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L’alba di Skynet sui mercati finanziari: i nuovi Terminator
Dunque ormai è assodato che alcune entità, che lavorano col trading algoritmico ad alta velocità, si sono ritagliate un ruolo più che rilevante nel mercato dei titoli di stato americani. Questi soggetti sono capaci di determinare eventi potenzialmente traumatici, come dimostra l’accaduto dell’ottobre 2014, e ciò malgrado sono ancora poco conosciuti e ancor meno si sa delle loro strategie e delle tecnologie che utilizzano, sulle quali vige uno strettissimo riserbo.
Questi nuovi Terminator agiscono all’ombra di una regolazione che si è dimostrata finora incapace di contenerne gli esiti, mentre il grande pubblico ne ignora sostanzialmente la loro esistenza.
Eppure le loro tracce sono numerose, anche se finora confinate nell’informazione di settore. Qualche tempo fa il sito Risk.net ha pubblicato una lista confidenziale delle prime 10 top company che lavorano con questi metodi sul mercato dei titoli Usa, prendendo spunto dai dati raccolti su alcune piattaforme elettroniche fra maggio e giugno del 2015 e che si ritiene svolgano fra il 65 e il 70% del volume delle transazione sull’interdealer market.
Ne è venuto fuori che le prime tre società, Jump Trading, Citadel e Teza Technologies, abbiano generato volumi di transazioni per 2,4 trilioni di dollari nel periodo. Altresì che otto di queste entità non sono banche. JP Morgan, che pure sta nella lista di queste entità, è solo al quinto posto.
Fra queste non banche si segnalano KCG, Spire-X, XR Trading, DRW e Rigel Cove. Nel rapporto viene notato come questa attività di trading, oltre che rilevante, sia anche notevolmente concentrata.
Inevitabile chiedersi perciò chi siano, questi soggetti che, piaccia o no, stanno conformando i mercati finanziari.
Comincio la mia ricerca partendo da Jump Trading, che dai dati diffusi da Risk.net ha sviluppato il 28% delle transazioni del campione analizzato. On line trovo il sito, ma tutto ciò che esibisce è una pagina di un gradevole grigio perla, con indicate le sedi ove opera, un link per le posizioni aperte e un paio di mail per i contatti. Zero informazioni sulla compagnia, la proprietà, la storia. Scopro che fino a un anno fa queste informazioni erano pubblicate. Ma poi in un soprassalto di pudore i padroni di Jump devono aver deciso di farle sparire. Devo contentarmi perciò di esplorare ciò che le cronache riportano.
In alcune trovo conferma della sensazione che coltivo dall’inizio di questa storia: questi soggetti non amano la pubblicità. Ma trovo anche qualche informazione. La Jump è stata fondata a Chicago 15 anni fa e ormai conta 400 dipendenti. I fondatori sono due trader, Bill Di Somma e Paul Gurinas. I suoi ricavi annuali hanno superato i 500 milioni di dollari nel 2010, con un profitto netto di 268 milioni. Del resto si sa molto poco. Si sa che la compagnia ha assunto una pletora di scienziati, matematici e programmatori per costruire i propri algoritmi, e che si è anche dotata di una torre di trasmissione dati in Belgio, una volta usata dalla Nato, per spuntare qualche nanosecondo di vantaggio sui concorrenti, che in larga parte si limitano ad affittarle.
La Jump è un po’ il prototipo di queste compagnie, nate su iniziativa di alcuni trader, o direttamente di scienziati. Il CEO della Teza, la numero tre della nostra lista che per fortuna è un po’ più loquace della Jump, si chiama Misha Malyshev, dottore in Astrofisica nel 1998 a Princeton con specializzazioni in fisica teoretica dopo aver conseguito la laurea in matematica e fisica a Mosca. Quindi ha lavorato per la Bell, transitato per la McKinsey, con la quale ha imparato l’arte e l’amore per il business, e quindi si è messo in proprio, nel 2009. Prima però si è fatto le ossa col gruppo Citadel, il numero due della nostra lista, lavorando nel gruppo delle analisi quantitative. Da lì è divenuto rapidamente capo dell’unità che si occupa di High frequency trading, dove è rimasto fino al 2009. Come anche i fondatori della Jump, la Teza e il suo padrone sono molto attivi nella filantropia. Il che denota un chiaro animo gentile e una evidenza convenienza fiscale. Purtroppo il sito non riporta bilanci o altro.
Decido di concedermi l’ultima ricognizione e scelgo la Spire X, che ha un nome che fa molto Skynet. E che risulta altrettanto evanescente. Ne trovo tracce molto scarne nei recessi della rete, dalle quali deduco che è una compagnia giovanissima, che impiega pochissime persone. E tuttavia, nella nostra breve classifica per volume di trading generato sta appena sotto JP Morgan e sopra Barclays.
Cosa hanno in comune queste entità? La prima cosa che salta all’occhio è che sono tutte proprietary firm, ossia aziende create da persone fisiche e tuttora di loro proprietà. Poi che reclutano scienziati per far girare le loro macchine, che fanno trading basandoli su algoritmi quantitativi. Per queste compagnie, insomma, le vecchie categorie dell’economia non hanno sostanzialmente senso: quello che importa sono le quantità pure. Infine, queste compagnie sono nate e si sono sviluppate nell’ultimo decennio e ormai surclassano le vecchie banche, che in confronto sembrano dinosauri. E come il famoso meteorite ha fatto con i dinosauri, i trader automatici adesso minacciano di terminarle.
Il problema è che rischiano di non essere le sole.
(3/segue)
I dinosauri del mercato: le banche d’investimento
Il problema è che i dinosauri sono di nuovo fra noi, ma pochi se ne sono accorti. L’uso di questo sostantivo, ormai divenuto un aggettivo, ormai viene relegato alle cronache di colore, riferendolo magari a pratiche desuete o entità paleolitiche – vecchi organismi burocratici magari. Uno pensa ai dinosauri e gli viene in mente Jurassic park, un museo di scienze naturali, scavi di ossa nel Gobi, le partecipazioni statali. Roba remotissima, insomma, o estremamente fantascientifica.
E invece i dinosauri esistono, eccome. Come i loro progenitori sono organismi giganteschi e voraci, preferibilmente carnivori. Ogni loro passo lascia impronte profonde nell’ecosistema in cui vivono, e sono capaci, cadendo, di provocare crolli a cascata e terremoti a distanza. A differenza dei loro progenitori, però, sono estremamente intelligenti.
Infatti per proliferare e ingrandirsi hanno scelto il migliore degli habitat possibili: tanto concreto quanto aereo: il mercato finanziario. Questi organismi, la BoE ne ha censiti 15 nel suo ultimo quaterly bulletin (“Investment banking: linkages to the real economy and the financial system”) muovono asset stimati per oltre 5 trilioni di dollari, ma soprattutto sono ovunque. A dispetto del loro numero esiguo, la loro influenza è pervasiva e ramificata. Sono pressoché onnipresenti in tutte le cronache dei mercati finanziari, visto che hanno a che fare con i governi, le banche commerciali, le imprese, le borse, e, in generale, tutti i vari tipi di intermediari.
Essere dinosauri, nel nostro tempo economico, significa perciò essere sistemici. E le banche di investimento sono fra i principali pilastri del sistema finanziario insieme alle banche centrali, e alle controparti centrali.
Qualcuno penserà a questo punto che sono prevenuto, ma posso assicurarvi che così non è. Patisco, come tutto ciò che è piccolo, il timore verso ciò che è grande, che mi appare per sua natura minaccioso. Mi dico che dev’essere una difetto della mia percezione, ma poi leggendo l’articolo della Boe mi scopro in buona compagnia.
Proprio in virtù del denaro che muovono e della quantità e qualità degli affari che gestiscono, le banche d’investimento sono un veicolo ideale di contagio. E basta ricordare cosa è successo al mondo quando è fallita Lehman Brothers, che fra questi dinosauri non era neanche uno dei più grossi. “E queste banche – ci ricorda la BoE – rimangono rilevanti per la stabilità finanziaria in Uk, poiché tutte le più grandi banche d’investimento hanno filiali a Londra“. E ciò spiega perché la banca centrale inglese abbia reputato utile dedicar loro un approfondimento.
Per poter apprezzare il lavoro che fanno, le banche di investimento, bisogna innanzitutto ricordare chi siano. La più grossa di tutte, il Tirannosauro rex, potremmo definirla, è la JP Morgan, che a dicembre 2013 risultava avere asset in trading per 895 miliardi di dollari, un bel po’ sopra Goldman Sachs, al secondo poso con 683. Il quartetto delle americane si chiude con Bank of America Merril Linch (665 mld) e Citigroup (625 mld). Poi abbiamo la tedesca Deutsche bank (595 mld), un’altra americana, la Morgan Stanley (564 mld), quindi un po’ di europee: Credit Suisse (511 mld), Barclays (481 mld), BNP Paribas (386 mld), Société Générale (369 mld), HSBC (351 mld), Royal Bank of Scotland (347 mld), UBS (256 mld), Crédit Agricole (163). Dulcis in fundo l’asiatica Mitsubishi (144 mld). Il che dà l’esatta misura di quanto pesi l’Oriente nel mercato finanziario globale.
Una volta che li abbiamo censiti, e ne abbiamo riconosciuto la pericolosità, è utile sapere, come ci ricorda la BoE, che proprio in ragione di ciò questi dinosauri sono soggetti alla regolazione finanziaria. Quindi sono vigilate dalla stessa BoE e dalla Financial conduct Authority (FCA). Ciò ovviamente viene reso complesso dalla vocazione globale di questi soggetti, e anche dal fatto che si tratta in molti casi di banche universali, che sommano alle attività tipiche delle banche di investimento (trading, assistenza per i collocamenti, emissioni obbligazioni, eccetera) anche quelle tipiche delle banche commerciali (accensione di depositi, concessione di prestiti e facilitazione dei pagamenti).
Vale la pena anche ricordare che hanno accesso alla Bank of England’s liquidity facilities tramite lo Sterling Monetary Framework. Insomma: sono clienti privilegiati della BoE e anche il FSB (financia stability board) li ha classificati come Global systemically important banks (G-SIBs). Insomma: i dinosauri, giustamente temuti e coccolati, sono la insieme la bestia nera dei regolatori e i loro pupilli, atteso che la stessa BoE riconosce loro un ruolo assai importante nei processi di efficienza degli scambi finanziari. Argomento assai simile a quello che viene utilizzato per i derivati, lo shadow banking e altre amenità del nostro incomprensibile mondo economicizzato.
L’articolo ci ricorda poi che questi dinosauri agiscono in tre differenti aree di servizi finanziari: sono operatori nel primary capital markets, e quindi assistono le imprese e le agenzie governative che hanno bisogno di raccogliere finanziamenti emettendo azioni o obbligazioni, agiscono nel settore del trading e nel secondary market, anche scrivendo contratti derivati, e infine agiscono come battitori liberi nel mercato finanziario assistendo gli altri operatori che prestano o prendono a prestito, in maniera più o meno collateralizzato, utilizzando tutte le diavolerie che le moderne tecniche finanziarie hanno inventato alla bisogna. Insomma: per farvela breve non si muove foglia che il dinosauro non voglia.
E’ utile sapere che buona parte dei guadagni queste entità li realizzano col trading proprietario (fixed income currency and commodities, FICC), che, sempre nel 2013, ha contribuito a più della metà dei loro incassi globali. Ciò malgrado le pesanti perdite subite con la crisi. La BoE ha calcolato che le banche inglesi hanno subito perdite da trading per 30 miliardi di sterline nel 2008.
Per darvi un’idea di tali profitti, basta ricordare che nel 2013 le prime dieci banche d’investimento hanno avuto guadagni per circa 140 miliardi di dollari, tre quarti dei quali per operazioni svolte nei confronti del mercato finanziario e per un quarto appena per servizi resi alla cosiddetta economia reale.
Se volgiamo lo sguardo al mercato secondario, possiamo notare due cose: la prima è che il portafoglio degli asset gestiti è diminuito significativamente fra il 2008 e il 2013, passando da circa 3.500 miliardi di dollari a meno di 3.000. Ma al contempo che sono aumentati i valori nozionali dei contratti derivati che hanno sottoscritto, passato da circa 400 trilioni a quasi 500.
Altresì è aumentata la quantità di emissioni cui queste entità hanno partecipato a vario titolo. Parliamo di 5,2 trilioni, un livello simile a quello del periodo 2003-07, anche se è mutata la composizione dei titoli emessi. Sono aumentate le amissione corporate e governative, mentre sono diminuite quelle di strumenti come gli Abs.
A questo livello di operatività, sia per volumi che per aree di intervento, non serve essere banchieri centrali per comprendere quanto questi dinosauri siano rischiosi per l’ambiente. E questo spiega perché vari regolatori internazionali, dalla BIS, al FMI passando per il FSB, si siano dedicati a elaborare una qualche forma di cornice normativa capace di contenere la loro esuberanza sovente irrazionale, per ricordare un celeberrima espressione di un ex guru della Fed. E soprattutto perché se ne occupi anche la BoE: “Quote sostanziali dei mercati sono basate in Gran Bretagna: il 70% delle transazioni globali di bond, per esempio, e quasi le metà di tutti i derivati sui tassi di interesse tratti over the counter”.
Insomma: i dinosauri parlano tutti inglese e abitano in gran parte alla City.
Stando così le cose riveste un mero interesse compilativo ricordare le varie riforme della regolazione che, dopo il 2008, sono state messe in campo per provare a mettere la museruola a questa bestia affamata. Solo la cieca fiducia dei banchieri centrali nel principio di razionalità può far credere di riuscire convincere un dinosauro a non far danni. L’esperienza difatti mostra con chiarezza che i finanzieri globali sono sempre molto creativi quando si tratta di inventare un inganno per aggirare una legge.
Perciò mi rassicura assai poco la conclusione della BoE, quando dice che vigilerà insieme con gli altri regolatori per assicurare che “le attività delle banche di investimento siano condotte in maniera sicura ed efficace”. Anche perché, sempre l’esperienza, ha mostrato che sono proprio le banche centrali a correre in soccorso dei dinosauri quando rovinano su main street dai grattacieli di Wall street.
Ma forse dipende dal fatto che amano gli animali.
Il mattone scricchiola, le pensioni tremano
La crisi finirà da dove è cominciata: dal settore immobiliare. Se e quando il mercato si riprenderà – se ne sono avute recenti avvisaglie negli Stati Uniti – allora potremo dire che la paura del grande crollo sarà archiviata. Almeno fino al prossimo scossone.
Per dare un’idea di quanto sia concreta quest’affermazione basta scorrere uno studio recente della JP Morgan Asset Management, di cui fa menzione il Financial Times, nel quale si rileva che il 43% degli investitori istituzionali del mondo ha già notevolmente investito sull’immobiliare. Si calcola che tali investitori gestiscano in totale asset per 7.800 miliardi di dollari. E secondo gli esperti la quota di investimenti diretti sul mattone è destinata a raddoppiare nei prossimi dieci anni. E i prezzi seguiranno (sempre che il credito rimanga facile).
Stando così le cose, vale la pena andarsi a rileggere un rapporto pubblicato qualche mese fa da Tre-Tamburini real estate con Cordea Savills per capire come l’andamento del settore immobiliare, e del suo mercato derivato dei fondi immobiliari, impatti sul sistema previdenziale italiano. Abbiamo già visto, in un post precedente, quanto pesi l’esposizione in titoli di stato italiani dei vari fondi pensione italiani. Adesso crediamo sia utile vedere come e quanto le diverse casse di previdenza, pubbliche e private, siano esposte sul mercato immobiliare, per compredere come gli scricchiolii del mattone rischino di far tremare l’intero sistema della previdenza.
Alcuni dati. Lo studio calcola in circa 20 miliardi di euro il patrimonio immobiliare di assicurazioni e fondazioni bancarie italiane. A questi si devono aggiungere altri 23,4 miliardi di patrimonio in pancia alle casse di previdenza, 18,8 dei quali in investimenti diretti, quindi proprietà vere e proprie, e 4,6 miliardi investiti in fondi immobiliari. Tale somma equivale al 21,25% del totale del patrimonio delle casse. Numeri che bastano a comprendere perché quanto l’andamento del mattone abbia un’influenza diretta sulla redditività (e sul patrimonio) di queste entità.
In dettaglio, la previdenza obbligatoria, privata e pubblica, detiene 19,7 miliardi di mattone, i fondi pensione 3,7 miliardi. I 4,6 miliardi investiti in fondi immobiliari dalla previdenza italiana pesano circa il 10% del totale del mercato dei fondi immobiliari (circa 50 miliardi). I18,8 miliardi di investimenti diretti equivalgono al 42% del patrimonio immobiliare dello Stato, valutato in 55,6 miliardi.
Inps e Inail detengono circa sei miliardi di patrimonio, il che porta al 49,8% l’esposizione della previdenza pubblica ai capricci dell’immobiliare. Circa 3,5 miliardi di questo patrimonio è messo (o dovrebbe essere) a reddito, il resto è patrimonio strumentale. Di questi 3,5 miliardi a reddito, 1,3 miliardi sono beni derivanti dalle ex cartolarizzazioni, sostanzialmente fallite.
Se guardiamo ai rendimenti, c’è poco da entusiasmarsi. Pure nella grande varietà di strumenti utilizzati per calcolarli, si evince che le varie casse spuntano rendimenti oscillanti fra l’1 e il 3% dal proprio patrimonio, a fronte di rendimenti di mercato che variano fra il 5 e il 7%.
La previdenza italiana, quindi, è pesantemente esposta nel mattone italiano, addirittura più delle assicurazioni, ma ne ricava ben poco. In caso di crisi prolungata del mercato, le cose non potrebbero che peggiorare.
La soluzione immaginata per sbloccare questo patrimonio incagliato è quella dei fondi immobiliari che, in teoria, dovrebbe gestire con maggiore efficienza i beni. Ma sempre che il mercato tiri, sennò l’unica valorizzazione che le casse otterrebbero sarebbe quella una tantum del trasferimento a prezzi correnti dei beni (valutati al costo storico) al fondo.
Ce n’è abbastanza per paventare un rischio pensioni? I più pessimisti direbbero di sì.
C’è da sperare che ci vengano in soccorso gli investitori internazionali, di sicuro incoraggiati dalla liquidità a basso costo. E se JP Morgan ha visto giusto, il raddoppio degli investimenti degli istituzionali in dieci anni condurrà senza dubbio ad un aumento dei prezzi.
Ma attenzione però. Kiyohiko G. Nishimura, vice governatore della Banca del Giappone, ha pochi giorni fa lanciato un monito: le bolle immobiliari sono da tempo riconosciute come un rischio per l’economia. Si è visto proprio in Giappone a fine anni ’80, e poi, più di recente negli Usa.
Non vorremmo rivederlo di nuovo.