Etichettato: immobiliare

Le banche spingono il mattone nel baratro


La spintarella capace di far sprofondare il mattone italiano nel baratro, se mai arriverà, arriverà dalle banche, non dal mercato. Quest’ultimo è praticamente congelato da almeno due anni, con compravendite tornate dal livello degli anni ’80. La domanda latita e l’offerta tiene i prezzi quanto più possibili fermi. Il calo delle quotazioni, tuttavia, è lento ma costante.

Ma il problema vero è annidato nelle banche, gonfie come non mai di mattone e di crediti legati al mattone. Una circostanza che di sicuro ha aggravato i loro bilanci. Un dato di Bankitalia, riferito al 2009 ma di sicuro utile a capire quanto pesi l’esposizione bancaria sull’immobiliare, mostra che i finanziamenti al mercato immobiliare (famiglie e imprese) del sistema creditizio pesano 550 miliardi, un terzo degli impieghi totali. Nel 2000 pesavano solo il 20%.

Quindi l’esposizione del sistema creditizio sul mattone è cresciuta del 13% in più in otto anni. Gli anni d’oro del credito bancario facile che adesso il presente e il futuro sono chiamati a scontare.

La Banca d’Italia, in uno degli ultimi bollettini di vigilanza, nota che  “il deterioramento della qualità del credito registrato dalle banche italiane dall’avvio della crisi finanziaria è significativo”. In particolare l’incidenza media dei crediti deteriorati sul totale è passata dal 4,5% di fine 2007 al 12,2% di fine settembre 2012.

Quasi il triplo.

Su un’esposizione immobiliare così importante significa che prima di concedere un mutuo una banca di penserà parecchio.

Bilanci bancari problematici hanno un impatto sistemico sul Paese, questo è evidente. Perciò la Banca d’Italia è intervenuta per fissare alcune regole da osservare nella costruzione dei bilanci futuri, molte delle quali riguardano proprio il trattamento degli immobili, e in particolare di quelli sui quali è stata iscritta un’ipoteca a garanzia di un mutuo.

Nella comunicazione del 15 gennaio 2013, pubblicata il 27 marzo scorso, Bankitalia scrive, ad esempio, che “nel caso
degli immobili nel determinare il fair value si può tenere conto del prezzo di presumibile realizzo nell’asta fallimentare”. Che tradotto dal tecnichese significa che le banche dovranno rettificare il valore a libro dell’immobile parametrandolo a quello presumibile in caso di vendita all’asta. Circostanza che si verifica quando il debitore non paga il mutuo.

In pratica un bel taglio netto delle quotazioni attuali.

Tali istruzioni portano con sé una fastidiosa controindicazione: dovendo avere crediti di migliore qualità, le banche dovranno necessariamente chiedere più garanzie, e quindi restringere il credito. “Il deterioramento del credito – scrive ancora la Banca d’Italia – si è accompagnato ad un graduale rafforzamento delle garanzie acquisite a tutela del credito concesso: la percentuale di esposizioni deteriorate coperte da garanzie è passata, nel medesimo arco temporale, dal 42,3 per cento al 50,6 per cento”.

Ricapitoliamo: da una parte le banche concederanno meno credito, ma di qualità migliore. Dall’altra dovranno rettificare i valori degli immobili messi a garanzia dei prestiti, usando come stima il valore a base d’asta fallimentare.

In pratica per il mattone italiano una doppia spinta verso il baratro.

Poi ce n’è una terza.

Oltre ad avere i portafoglio gonfi di prestiti e mutui basati sul mattone, le banche sono pure gonfie di mattone fisico. La ricerca di una migliore qualità degli attivi spinge costantemente le banche verso una valorizzazione di questi immobili. E poiché il mercato non tira, l’unico modo per riuscirci è usare i fondi immobiliari.

E’ di pochi giorni fa la notizia pubblicata da Radiocor secondo la quale Intesa San Paolo starebbe pensando di cedere cedere un blocco di immobili al fondo Idea Fimit, una sgr del gruppo De Agostini. Il fondo, per la cronaca, fu creato ad hoc nel 2008 in occasione di una precedente operazione tra le due parti con cui Intesa aveva ceduto 850 milioni di asset.

Insomma, il copione è sempre lo stesso: le banche cedono ai fondi immobiliari, molti dei quali sono loro espressioni, il proprio mattone, e magari prestano ai fondi il denaro necessario per l’acquisto. In questo modo le risorse per i mercati dei mutui diminuiscono e il problema si sposta su un altro soggetto – i fondi immobiliari italiani – che ormai sono gli unici che investono sul mattone nostrano nella speranza di tempi migliori.

Insomma, per una serie di questioni, il credito al settore è congelato. Difficile che dalle banche arrivi ossigeno per il mattone. Allo stesso tempo le famiglie, con un livello di crescita del reddito in calo costante, è molto difficile che possano riuscire a generare una quota di risparmio tale da far decollare gli acquisti di nuovo.

Stando così le cose, in assenza per giunta di crescita, il mattone ha solo una possibilità per rilanciarsi: la deflazione.

I prezzi dovranno scendere finché non saranno coerenti con il livello generale dei redditi e con la quantità di credito disponibile.

Se considerate che fatto 100 il livello dei prezzi immobiliari nel 1975, nel 2008 tale indice era arrivato a 1.750 e nel 2012 a 1.500, è chiaro a tutti quanto ampia sia la possibilità che i prezzi scendano ancora.

Secondo voi che succederà?

Pubblicità

Il mattone dell’Inps segna rosso fisso


La débâcle dell’Immobiliare Nazionale della Previdenza Sociale, secondo o terzo nome dell’Inps, è scritta nei conti e nelle relazioni che li hanno accompagnati. La commissione parlamentare di controllo sugli enti di previdenza e la Corte dei conti, che al patrimonio immobiliare dell’Inps hanno dedicato pagine e approfondimenti, lo dicono a chiare lettere: il mattone dell’Inps vale oltre 1,8 miliardi di euro eppure riesce a spuntare rendimenti negativi. Un altro triste primato della cosa pubblica.

I primi a certificare tale fallimento sono stati i commissari parlamentari. Nelle conclusioni della relazione di fine consiliatura, presentata il 21 dicembre scorso, scrivono che “l’attività svolta ha fatto emergere la necessità di rivedere le modalità di gestione del patrimonio immobiliare, residuato dalle operazioni di cartolarizzazione, i cui risultati insoddisfacenti in alcuni casi piuttosti che garantire dei rendimenti positivi dallo luogo a perdite”. La gestione del patrimonio immobiliare da reddito, aggiungono, “nel consuntivo 2010 ha rilevato entrate per 38,1 milioni e spese per 93,2 milioni, determinando un risultato negativo netto per 55,1 milioni”.

L’altra certificazione arriva dalla Corte dei conti. Nella sua relazione al bilancio 2011, i magistrati notano che le perdite si erano stabilizzate intorno ai 10 milioni di euro nel biennio 2008/2009, poi sono arrivate ai 55 milioni che abbiamo già visto nel 2010 e sono scese a 33,7 milioni nel 2011, con “un aumento sensibile e costante, nel biennio 2010/2011 delle spese di conduzione, ammortamento e costi diversi”.

La circostanza più grave è che il futuro è quantomai incerto. “Dopo i ripetuti solleciti – scrive la Corte – è cessata l’anomala concessione di proroghe dei contratti scaduti per la gestione degli immobili. Le procedure di gara, pervenute ad aggiudicazione nel mese di giugno 2012 risiltano peraltro in contestazione”.

Ma non è tanto la vicenda burocratica, il problema. La questione è strategica. Dopo che nel 2009 l’inps è stata costretta a far rientrare nel proprio patrimonio tutti gli immobili avanzati dal fallimento della cartolarizzazione Scip 2, l’istituto si è trovato a dover gestire una massa di immobili enorme (valore di bilancio 1,8 miliardi) senza avere norme chiare e strumenti operativi.

In pratica, si sono bloccate le dismissioni e sui conti dell’Inps si sono scaricati enormi costi di gestione che hanno portato i conti in negativo Nel 2010 l’Inps provò a fare un fondo immobiliare ad apporto, ma nell’indeterminatezza generale tutto rimase fermo. Le vendite si bloccarono, anche a causa dei numerosi contenzioni sui cosiddetti immobili di pregio, e adesso si parla di nuovo di un fondo immobiliare, anche in seguito alle ultime decisioni del governo sul patrimonio pubblico in tal senso.

Nel frattempo rimane il rosso fisso nella gestione.

Ma neanche questa è una novità. Sin dalla metà degli anni ’90, quando per la prima volta esplose il caso dell’uso allegro degli immobili Inps, si è provato in tutti i modi a farne qualcosa di produttivo. La stagione delle vendite ha raggiunto il culmine con le due Scip di inizio anni 2000 che (ci torneremo un’altra volta) hanno portato più perdite che guadagni ai conti dello Stato, per poi, clamorosamente tornare indietro. Tutto il patrimonio tornò nella pancia dell’Inps.

In pratica dal 2009 siamo tornati al 1995.

Fallita la strategia delle vendite “coatte” rimane solo la carta di un fondo immobiliare per provare a fare cassa. Intanto ci hanno guadagnato i gestori, con le loro ricche commissioni, e pochi inquilini, più o meno illustri, che si sono portati a casa un bel pezzo di patrimonio pubblico a prezzi di realizzo in maniera perfettamente legale.

Adesso, una volta privatizzati i guadagni, rimane solo da socializzare le perdite.

Tanto per cambiare.

Il mattone italiano nel tornante della storia


La storia del nostro mercato immobiliare è cambiata nel 2005, dopo quasi cinquant’anni. Un bel grafico, frutto di una corposa elaborazione del Cresme, pubblicato nell’ultimo rapporto sul mercato delle costruzioni, racconta come si sia evoluto il mattone italiano sin dal 1958, e tratteggia uno scenario epocale per gli anni che abbiamo di fronte. Ossia che per la prima volta nel nostro Paese diminuiranno i proprietari e aumenteranno gli inquilini.

Il grafico in questione mette insieme quattro curve che misurano, rispettivamente, l’andamento del reddito familiare netto, il prezzo delle abitazioni, i canoni di locazione e la spesa delle famiglie per consumi. Fatta 100 la base nel 1958, l’andamento del reddito è stato sempre crescente, con un picco di oltre 300 raggiunto nel 1988, quando ha iniziato a declinare. Anche la curva dei prezzi immobiliari ha avuto un incremento crescente, seppure con un ciclo di rialzi/ribassi più pronunciato. Ma la curva del reddito è stata sempre sopra quella dei prezzi immobiliari. Ciò vuol dire che le famiglie hanno avuto sempre a disposizione una quota di risparmio, in alcuni momenti anche significativa, da investire sul mattone.

Le due curve si toccano per la prima volta intorno al 1992. I prezzi del mattone erano al picco di un trend di crescita iniziato a metà degli anni ’80 (che poi darà inizio a un ciclo ribassista), mentre i redditi seguivano il loro trend di calo iniziato nel 1988 (indice poco sopra 275).

Il calo del settore immobiliare dei primi anni ’90 fece risalire ampiamente la curva del reddito sopra quella dei prezzi, sebbene l’andamento del reddito fosse sostanzialmente piatto (anzi leggermente in calo fino al ’95), ma già dal 1997 la curva immobiliare riprese a crescere: una galoppata irrefrenabile.

Il sorpasso arriva proprio nel 2005. La curva del costo del mattone, spinta da un aumento dei prezzi reali delle compravendite (+48% al 2007, da ’96) e delle locazioni (+39% al 2005) supera quella dei redditi (+12%) che peraltro devono fare i conti con un forte arresto (-7,6%) nei cinque anni successivi. Nelle grandi città il sorpasso arriva prima: nel 2002: l’età dell’euro. La curva dei prezzi supera quota 350 nel 2008 (ora siamo poco sotto 300).

Tale circostanza viene aggravata dal fatto che la crescita dei consumi delle famiglie non si arresta. Una crescita che “già alla fine degli anni ’90 – scrive il Cresme – sta salendo oltre la capacità della crescita reddituale”.

Il combinato disposto fra aumento consumi, aumento dei prezzi immobiliari e calo del reddito provoca che per una parte rilevante della popolazione, quel 30% che a fine 2011 non aveva case di proprietà, sia molto difficile comprare casa. Non avendo capacità di risparmio è praticamente impossibile mettere da parte quella provvista minima da affiancare a un mutuo (sempre che le banche lo concedano).

Dal 2009 i prezzi hanno iniziato una fase di calo e solo a fine 2011 la curva del reddito è risalita appena sopra quella del corso del mattone, ma rimane ancora abbondantemente al di sotto del livello necessario a coprire i consumi. Ai livelli attuali di reddito l’unico mercato accessibile è quello delle locazioni, la cui curva, infatti, negli ultimi anni segue un andamento pressoché parallelo a quello dei redditi.

Alcune altre notazioni servono a illustrare che siamo davvero a un tornante della storia. La percentuale del reddito destinato all’investimento, a fine 2011, era arriva sotto quota 150 (indice base 100, 1958), al livello dei primi anni ’70. In quegli anni il 51% delle famiglie aveva casa di proprietà, mentre il 43% viveva in affitto. Ma si veniva da un decennio di grande crescita dei redditi  (+51% fra 1958 e il 1969).

La distribuzione proprietari/locatari cresce negli anni successivi sempre a favore dei proprietari. Alla fine del periodo 1969-78 le famiglie proprietarie sono il 53%, quelle in affitto il 41. Nel periodo successivo, 1978-1986, si arriva a oltre il 60% di proprietari e al 31% di locatari. Fra il 1986 e il 1996 si arriva al 65% di proprietari e al 24% dei locatari, mentre nel periodo finale (1996-2011) si arriva al 70% di proprietari e al 20% di locatari.

Ci sono voluti 50 anni per portare i proprietari dal 50 al 70% delle famiglie, e per far scendere i locatari dal 43% al 20. Ma adesso, col crollo delle compravendite e dei prezzi, tuttora in corso, e a fronte dell’impossibilità di disporre di risparmi da investimento, la cosa più logica, a meno che i prezzi del mattone non cadano drammaticamente o (improbabile) che aumentino i redditi, è che diminuiscano i proprietari e aumentino i locatari. Che si inverta il ciclo.

Per la prima volta, dopo più di 50 anni.

Le banche vendono casa, ma chi compra?


Ho vissuto una piacevole sensazione di déjà vu mentre scorrevo un articolo pubblicato sull’inserto Casa del Sole 24 ore intitolato “Le banche fanno cassa vendendo il mattone”, dove si racconta del tentativo degli istituti italiani di liberarsi di grosse quantità di beni immobiliari rimasti incagliati.

Infatti mi è tornato in mente un altro articolo, pubblicato sempre sul Sole 24 ore nel lontano 10 agosto 2002, titolato stavolta “Le banche rilanciano il ballo del mattone”. Al di là dei toni, frizzante e ottimista quello del 2002, dimesso e preoccupato quello del 2013, il succo è lo stesso: le banche italiane stanno cercando di liberarsi di quote cospicue di beni immobiliari, come se negli ultimi 11 anni non fosse cambiato nulla. Salvo la domanda: chi compra?

Nel 2002 la risposta era facile. Il mondo bancario aveva di che sorridere: tassi bassi e fiducia alle stelle favorirono una notevole quantità di spin off dei loro patrimoni immobiliari che generarono per gli istituti enormi plusvalenze e fecero schizzare alle stelle l’ottimismo (e i valori). L’euforia generò, letteralmente, una miriade di operatori sponsorizzati dalle stesse banche che si buttarono con voracità sul mercato lucrando riccamente altre grosse plusvalenze grazie a compravendite istantanee, mentre il carico debitorio sulle famiglie, sempre grazie al credito “gratis”, aumentava a due cifre.

Sappiamo com’è finita: nel 2008 la crisi americana si è abbattuta come uno tsunami su mattone italiano. Le banche hanno chiuso i rubinetti, i prezzi si sono congelati, la domanda è crollata, l’offerta è rimasta appesa. Molti istituti di credito si sono viste restituire le case che tanto allegramente avevano venduto a debito, perché i debitori non erano più in grado di pagare il mutuo (o il fido) e adesso il loro portafoglio immobiliare si è di nuovo gonfiato. Chiaro che vogliano liberarsene.

Ma siccome l’aria è cambiata, la buona volontà non  basta più. Anche perché sul tappeto c’è un altro grande proprietario – lo Stato – che da anni promette di vendere il suo, di patrimonio immobiliare, malgrado il pregresso (ne parleremo un’altra volta) abbia mostrato che lo Stato, già pessimo proprietario, si è rivelato un venditore ancora peggiore.

Per di più i prezzi sono previsti in calo, il credito è stitico e la fiducia ancora al lumicino. Se lo Stato e le banche (per non parlare delle assicurazioni) mettessero davvero sul tappeto i loro patrimoni immobiliari rischierebbero di far crollare i prezzi, con relativo nocumento per i loro attivi patrimoniali.

Chiaro che per il momento le banche si accontentino di mettere on line le proprie offerte (lo fa anche il Demanio, peraltro) come un qualunque agente immobiliare. Si mira al privato italiano, anche piccolo, almeno per il residenziale, sognando il grande investitore istituzionale, magari estero.

Ma è proprio quest’ultimo che latita. Sempre sul Sole 24 leggiamo di uno studio di Bnp Paribas secondo il quale la quota di investimenti esteri sul mattone italiano è ai minimi storici. Nel 2012 le transazioni si sono bloccate a quota 1,7 miliardi di euro, il 60% in meno dei 4,3 miliardi del 2011, quando erano già in crisi profonda. Pensate che nel 2007, prima dello sboom, si era raggiunto il picco di 7,552 miliardi di euro di acquisti dall’estero.

Un’altro dato citato nell’articolo fa riflettere. Nel triennio 2009-2012 sono cresciuti gli investimenti dei fondi immobiliari italiani, dal 26 al 39%, mentre i fondi esteri, quelli tedeschi in testa, sono fuggiti via (dal 17 al 4%). Il mattone raschia il barile e trova il Fondo, abbiamo scritto qualche giorno fa (vedi post).

Quello che non sapevamo, perché non disponevamo dello studio Bnp Paribas, era che fossero fondi italiani. E solo loro. Persino le società immobiliari, le assicurazioni e i fondi pensione italiani hanno ridotto la loro esposizione, dal 9% del totale degli investimenti ad appena l’1%. Gli unici che ancora investono sul mattone italiano sono i privati e le società corporate. Da qui gli annunci immobiliari delle banche.

Quello che invece sapevamo, anche senza aver letto lo studi di Bnp Paribas (vedi post Un mattone s’aggira per l’Europa), era che il mercato tedesco è quello più attrattivo per chi vuole investire sul mattone. Lo conferma la fuga dei fondi tedeschi dall’Italia, che di sicuro trovano più conveniente investire a casa loro, visti i prezzi, e la crescita degli investiment in questo paese, arrivata nel 2012 a quota 44,7 miliardi, il 9% in più rispetto all’anno precedente. A Berlino la crescita annua è stata addirittura del 65%.

Insomma, la Germania non solo rastrella denaro per i suoi titoli a costo zero (per non dire negativo) ma si rivela anche il mercato più attrattivo per gli investimenti immobiliari, visto che i prezzi reali non crescono da dieci anni. Peggio di noi va solo Madrid.

Ma anche questo lo sapevamo: se si osserva la crescita dei prezzi immobiliari dal 1975 al 2012 si vede che la bolla italiana (indice 100 nel 1975, 1.750 nel 2008) è seconda solo a quella spagnola (indice 100 nel 1975, 4.000 nel 2008). 

Quindi le banche italiane vendono casa, ma non sanno come fare. Il timore è che sperino in un miracolo.

La condizione ideale per combinare guai.

Un Mattone s’aggira per l’Europa


Da dove ripartirà la crescita? Gli Stati uniti hanno puntato decisamente verso politiche espansionistiche, sostenuti dalla Banca centrale (con primi timidi segnali di successo), e il Giappone farà lo stesso. L’Europa invece, almeno finora, sembra puntare sul consolidamento del sistema produttivo e sull’aggiustamento fiscale, con tutta la necessaria austerità che da ciò consegue, lasciando intendere di voler puntare sull’export assai più che sui consumi interni.

Ma non è detto che vada a finire così. I principali paesi europei dispongono ancora di notevoli riserve di valore che attendono di essere impiegate in maniera profittevole. Quello che manca, forse, è solo una buona occasione.

Alcuni dati, tratti dall’esame della ricchezza delle famiglie di Francia, Germania Regno Unito e Italia nel periodo 1999-2010, suggeriscono questa osservazione.

Cominciamo dalla ricchezza netta. Nel 1999 la ricchezza netta delle famiglie italiane era pari a 5,95 volte il reddito disponibile. Quindi a un reddito mettiamo di 100 euro l’anno, corripondeva una ricchezza netta (somma di attività reale e finanziarie meno i debiti) di 595 euro. Meglio di noi stavano solo gli inglesi, dove tale indice era a quota 7,69. Dopo di noi si collocavano la Francia e la Germania. Nel 2010 la riccehzza netta italiana quotava 7,95 volte il reddito, la GB 8,23, la Francia 8,12 mentre non si dispone al momento di un dato per la Germania. Di sicuro l’Italia ha perso posizioni.

Il dato si fa più interessante se si scompone la ricchezza netta nelle sue componenti reali e finanziarie e si considerano i debiti. Nel 1999 il mattone italiano quotava 3,8 volte il reddito disponibile, il portafoglio finanziario 2,51. I debiti erano il 36% del reddito. Il mattone inglese quotava 3,59 volte il reddito, il portafoglio 5,24, i debiti erano il 114% del reddito. Il mattone francese quotava 3,32 volte il reddito, il portafoglio 2,94, i debiti erano il 72% del reddito. Il mattone tedesco quotava 3,87 volte il reddito, il portafoglio 2,69, i debiti il 115% del reddito.

Nel 2010 il mattone italiano valeva 4,99 il reddito, quello britannico 5,23 e quello francese 5,95. L’ultimo dato disponibile sul mattone tedesco risale al 2008, quando veniva quotato 4,37 volte il reddito, molto al di sotto dei valori degli altri tre stati nello stesso anno. Quindi si può ragiovenolmente presumere che tale tendenza sia stata ribadita anche nel 2010.

A confermare questa stima, in assenza di dati precisi, l’incidenza degli investimenti in costruzioni sul Pil dei singoli stati. In Germania tale dato è in calo costante dal ’94 (circa il 15%) con un picco di calo nel 2005 (l’anno in cui tutti gli altri mercati tiravano)  quando arriva sotto il 10%. Per fare un paragone con la Francia, nel 2005 tale quota del Pil era circa il 13% e l’Italia era intorno all’11%. Quindi la Germania ha deflazionato il mercato immobiliare, a differenza degli altri stati europei considerati (pensate che in Spagna nel 2005 il mattone pesava oltre il 20% del Pil).

Altro dato interessante, l’indebitamento. Quello italiano è quasi raddoppiato (dal 36 al 71%) nel periodo 1999-2010, quello inglese è passato dal 114 al 165% del reddito, quello francese dal 72 al 99%, quello tedesco, caso unico in Europa, è diminuito, dal 115 al 98%.

Quindi abbiamo un mercato immobiliare “freddo” (quello tedesco), dove si è investito poco (e quindi i prezzi sono rimasti stabili nel tempo), e una riserva di potenziale di indebitamento (quello italiano, ma anche quello tedesco e francese) che potrebbe indirizzarsi verso il mattone tedesco, visto che gli altri sono ancora troppo cari. Visto che il nostro è un mercato unico, niente di più facile che questi flussi finiscano con l’incontrarsi.

Alcuni dati sembrano confermare questa tendenza. Nell’aprile scorso l’Ifo di Monaco ha rilevato che gli investimenti reali nelle costruzioni, caduti del 25% dal 1994 al 2009, nel 2010 sono cresciuti del 2.2 % e nel 2011 addirittura del 5.8 %. I permessi di costruzione per i condomini nel 2011 sono saliti del 42.4 % rispetto all’anno precedente.

Gli esperti hanno interpretato tale tendenza come la conferma che banche e assicurazioni tedesche non si fidano più a investire sull’estero (causa crisi euro) ma preferiscono indirizzare gli investimenti sul mattone di casa, il famoso porto sicuro. E lo stesso potrebbero fare i cittadini tedeschi, visto che i loro titoli pubblici rendono zero, hanno meno debiti di prima e il loro portafoglio finanziario sebbene quoti solo 2,97 volte il reddito (in Italia è 3,67, ma i redditi sono più bassi di quelli tedeschi) è di sicuro ben nutrito. Molti potrebbero valutare più conveniente comprare che vivere in affitto. Mettiamoci pure che il mattone tedesco attira anche molti investitori europei, ansiosi di mettere al sicuro i propri risparmi (nel 2012, per colmo d’ironia, c’è il boom di italiani che comprano casa in Germania).

Insomma: l’immobiliare potrebbe tornare a far sorridere l’economia europea, rilanciando investimenti e consumi. Il mattone in crisi che si aggira per l’Europa ormai dal 2007 potrebbe mettere radici a Berlino.

Tanto per cambiare.

Dall’età dell’oro all’età Loro (passando per l’euro)


In tempi elettorali ragionare sulla ricchezza di un Paese conduce di rado a qualcosa di buono, specie in tempi di crisi. Si offrono strumenti a chi soffia sul vecchio conflitto di classe o a quelli che offrono soluzioni a gettone per questioni complesse come la ridistribuzione del reddito o del carico fiscale. E tuttavia chi voglia capire come stiamo oggi non può prescindere dal guardarsi indietro e vedere come stavamo. E l’analisi della ricchezza è un indicatore sociale assai eloquente, a volerlo leggere.

Perciò ci siamo armati di pazienza e ci siamo andati a ripescare alcuni quaderni della Banca d’Italia che parlano della ricchezza delle famiglie italiane ricavandone alcune indicazioni assai istruttive.

Cominciamo dalla fine. Da fine 2011, per essere precisi. La ricchezza totale delle famiglie viene calcolata in 8.619 miliardi di euro, il 62,8% in attività reali (immobili e altro), pari a 5.978 mld, il 37,2% (3.541 mld) in attività finanziarie (depositi, titoli e altro). Le passività, quindi i debiti, erano 900 miliardi, ossia il 9,5% del totale della ricchezza. La ricchezza è in calo del 5,8% dal 2007, quando ha toccato il suo picco (sempre a prezzi 2011) di 9.151 mld.

Rispetto al passato le attività reali sono cresciute a scapito di quelle finanziarie. Quindi il valore crescente del mattone si è mangiato quello della finanza. A fine 2011, nota Bankitalia, “il livello di ricchezza è simile a quello di fine anni ’90”, con l’avvertenza che nel frattempo le famiglie sono aumentate di 5 milioni di unità e si sono “ristrette”: da 2,9 a 2,5 individui per nucleo.

Ultimo dato utile per capire come stiamo, l’indice di distribuzione della ricchezza: l’indice Gini. Quest’ultimo oscilla fra 0 e 1, quindi fra minima concentrazione e massima concentrazione. Nel 2011 quest’indicatore misurava 0,624 in crescita dallo 0,62 del 2010 e dallo 0,61 del 2008. Nell’ultimo triennio, quindi si è avuta un’ulteriore concentrazione di ricchezza nel 10% delle famiglie che detiene il 45,9% della ricchezza complessiva (era il 44,3% nel 2008). Chi ha soldi non risente della crisi, ma anzi se ne avvantaggia.

Anche qui, Bankitalia nota che il valore 0,62 è in linea con i valori di fine anni ’90. Quindi chi dice che l’introduzione dell’euro abbia favorito la concentrazione della ricchezza dice una corbelleria.

Vero è però che non siamo sempre stati così. Solo che bisogna fare un bel passo indietro. Addirittura all’inizio degli anni ’90. Praticamente l’età dell’oro del ceto medio italiano.

Per capire come eravamo, fra il 1990 e il 1992, basti sapere che l’indice Gini quotava 0,59 e la quota di ricchezza posseduta dal 10% delle famiglie più ricche era intorno al 40%. Il cambiamento, che si è annunciato come culturale, si è declinato con l’economia è ha finito col diventare sociale, si è consumato fra il 1991 e il 1993.  Sono gli anni delle grandi privatizzazioni, delle superfinanziarie, della crisi valutaria.

A fine ’93 L’indice di Gini è schizzato a 0,63 e il 10% delle famiglie più ricche deteneva già 45% della ricchezza totale. Un aumento impressionante di nuovi ricchi. Dall’età dell’oro del ceto medio all’età Loro (dei ricchi).

Per converso la quota di ricchezza detenuta dal 50% delle famiglie meno abbienti crolla da poco più dell’11% del ’91  a poco sopra l’8%. Si crea spazio per la categoria dei nuovi poveri che inizia a fagocitare il ceto medio.

In pratica fra il 1993 e oggi non è cambiato niente, né a livello di concentrazione della ricchezza, né al livello della quota destinata al 10% più ricco. Questo è il nostro ventennio perduto.

O meglio qualcosa è successo. La ricchezza totale è cresciuta costantemente, e con essa i debiti delle famiglie. E la variabile  indipendente della ricchezza, il driver direbbero gli economisti, è stato il mattone. I guadagni degli investimenti finanziari infatti, scrive ancora la Banca d’Italia, sono stati positivi fino al 2000 e negativi per il decennio successivo. Ciò, malgrado la cospicua quota di ricchezza che le famiglie hanno girato negli anni a banche, assicurazioni, fondi e quant’altro. Basti pensare che fino alla seconda metà degli anni ’90 le famiglie investivano in titoli pubblici il 14% della loro ricchezza finanziaria. Nel 2011 tale quota era crollata al 5,2%.

Al contrario il mattone è andato a gonfie vele dal 2000 fino al 2008. E quindi entra in gioco l’euro. Nel ’97 (valori correnti 2011) la ricchezza immobiliare era valutata in circa 3.000 miliardi. Nel 2002, quindi dopo l’ingresso dell’euro che fa impennare i valori immobiliari, è già schizzata quasi a quota 4.000 e da lì sale progressivamente fino a sfiorare i 6.000 miliardi circa del 2011. Fatta 100 la ricchezza immobiliare del 1995, a fine 2011 tale indice è schizzato a 220. La famosa bolla che non c’è ma che si vede.

A tale arricchimento immobiliare ha corrisposto il triplicarsi dell’indebitamento delle famiglie che nel ’95 era di poco superiore al 20% del reddito e nel 2010 sfiorava quotava il 71%. In pratica le famiglie si sono pagate, indebitandosi, l’aumento dei corsi immobiliari. Un affare per chi ha grandi patrimoni immobiliari, che ha lucrato dell’aumento dei corsi, ma non certo per i piccoli proprietari. Ne ha fatto le spese il risparmio netto, crollato da circa il 3% della ricchezza netta del ’96 a meno dell’1% nel 2011, complice anche una crescita insoddisfacente del reddito da lavoro.

Ci fermiamo qui perché crediamo sia necessario digerire tutte queste cifre, rimandando a un altro post il confronto internazionale fra l’andamento della ricchezza italiana e quella di altri paesi.

Per il momento si può trarre una conclusione. Nel 1991 eravamo un paese in cui le famiglie erano poco indebitate, mediamente benestanti (l’accesso al mercato immobiliare era molto più facile di adesso) e la distribuzione della ricchezza era più equa.

Oggi non più.

Il mattone scricchiola, le pensioni tremano


La crisi finirà da dove è cominciata: dal settore immobiliare. Se e quando il mercato si riprenderà – se ne sono avute recenti avvisaglie negli Stati Uniti – allora potremo dire che la paura del grande crollo sarà archiviata. Almeno fino al prossimo scossone.

Per dare un’idea di quanto sia concreta quest’affermazione basta scorrere uno studio recente della JP Morgan Asset Management, di cui fa menzione il Financial Times, nel quale si rileva che il 43% degli investitori istituzionali del mondo ha già notevolmente investito sull’immobiliare. Si calcola che tali investitori gestiscano in totale asset per 7.800 miliardi di dollari. E secondo gli esperti la quota di investimenti diretti sul mattone è destinata a raddoppiare nei prossimi dieci anni. E i prezzi seguiranno (sempre che il credito rimanga facile).

Stando così le cose, vale la pena andarsi a rileggere un rapporto pubblicato qualche mese fa da Tre-Tamburini real estate con Cordea Savills per capire come l’andamento del settore immobiliare, e del suo mercato derivato dei fondi immobiliari, impatti sul sistema previdenziale italiano. Abbiamo già visto, in un post precedente, quanto pesi l’esposizione in titoli di stato italiani dei vari fondi pensione italiani. Adesso crediamo sia utile vedere come e quanto le diverse casse di previdenza, pubbliche e private, siano esposte sul mercato immobiliare, per compredere come gli scricchiolii del mattone rischino di far tremare l’intero sistema della previdenza.

Alcuni dati. Lo studio calcola in circa 20 miliardi di euro il patrimonio immobiliare di assicurazioni e fondazioni bancarie italiane. A questi si devono aggiungere altri 23,4 miliardi di patrimonio in pancia alle casse di previdenza, 18,8 dei quali in investimenti diretti, quindi proprietà vere e proprie, e 4,6 miliardi investiti in fondi immobiliari. Tale somma equivale al 21,25% del totale del patrimonio delle casse. Numeri che bastano a comprendere perché quanto l’andamento del mattone abbia un’influenza diretta sulla redditività (e sul patrimonio) di queste entità.

In dettaglio, la previdenza obbligatoria, privata e pubblica, detiene 19,7 miliardi di mattone, i fondi pensione 3,7 miliardi. I 4,6 miliardi investiti in fondi immobiliari dalla previdenza italiana pesano circa il 10% del totale del mercato dei fondi immobiliari (circa 50 miliardi). I18,8 miliardi di investimenti diretti equivalgono al 42% del patrimonio immobiliare dello Stato, valutato in 55,6 miliardi.

Inps e Inail detengono circa sei miliardi di patrimonio, il che porta al 49,8% l’esposizione della previdenza pubblica ai capricci dell’immobiliare. Circa 3,5 miliardi di questo patrimonio è messo (o dovrebbe essere) a reddito, il resto è patrimonio strumentale. Di questi 3,5 miliardi a reddito, 1,3 miliardi sono beni derivanti dalle ex cartolarizzazioni, sostanzialmente fallite.

Se guardiamo ai rendimenti, c’è poco da entusiasmarsi. Pure nella grande varietà di strumenti utilizzati per calcolarli, si evince che le varie casse spuntano rendimenti oscillanti fra l’1 e il 3% dal proprio patrimonio, a fronte di rendimenti di mercato che variano fra il 5 e il 7%.

La previdenza italiana, quindi, è pesantemente esposta nel mattone italiano, addirittura più delle assicurazioni, ma ne ricava ben poco. In caso di crisi prolungata del mercato, le cose non potrebbero che peggiorare.

La soluzione immaginata per sbloccare questo patrimonio incagliato è quella dei fondi immobiliari che, in teoria, dovrebbe gestire con maggiore efficienza i beni. Ma sempre che il mercato tiri, sennò l’unica valorizzazione che le casse otterrebbero sarebbe quella una tantum del trasferimento a prezzi correnti dei beni (valutati al costo storico) al fondo.

Ce n’è abbastanza per paventare un rischio pensioni? I più pessimisti direbbero di sì.

C’è da sperare che ci vengano in soccorso gli investitori internazionali, di sicuro incoraggiati dalla liquidità a basso costo. E se JP Morgan ha visto giusto, il raddoppio degli investimenti degli istituzionali in dieci anni condurrà senza dubbio ad un aumento dei prezzi.

Ma attenzione però. Kiyohiko G. Nishimura, vice governatore della Banca del Giappone, ha pochi giorni fa lanciato un monito: le bolle immobiliari sono da tempo riconosciute come un rischio per l’economia. Si è visto proprio in Giappone a fine anni ’80, e poi, più di recente negli Usa.

Non vorremmo rivederlo di nuovo.