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I Terminator della borsa spaventano anche la Buba

E così lo dice anche la Bundesbank: l’high frequency trading può far male ai mercati esasperandone la volatilità. La lunga e fiorente letteratura dedicata ai Terminator delle borse – sistemi algoritmici di trading ormai automatici – si arricchisce perciò di un altro capitolo, contenuto nell’ultimo bollettino mensile della banca centrale tedesca.

L’analisi non dice nulla di nuovo a chi ha già avuto la ventura di avvicinarsi al tema, ma giova segnalarla perché conferma che i regolatori guardano con crescente preoccupazione a un fenomeno di portata storica. A tal proposito è sufficiente ricordare che “gli HFT (high frequency trader, ndr) hanno una quota di quasi il 50% dei volumi di trading nei segmenti più liquidi dei mercati Usa ed europei”. Una prospettiva che spaventa i molti che osservano sgomenti come “i programmi dei computer stanno sostituendo il giudizio umano nel decidere quali titoli acquistare o vendere, quando comprare o/e a quale prezzo vendere”. Questi sistemi inoltre “nel giro di pochi millesimi di secondo sono in grado di analizzare enormi quantità di dati e generare centinaia di ordini”. Il passo da qui a certi scenari apocalittici alla Skynet, come si vede, è brevissimo.

Anche perché “di recente – aggiunge la Buba – un’ondata di forte turbolenza dei prezzi, che non può essere spiegata dai fondamentali, ha spinto l’Hft alla ribalta dell’attenzione pubblica e regolamentare”. Sicché gli osservatori hanno iniziato a incolpare questi trader che vivono al confine fra scienza e fantascienza. A tal proposito, il report della Buba si è proposto di analizzare quale effetto l’incremento esponenziale della velocità di trading sta avendo sul mercato dei capitali e per l’occasioni gli economisti della banca hanno attinto a copiosi dati estratti dagli archivi del Dax e dei contratti future sui Bund.

“I risultati – spiega la banca – mostrano che i market player Hft più attivi, ossia quelli che assorbono liquidità, hanno svolto una grande quantità di scambi nei periodi di accresciuta volatilità. Al tempo stesso i market player Hft passivi, ossia coloro che forniscono liquidità, hanno tenuto un basso profilo, cancellando ordini o riducendo la fornitura di liquidità”. Il risultato è che “in periodi di turbolenza, il rischio di eccessiva volatilità aumenta e può provocare turmoil di mercato”.

Ve la faccio semplice: questi strumenti sono prociclici, ossia esasperano le tendenze del mercato non appena queste si manifestano. Il che è perfettamente logico: in fondo fanno in maniera automatica e assai più veloce quello che fanno gli operatori umani, e quindi ne replicano tendenza e idiosincrasie.

Ma anche qui, lo sapevamo già. La novità dello studio è che “fornisce un possibile punto di partenza per un dibattito sulla regolazione degli Hft”. Il tema è provare a fermare Skynet prima che provochi il disastro. Dal mito di Terminator a quello della regolazione che previene i disastri il passo, a ben vedere, non è poi così lungo.

 

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L’alba di Skynet sui mercati finanziari: l’uomo (economico) dietro (e dentro) il computer

Giunti a questo punto mi faccio una semplice domanda: chi manovra le macchine che ormai giocano un ruolo così importante nel definire la salute dei nostri mercati finanziari?

La risposta più ovvia è: le persone.

Già, ma che persone? E soprattutto, come lavorano queste persone? Quali sono i principi che mettono alla base del loro operare?

La domanda, come vedete, ne nasconde tante altre le cui risposte finiscono col delineare una fisionomia che, essendo praticamente dominante sui mercati, può dirci molto sull’esito di questa inusitata rivoluzione nella quale la matematica ha di fatto surclassato la teoria economica. Chi pensa che i trader si basino sulla macro o micro economia per le loro scelte è legato a una visione tradizionale ormai in via di superamento.

Decido perciò di conoscere meglio queste persone, usando il metodo che ormai usiamo tutti quando vogliamo conoscere meglio qualcosa (e questo già dovrebbe farci pensare): la rete.

Girovago un po’ a caso e mi imbatto in una testimonianza che inizia a darmi alcuni indizi. Si tratta di una giovane con cinque anni di esperienza alla Getco, una delle tante compagnie di HFT che adesso ha cambiato nome, sulla quale non mi dilungo perché somiglia ai vari Terminator che abbiamo già conosciuto.

Più interessante leggere cosa scrive la nostra testimone. Racconta di essere stata reclutata dal MIT e di essersi trovata immersa in un ambiente di poche persone, ma enormemente soddisfacente, dove le difficoltà intellettuali erano compensate dalla soddisfazione nel risolverle. Dove c’era “molta matematica, teoria dei giochi, economia, tecnologia, scienza del computer e ingegneria”. La tecnologia usata è “cutting edge”, che potremmo tradurre come estrema o di avanguardia. L’HFT viene considerato come il driver di molti progressi tecnologici, fonte e utilizzatore di grandi quantità di dati”.

Il lavoro, spiega, somiglia a quello che fa Google Search: “Trovare segnali utili a prevedere ciò che altri users (non persone, ndr) stanno cercando è simile a cercare segnali per prevedere dove vadano i mercati”. Quindi il trader analizza segnali, non quantità economiche strictu sensu, un po’ come facevano gli uomini radar negli anni ’50, ai tempi della guerra fredda. Ed è fortemente influenzato dal comportamento altrui, cercando con l’analisi di prevederlo e quindi anticiparlo. Un comportamento tipico della teoria dei giochi, che, non a caso, è la seconda risorsa in ordine di importanza fra quelle citate dopo la matematica e prima dell’economia.

Sarebbe fuori luogo qui approfondire la teoria dei giochi. Ricordo solo che fu sviluppata sempre negli anni ’50, in piena guerra fredda, al fine di prevedere e anticipare il comportamento di un qualunque avversario, nella fattispecie erano i russi, basandosi su un semplice gioco mentale: ossia che i giocatori siano egualmente spietati e motivati nel raggiungere la vittoria e quindi disposti a qualunque calcolo e comportamento capace di soddisfare il presupposto della razionalità: la massimizzazione del profitto. Ossia la vittoria al gioco.

L’eco dell’uomo economico ottocentesco risuona forte, in questa teoria. E trova conferma in quel che racconta la nostra testimone: “E’ tutta una questione di risultati”. Non importa come ti comporti, né se segui il galateo aziendale. Nessuno ti dice ciò che devi fare purché rispondi all’obiettivo: make money trading. Se le tue idee funzionano fai soldi. Se non fai soldi non importa il tuo grado di seniority, né tutto il resto”. Con la sottolineatura che “l’HFT dà a tutti le stesse opportunità di diventare un top trader”. Sempre che tu sia un genio della matematica, della teoria dei giochi, eccetera.

Ed ecco un altro affastellato del nostro uomo economico contemporaneo: la capacità di far soldi diventa l’unico metro di misura della tua efficienza e quindi un derivato del tuo merito. Il mito della meritocrazia rivive nell’empireo del cloud, esattamente come l’uomo economico che lo sostiene.

Il trading, poi, “è una sfida costante” assai stimolante per le personalità che, come la nostra testimone, tendono ad “annoiarsi facilmente” e che amano essere “quantitativi e tecnici”. I quants, come li ha soprannominati un celebre libro di qualche tempo fa, amano anche distinguersi dagli altri traders, sentendosi come “una banda a parte” che fa parte di un’industria “cut-throat”, che mi piace tradurre con tagliagola, anche se risulta un po’ estremo, perché ha a che fare con “grandi quantità di denaro, la cultura del segreto e la competizione”. In pratica che amano partecipare alla grande guerra che si combatte per il conquistare il denaro.

La nostra testimone spiega che l’HFT ha una brutta reputazione sui media perché “le notizie sono finanziariamente incentivate a disinformare, generare controversie e provocare”. Ne deduco che, sicuramente a ragione, abbia una pessima opinione dell’informazione e fatico a darle torto. Ma pure che i trader algoritmici vivano con sofferenza l’essere considerati con nefandezza dall’opinione pubblica, che però perdonano in quanto vittima della loro ignoranza. Mi risultano alquanto aristocratici. Consapevoli però che “quando inizi a lavorare in finanza devi imparare a non curarti troppo di quello che pensa la gente”.

Ma la domanda migliore è questa: “Perché si dovrebbe persistere a costringere un uomo a fare ciò che gli esseri umani non sono i migliori a fare, cioè calcoli veloci e complessi, aggregare e analizzare terabyte di dati, presentare ed elaborare numerosi feed di dati contemporaneamente?”

Già, perché? L’incarnazione dell’uomo economico in una macchina che esalta la sua capacità di calcolo potenziandola infinitamente mi sembra l’esito ovvio di questa tecnologia.

Fra i vari commenti che leggo all’articolo ne trovo di entusiastici (“L’HFT è la cosa migliore che mi sia capitata”) che fra le varie ragioni di questo entusiasmo adducono la circostanza che sia “tutto scientifico” e che “le sfide in questo gioco siano immense” o che “il professional quant tranding è una stupefacente combinazione di matematica, psicologia, teoria dei giochi, teoria dell’informazione, delle probabilità, dell’entropia, vita, gioco d’azzardo, epistemologia e tecnologia”. Di economia non fa menzione nessuno. L’uomo economico contemporaneo, che vive dietro e dentro un computer, non sente di averne più bisogno e se la lascia alle spalle come fa un bimbo diventato grande, che misura la sua efficienza in termini di risposte al nanosecondo.

Una vita stressante, senza dubbio. Esplorando forum e commenti leggo di persone che lavorano fino a 18 ore al giorno, consapevoli di quanto sia dura. L’HFT “richiede ogni oncia della mia attenzione”, scrive un tale. Leggo anche di una compagnia che offre 136 mila dollari l’anno per un analista quantitivo, e poi, ormai immerso nella corrente delle chiacchiere, mi trovo quasi a invidiarli, questi super cervelloni che fanno soldi non per la passione dei soldi, ma della matematica che ci sta dietro, ossia del pensiero astratto. Alcuni dicono che lavorare per l’HFT “è gratificante dal punto di vista morale” e se molti non lo capiscono è solo perché “non trovano intuitivo il concetto di trasferimento del rischio”.

Altri, meno entusiasti, scrivono, dopo aver lavorato per anni nell’HFT di averlo odiato. “Praticamente ho fatto da baby sitter a un computer”, osservano. Ed è proprio questa immagine che mi lascia la seduzione più grande. Stiamo allevando computer, tenuti a bada da persone, uomini economici inconsapevoli, che si sforzano di diventare come loro, mentre maneggiano algoritmi scritti in logica di guerra.

Sta davvero sorgendo l’alba di Skynet sui mercati finanziari.

E non solo. Leggo un commento che mi apre un’altra finestra. Un tale consiglia ai trader HFT di abbandonare la finanza e usare i loro molti talenti per aprire una compagnia specializzata in diagnosi precoci. Gli algoritmi predittivi possono diventare una miniera d’oro in un mondo ossessionato dalla paura della morte. In fondo non c’è nessuna differenza ormai fra la durata di una vita e quella di un’obbligazione.

Almeno non ce n’è per l’uomo economico dietro al computer.

(4/fine)

Puntate precedenti: I, II, III

L’alba di Skynet sui mercati finanziari: i nuovi Terminator

Dunque ormai è assodato che alcune entità, che lavorano col trading algoritmico ad alta velocità, si sono ritagliate un ruolo più che rilevante nel mercato dei titoli di stato americani. Questi soggetti sono capaci di determinare eventi potenzialmente traumatici, come dimostra l’accaduto dell’ottobre 2014, e ciò malgrado sono ancora poco conosciuti e ancor meno si sa delle loro strategie e delle tecnologie che utilizzano, sulle quali vige uno strettissimo riserbo.

Questi nuovi Terminator agiscono all’ombra di una regolazione che si è dimostrata finora incapace di contenerne gli esiti, mentre il grande pubblico ne ignora sostanzialmente la loro esistenza.

Eppure le loro tracce sono numerose, anche se finora confinate nell’informazione di settore. Qualche tempo fa il sito Risk.net ha pubblicato una lista confidenziale delle prime 10 top company che lavorano con questi metodi sul mercato dei titoli Usa, prendendo spunto dai dati raccolti su alcune piattaforme elettroniche fra maggio e giugno del 2015 e che si ritiene svolgano fra il 65 e il 70% del volume delle transazione sull’interdealer market.

Ne è venuto fuori che le prime tre società, Jump Trading, Citadel e Teza Technologies, abbiano generato volumi di transazioni per 2,4 trilioni di dollari nel periodo. Altresì che otto di queste entità non sono banche. JP Morgan, che pure sta nella lista di queste entità, è solo al quinto posto.

Fra queste non banche si segnalano KCG, Spire-X, XR Trading, DRW e Rigel Cove. Nel rapporto viene notato come questa attività di trading, oltre che rilevante, sia anche notevolmente concentrata.

Inevitabile chiedersi perciò chi siano, questi soggetti che, piaccia o no, stanno conformando i mercati finanziari.

Comincio la mia ricerca partendo da Jump Trading, che dai dati diffusi da Risk.net ha sviluppato il 28% delle transazioni del campione analizzato. On line trovo il sito, ma tutto ciò che esibisce è una pagina di un gradevole grigio perla, con indicate le sedi ove opera, un link per le posizioni aperte e un paio di mail per i contatti. Zero informazioni sulla compagnia, la proprietà, la storia. Scopro che fino a un anno fa queste informazioni erano pubblicate. Ma poi in un soprassalto di pudore i padroni di Jump devono aver deciso di farle sparire. Devo contentarmi perciò di esplorare ciò che le cronache riportano.

In alcune trovo conferma della sensazione che coltivo dall’inizio di questa storia: questi soggetti non amano la pubblicità. Ma trovo anche qualche informazione. La Jump è stata fondata a Chicago 15 anni fa e ormai conta 400 dipendenti. I fondatori sono due trader, Bill Di Somma e Paul Gurinas. I suoi ricavi annuali hanno superato i 500 milioni di dollari nel 2010, con un profitto netto di 268 milioni. Del resto si sa molto poco.  Si sa che la compagnia ha assunto una pletora di scienziati, matematici e programmatori per costruire i propri algoritmi, e che si è anche dotata di una torre di trasmissione dati in Belgio, una volta usata dalla Nato, per spuntare qualche nanosecondo di vantaggio sui concorrenti, che in larga parte si limitano ad affittarle.

La Jump è un po’ il prototipo di queste compagnie, nate su iniziativa di alcuni trader, o direttamente di scienziati. Il CEO della Teza, la numero tre della nostra lista che per fortuna è un po’ più loquace della Jump, si chiama Misha Malyshev, dottore in Astrofisica nel 1998 a Princeton con specializzazioni in fisica teoretica dopo aver conseguito la laurea in matematica e fisica a Mosca. Quindi ha lavorato per la Bell, transitato per la McKinsey, con la quale ha imparato l’arte e l’amore per il business, e quindi si è messo in proprio, nel 2009. Prima però si è fatto le ossa col gruppo Citadel, il numero due della nostra lista, lavorando nel gruppo delle analisi quantitative. Da lì è divenuto rapidamente capo dell’unità che si occupa di High frequency trading, dove è rimasto fino al 2009. Come anche i fondatori della Jump, la Teza e il suo padrone sono molto attivi nella filantropia. Il che denota un chiaro animo gentile e una evidenza convenienza fiscale. Purtroppo il sito non riporta bilanci o altro.

Decido di concedermi l’ultima ricognizione e scelgo la Spire X, che ha un nome che fa molto Skynet. E che risulta altrettanto evanescente. Ne trovo tracce molto scarne nei recessi della rete, dalle quali deduco che è una compagnia giovanissima, che impiega pochissime persone. E tuttavia, nella nostra breve classifica per volume di trading generato sta appena sotto JP Morgan e sopra Barclays.

Cosa hanno in comune queste entità? La prima cosa che salta all’occhio è che sono tutte proprietary firm, ossia aziende create da persone fisiche e tuttora di loro proprietà. Poi che reclutano scienziati per far girare le loro macchine, che fanno trading basandoli su algoritmi quantitativi. Per queste compagnie, insomma, le vecchie categorie dell’economia non hanno sostanzialmente senso: quello che importa sono le quantità pure. Infine, queste compagnie sono nate e si sono sviluppate nell’ultimo decennio e ormai surclassano le vecchie banche, che in confronto sembrano dinosauri. E come il famoso meteorite ha fatto con i dinosauri, i trader automatici adesso minacciano di terminarle.

Il problema è che rischiano di non essere le sole.

(3/segue)

Le altre puntate: I, II, IV

 

 

L’alba di Skynet sui mercati finanziari

Nei sotterranei della finanza, dove l’occhio non vede e quindi il cuore non duole, si sta consumando una rivoluzione silenziosa nella quale vecchi protagonisti, ormai divenuti riluttanti, cedono la supremazia a giovani rampanti, come sempre è successo in tutti i grandi cambiamenti.

Tale rivoluzione, purtroppo ancora poco osservata, viene condotta da un organismo chimerico, un ircocervo, nato dal matrimonio ormai antico eppure anch’esso poco osservato, fra la fisica e la finanza officiato dalla matematica tramite il suo strumento applicato, ossia l’informatica. La rivoluzione della finanza del sottosuolo, perciò, è innanzitutto una rivoluzione tecnologica e scientifica. Perciò sostanzialmente sociale. Gli esiti sono già visibili in alcuni episodi raccontati dalle cronache, ma non arrivano a conformare la società. Per ora.

Ciò che si vede, ma che poco si conosce, è la sua risultante: l’automazione del trading, ossia degli scambi finanziari guidati da algoritmi, che ha generato per partenogenesi una pletora di compagnie di HFT (High frequency trading) che piano piano stanno sostituendo le vecchie banche, che nei mercati svolgevano il ruolo di arbitri e garanti delle contrattazioni, con un modello di business che prevede poco capitale e molta tecnologia, in perfetta coerenza con l’esito immaginifico della nostra economia.

Qualcuno sorriderà, pensando che questa intemerata apocalittica sia un sollevar polvere per celare i dilemmi sostanziali della nostra economia, quelli che misuriamo con i deficit e i surplus, con l’accumularsi degli squilibri e il declinare dei prezzi. Cose reali, insomma. Ma il mio timore è che costoro pecchino di ottimismo. L’influenza del ciclo finanziario su quello economico, infatti, ormai è cosa fin troppo evidente per esser sottaciuta. E una volta che si osservi l’incredibile sviluppo dei sistemi automatici di trading e il loro effetto sui cicli finanziari, sarebbe poco saggio non fermarsi un attimo a riflettere e porsi una semplice domanda: ma questi sistemi di calcolo che ipotesi sussumono? O, detto in termini più chiari: come funzionano?

Prima di rispondere è opportuno mettere in rilevo gli effetti che tali diavolerie possono avere sulla stabilità finanziaria. E il fatto stesso che il Fmi abbia giudicato opportuno dedicarvi un box del suo ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria (“Electronic Trading and Market Liquidity”) lascia dedurre che l’abbiano, e pure rilevante.

“Negli ultimi decenni – scrive il Fmi – le piattaforme di trading elettroniche sono state introdotte in un’ampica varietà di mercati”. Per osservare l’impatto che tali pratiche possono avere sulla stabilità, il Fmi ha preso ad esempio il mercato dei derivati OTC (over-the counter), ossia uno dei più ampi al mondo per valori nozionali, e ne ha tratto la conclusione che “l’introduzione delle piattaforme elettroniche ha generalmente condotto a benefici alla liquidità dei mercati”. E tuttavia, “recenti episodi che hanno interessato la liquidità hanno anche indicato le potenziali vulnerabilità che possono essere condotte dal trading elettronico, specialmente con l’high frequency trading”. Una considerazione accuratamente bipartisan dalla quale deduco che queste piattaforme aiutano quando tutto va bene e distruggono quando tutto va male, come l’energia nucleare. Sono, direbbero gli economisti, procicliche.

Quindi abbiamo da un lato lo sviluppo di piattaforme elettriche di trading, ormai disponibili anche per il mercato retail, come quella che usano i privati cittadini quando giocano al casinò della borsa. Abbiamo, vale a dire, un’infrastruttura telematica ormai evolutissima. E poi abbiamo delle pratiche, fra le quali l’HFT, che riguardano solo alcuni operatori specializzati. Per capire la differenza è sufficiente notare come una piattaforma di HFT abbia come unità di misura il nanosecondo, ossia il milionesimo di secondo, per valutare l’arco di tempo delle sue transazioni, che vengono condotte nell’ordine delle migliaia al secondo.

Ma allora in cosa sta il vantaggio? “Il trading elettronico può grandemente favorire l’incontro fra il venditore e il compratore”, pure se “d’altra parte le nuove strategie adottate da queste piattaforme possono causare distruzione della liquidità di mercato in risposta a shock”. Il motivo dovrebbe essere chiaro: un uomo pensa, prima di farsi prendere dal panico e vendere. Una macchina vende senza patire alcun sentimento. E’ più efficiente appunto. Il che com’è ovvio fa la gioia dei profeti dell’efficienza.

Gli studi sull’impatto del trading elettronico sono purtroppo ancora scarsi, nota il Fmi, ma in generale sono concordi sui benefici. L’elettrificazione dei mercati a reddito fisso, quindi quelli obbligazionari, ha facilitato l’incontro fra venditori e compratori, ossia la liquidità delle obbligazioni, comprese quello più sottili, come si chiamano in gergo le obbligazioni che non esprimono grandi volumi di trading e quindi sono per natura poco liquide.

Per le obbligazioni trattate in origine nei mercati OTC, quindi non regolamentati, la migrazione all’elettronico “può condurre a un boost nei volumi di trading e della liquidità di mercato”, nota il Fmi, ricordando come negli Usa la migrazione di alcuni derivati OTC su piattaforma elettronica è iniziata nell’ottobre 2013, con la decisione della Commodity Futures Trading Commission (CFTC) di autorizzare il primo Swap Execution Facility (SEF), ossia rendere disponibile su piattaforma telematica un sistema che consente agli operatori di contrattare Swap in maniera aperta e trasparente. Trasparenza, velocità, efficienza: come non convincersi che sia la strada giusta?

Infatti gli Usa si sono talmente convinti che da febbraio 2014 hanno deciso di obbligare gli operatori a utilizzare SEF per eseguire gli scambi su tutti i contratti “disponibili per lo scambio”. Insomma: il carico di lavoro per questi sistemi è aumentato significativamente. “La prima ondata si è focalizzata su alcune tipologie di contratti altamente standardizzati che coinvolgono le controparti centrali, come alcuni Interest rate swap o gli index-based credit default swap”.

Una volta che l’esperienza di queste pratiche si consoliderà, spiega il Fmi, “potranno essere tratte importanti lezioni dalla grande elettrificazione e standardizzazione dei mercati dei corporate bond”.

Al tempo stesso però,  nota il Fondo, “le piattaforme elettroniche possono facilitare la crescita di aziende di HFT, con potenziali impatti negativi sulla liquidità”. Queste aziende, infatti, vengono sospettate di essere all’origine dell’episodio dell’ottobre 2014, quando ci un un rally nelle quotazioni dei Treasury americani. “Eventi come questi – nota il Fmi – come anche il flash crash del 2010, quando vennero giù le borse e il mercato dei futures, mostrano come la liquidità può evaporare molto rapidamente e come la mancanza di liquidità può amplificare gli shock”.

Quindi queste entità possono favorire episodi di volatilità sui mercati finanziari, proprio in virtù della potenza operativa di cui dispongono, aggravando trend negativi così come esasperano quelli positivi.

Non finisce qui. “La struttura del mercato dei Treasury Usa  – sottolinea ancora – ha sperimentato significativi cambiamenti nell’ultimo decennio”. In particolare si è registrato il declino del ruolo delle banche e un aumento di importanza proprio delle compagnie di HFT. “Sono cambiati i canali di origine della liquidità”, spiega ancora. “Le banche probabilmente ora hanno meno spazio di bilancio dedicato alle strategie di market-making”. Quindi hanno lasciato spazio alle imprese HFT che “operano tipicamente con capitale molto basso”. Ne consegue che in tempi normali, la liquidità è ampia, ma quando si verifica uno shock, il mercato è più vulnerabile perché “il mercato tradizionale e i nuovi soggetti responsabili non sono in grado o non vogliono fornire liquidità”.

Insomma, c’è molta più efficienza, anche quando ci si fa male.

L’esempio dell’ottobre 2014 è assai eloquente.

Il 15 ottobre il mercato dei Treasury visse uno degli episodi di volatilità più ampi degli ultimi 25 anni. Un dato giudicato negativo delle vendite al dettaglio spinse gli hedge fund a riposizionarsi scommettendo su un ritardo nel rialzo dei tassi della Fed (capite bene perché se ne parli così tanto). Ciò condusse  a una crescita graduale dei prezzi che spinse i market-maker tradizionali a ridurre la liquidità, semplicemente sfilandosi dal mercato.

Ne conseguì che fra le 8.50 e le 9.33 A.M. il book di negoziazione si assottigliò drammaticamente. Nello stesso arco di tempo si scatenarono le armate algoritmiche. Si registrò un’impennata delle attività di HFT. Nell’arco di 12 minuti la liquidità evaporò e pochissime negoziazioni, ma molto ampie, generarono un flash-event, ossia un picco. Il picco spinse le compagnie di HFT a un trading molto aggressivo per ridurre i rischi a cui si erano esposte, ma poiché la liquidità era evaporata i prezzi divennero estremamente volatili, conducendo ad ulteriore trade di copertura, veloci e microistantanei. Come infiniti robot gli algoritmi massimizzavano i profitti sconvolgendo il mercato dei titoli di stato americani, che per loro (ma non per noi) erano semplici numeri di codice.

Più tardi un rapporto congiunto delle autorità americane sottolineò la predominanza delle armate HFT su quelle umane. Mentre i vecchi broker-dealers si ritiravano dal campo, le armate automatiche avanzavano veloci e compatte.

Risultò che nel flash-event la quota di trading svolta dagli HFT abbia raggiunto l’80% del totale, a fronte di una media del 50%. E che gli HFT avessero comprato aggressivamente durante la salita dei prezzi e venduto furiosamente durante il crollo.

Non è un film dell’orrore.

E’ solo l’alba di Skynet sui mercati finanziari.

(1/segue)

Seconda puntata  Terza puntata Quarta e ultima puntata

La Bce celebra il divorzio fra banche e stati

Ma quant’è grigio e miserabile il nostro tempo, se un evento storico come il divorzio fra le banche e i loro stati finisce nelle brevi di economia e viene declinato in un astruso comunicato della Banca centrale europea senza neanche la fatica di un atto normativo? Almeno il divorzio fra banche centrali e stati europei ha avuto un briciolo di dignità storica. Di questo invece non rimarrà nessuna traccia.

Ma quanto siamo diventati piccoli se neanche capiamo quello che di grande succede e lo confiniamo nella piatta prospettiva del presente?

Mi faccio queste domande inutili e anche vagamente depressive mentre leggo i giornali e tutto quello che riesco a trovare sul web sulla questione della prima release dell’asset quality review pubblicata lunedì 3 febbraio dalla Bce, dopo che l’Eba aveva spianato il terreno la settimana prima. E l’unica cose che hanno in comune, queste cronache copiaeincolla, è un malcelato senso di scampato pericolo che potremmo sintetizzare più o meno così: gli stress test saranno una cosa seria, e verranno stressati anche i bond sovrani, come peraltro era stato ampiamente annunciato. Qualche piccola banca nostrana avrà dei problemi, magari ci sarà qualche fusione o una ricapitalizzazione, ma i grandi campioni nazionali possono stare tranquilli. Il sistema bancario nazionale, insomma, è salvo. E giù sospiri di sollievo.

Poi vedremo se è così. Ma intanto mi chiedo, spero non da solo: possibile che nessuno si interroghi su quello che faranno le banche dal 2015 in poi?

Mi spiego meglio. Come abbiamo visto, l’AQR si svolgerà sui bilanci bancari europei chiusi al 31 dicembre 2013. Su di essi si faranno gli esercizi immaginati dagli stress test i cui risultati saranno pubblicati a fine ottobre 2014. Potete immaginare da soli con quanti patemi d’animo la finanza bancaria europea aspetterà che cadano le foglie quest’anno.

Poi magari non succederà chissà che. Già si brinda allo scampato pericolo. Ma non è questo il punto. Fatevi una semplice domanda: se voi foste Banca Intesa o Unicredit, comprereste ancora bond sovrani italiani dopo aver scampato gli stress test, ben sapendo che sono solo il prologo della supervisione bancaria vera e proprio che andrà in scena nel 2015?

Se si arriverà, come ormai sembra assai probabile, a quotare il rischio dei bond sovrani (come peraltro sembra preludere lo stress test), nessuna banca avrà più interesse a detenere bond nostrani. Dovrebbe accantonare nuovo capitale. E pure se, grazie alla generosità del governo, i campioni nazionali hanno potuto incassare una ricca plusvalenza da Bankitalia, che di sicuro compenserà gli eventuali deficit di capitalizzazione che dovessero trovarsi con gli stress test, ciò non vuol dire che potranno continuare a largheggiare comprando a go go titoli di stato. Sarebbero perfetti incoscienti in un mondo dove vigilano l’occhiuta Bce e agisce la temibile market discipline.

Questo spiega bene perché parlo di divorzio fra banche e stati dove risiedono, specie se Piigs. Ma tutti sono talmente preoccupati di eventuali ricapitalizzazioni delle banche che neanche ci pensano. Tantomeno ci pensa il governo, che magari crede di incoraggiare altri investitori a comprare il nostro debito pubblico. Gli arabi, magari: i famosi 500 milioni appena spuntati agli Emirati dal primo ministro italiano. O i cinesi. Le banche italiane sicuramente no: si metteranno a dieta.

Questo nella migliore delle ipotesi.

Nella peggiore, l’autunno del 2014 potrebbe riservare un brutto regalo alle banche italiane. Potrebbero essere chiamate a raggranellare qualche miliardo per raggiungere i livelli di capitale richiesto dalla Bce. Vediamo perché.

La Bce ha fissato un livello del CET1 (Common equity tier 1) all’8% che può arrivare al 5,5% nel caso di scenario avverso degli stress test. Fra gli asset potranno essere ricompresi “gli strumenti patrimoniali aggiuntivi che obbligatoriamente si convertono in CET1, purché il coefficiente di attivazione della conversione sia pari o superiore al 5,5%. Saranno ammissibili soltanto strumenti con clausole contrattuali incondizionate in relazione a tale conversione”. In pratica potranno servire a integrare il CET1 anche eventuali obbligazioni subordinate convertibili.

Dulcis in fundo, ecco le regole che si applicheranno ai bond sovrani: “Le esposizioni al debito sovrano nei portafogli detenuti fino a scadenza saranno trattate alla stregua di altre esposizioni creditizie incluse nel medesimo portafoglio, ossia si calcolerà l’impatto degli scenari sui parametri di perdita e insolvenza, che darà luogo a un aumento degli accantonamenti. Nel contempo, le stesse tipologie di titoli nei portafogli disponibili per la vendita e detenuti a fini di negoziazione saranno valutate ai prezzi di mercato, in linea con lo scenario considerato”.

Traduco. Abbiamo già incontrato, guardacaso parlando del caso Bankitalia, le regole di classificazione che valgono per AfS, ossia attività detenute fino a scadenza, e HtF, attività detenute per negoziazione, quindi non mi ripeto. Ricordo solo che le prime, per decisione di Bankitalia, sono escluse dal capitale di vigilanza, sul quale si esercita l’AQR della Bce, al contrario degli attivi HfT che compongono tale capitale.

Con la decisione della Bce adesso sappiamo che i bond sovrani classificati fra gli AfS verranno trattati come un qualunque altro asset. Ergo, si richiederà per loro un accantonamento di capitale. Ciò vuol dire sostanzialmente che l’obbligazione di uno stato sovrano, per la Bce, ai fini dello stress test ha lo stesso peso di una qualunque obbligazione privata: anche per gli stati vale il rischio di controparte. Quindi possono fallire.

La vulgata dice, ma lo vedremo solo quando la Bce renderà noto il risultato dei test, che le banche italiane tengono gran parte dei loro titoli di Stato nel comparto AfS.

Quanto ai bond sovrani classificati fra gli attivi HtF, essi verranno valutati al mark to market. Un improssivo aumento dei tassi d’interesse, drammaticamente probabile in periodo di tapering, provocherebbe quindi robuste perdite in conto capitale che potrebbero essere scontate al momento in cui verrà pubblicato l’esito degli stress test. In questo caso si metterebbe all’opera la market discipline. Se gli onnipotenti mercati sapessero che una certa banca è gonfia di attivi sovrani, che ai tassi del momento implicano una perdita mark to market, si può facilmente immaginare come reagirebbero.

Insomma, malgrado i buoni auspici del governatore Visco, che anche di recente ha dichiarato di non essere particolarmente preoccupato per le banche italiane, la verità è che nessuno ha la palla di vetro. E anche le protezioni messe in campo dal sistema nel suo complesso per difendere le nostre banche (dalle quote di Bankitalia alle norme di vigilanza che consentono di sterilizzare gli effetti delle minusvalenze sugli AfS) non è detto che funzionino.

Una cosa è certa però: dal 2015 le banche ci pensaranno due volte prima di comprare il “famigerato” debito italiano.

Per allora il divorzio sarà consumato.