colombo: emetterli a Hong Kong, forti peraltro del rating a tripla A dell’ex colonia.
“Per il suo ruolo di centro finanziario internazionale e quello, unico, di gateway verso la Cina, Hong Kong è ben posizionata per fornire una piattaforma di scambio dove l’offerta di questi surplus dal mondo islamico possa incontrare la grande domanda di finanziamenti che arriva dalle economia asiatiche in crescita. La nostra infrastruttura potrà consentire agli investitori arabi di accedere alle opportunità di investimento in Asia, e in particolare in Cina, consentendo allo stesso tempo ai fund raiser di attingere alla liquidità del mondo islamico”.
E tutti vissero felici e contenti.