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L’eurotartaruga avanza decisa verso l’unione finanziaria

Poiché ho la massima considerazione per la sapienza contenuta nei proverbi, mi torna in mente il vecchio adagio che ricorda quanto vada lontano chi va piano, mentre leggo l’intervento di Yves Mersch, componente lussemburghese del board della Bce dall’esemplare titolo “Advancing monetary union” del 25 gennaio.

Provenendo dall’ex governatore della banca centrale del Lussemburgo, paese che sulla finanza e le agevolazioni fiscali ha costruito la sua fortuna, queste riflessioni mi risultano assai utili per apprezzare lo stato d’animo dei nostri banchieri centrali e segnatamente dei loro obiettivi per l’anno da poco iniziato. E scopro così che, con la lentezza implacabile della tartaruga, l’eurozona si sta muovendo decisamente lungo il percorso che già nei mesi scorsi è stato con chiarezza delineato da diverse autorità europee: l’unione del mercato dei capitali: il terzo passo dell’area euro.

Ai meno amanti della astruserie risulterà sofistica la distinzione fra mercato monetario e mercato finanziario, ma in realtà parliamo di due mondi che, pur appartendendo allo stesso universo, hanno logiche e dinamiche affatto differenti. La moneta nomina il prodotto finanziario, ma certo non lo esaurisce. E nell’eurozona abbiamo la moneta unica, mentre i mercati finanziari, a differenza di quelli delle merci, sono ancora tanti quanti sono gli stati dell’area.

Un esempio, preso a prestito dall’allocuzione di Mersch, aiuterà a capire. Mettiamo che un imprenditore tedesco voglia emettere un bond in Olanda. Nel suo prospetto deve specificare se il suo titolo di debito, comunque denominato in euro, sia emesso sotto la legislazione tedesca o quella olandese. Al contrario, in un mercato integrato dei capitali un imprenditore tedesco può emettere bond in Olanda senza specificare alcunché, visto che il diritto soggiacente all’obbligazione è comune in tutta l’eurozona. “Dopotutto i paesi dell’euro condividono la stessa moneta”, commenta Mersch. Unificare le regole finanziarie, quindi, rappresenterebbe una enorme semplificazione.

Ma non è solo la semplicità d’uso – ricorderete che si disse anche dell’euro – lo scopo di questa ennesima integrazione. A monte ci sta il fatto, e noi eurodotati dovremmo ormai averlo imparato, che le regole sussumono una politica economica.

Il nodo saliente del ragionamento di Mersh, infatti, è che un mercato finanziario integrato favorirebbe, nel tempo, un graduale spostamento dell’erogazione di credito dalle banche al mercato dei capitali, sul modello americano. Il che, oltre ad aumentare l’efficienza marginale del capitale e la sua allocazione, consentirebbe anche una migliore distribuzione del rischio.

Per dimensionare il problema, Mersch ricorda che l’economia europea è caratterizzata da piccole e medie imprese (SMEs) che generano il 60% del valore aggiunto dell’area. Queste aziende vivono in gran parte grazie al credito bancario delle loro banche domestiche. Con la conseguenza che in caso di stress bancario, come peraltro è accaduto di recente, anche le imprese ne risentiranno. Cosa che non accadrebbe se le imprese fossero in grado di procacciarsi il credito sul mercato dei capitali, oltre che dalle banche.

Il punto d’arrivo, o quantomeno di confronto, è quello degli Stati Uniti. Qui l’80% circa dei crediti concessi alle aziende arrivano dal mercato dei capitali, a fronte di un 20-50% nell’eurozona, Ciò rende le aziende Usa più resilienti alle crisi bancarie, che poi è quello che vorrebbero anche i nostri banchieri centrali, non paghi evidentemente di aver realizzato l’Unione bancaria.

Ora uno può pensare che questa esigenza sia figlia dell’esperienza fatta con la crisi, ma sbaglierebbe. La necessità di integrare l’infrastruttura e le regole della finanza viene da lontano. Ancor prima che entrasse in vigore l’euro, quindi nel 2001, un gruppo di lavoro, il Giovannini group, dal nome del leader degli studiosi, aveva elaborato un “Report on EU Clearing and Settlement Arrangements”, che vide una seconda stesura nel 2003.

Oggi Mersch ci fa sapere (ma in realtà ne avevamo già avuto avvisaglie) che la Commissione europea “presenterà a breve una prima proposta su come una unione del mercato dei capitali possa essere delineata in pratica”.

Il testo ancora non è noto, quindi per averne un’idea dobbiamo contentarci di leggere quelle di Mersch, per capire almeno come a lui piacerebbe che tale unione si realizzasse.

“Per me unione dei mercato dei capitali significa più che modificare la semplice regolazione. Implica ragionare sulle regole per le aziende, sulla supervisione dell’infrastruttura finanziaria, il diritto fallimentare e l’armonizzazione fiscale sui capital gain”. Un notevole passo in avanti, quindi, sul modello di quanto si è fatto con il SEPA, il single euro payment area, che adesso si vuol fare evolvere nel medio termine in modo, per esempio, che non si paghino più commissione per l’uso cross border delle carte di credito.

Anche qui, si parte dalle origini, ossia dal Trattato di Roma che piantò le radici dell’attuale Ue e che prevedeva, sia pure in forma basica, il libero movimento dei capitali nell’area europea, a testimonianza del fatto che la nostra tartaruga, oltre a muoversi con proverbiale lentezza, è dotata anche della memoria di un elefante.

Mi sorprendo a pensare che questa strana chimera, metà tartaruga e metà elefante, è la migliore rappresentazione dell’eurozona che ho immaginato sinora.

I vantaggi esemplificati da Marsch che deriverebbero da questa ennesima unificazione sono diversi e non voglio annoiarvi con i dettagli tecnici. Ciò che qui mi preme ancora sottolineare e che comunque, a integrazione effettuata, bisognerà anche pensare a un meccanismo armonizzato di gestione delle crisi dei mercati finanziari, sul modello insomma di quanto fatto per le banche.

“Un meccanismo singolo di risoluzione per le non-banche, come le controparti centrali o le central security depositories (CDS), è uno strumento fondamentale di un mercato unico dei capitali”, sottolinea, visto che queste entità sono ancora regolate dalle autorità nazionali. E l’esperienza del SRM della banking Union dovrebbe bastarci a capire dove si vuole andare a parare.

Provo comunque a farvela semplice. La nostra tartaruga-elefante ha unificato il mercato delle merci, poi la moneta, ora pensa a fare la stessa cosa con i suoi derivati, nel senso di strumenti finanziari. Al termine di questo processo avremo un significativo sviluppo delle entità sovranazionali, chiamate a supportare numerosi processi economici e, di conseguenza, politici.

Fatta l’Europa economica si faranno gli europei.

E anche questo mi pare si dicesse negli anni ’50.

 

 

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Cura irlandese (e cartolarizzazioni) per l’eurozona

Sarà perché l’Eurostat rilasciava i dati 2013 della produzione industriale, ma improvvisamente la lettura di un recente intervento di Yves Mersch, banchiere della Bce, nella quale mi stavo intrattenendo è diventata interessante. L’andamento declinante della nostra contabilità europea rimava perfettamente con ciò di cui discorreva Mersch a Dublino qualche settimana fa. Tema quantomai attuale: far ripartire la crescita nell’eurozona (Reviving growth in the euro area, Institute of International European Affairs, Dublin, 7 February 2014).

Lo so che ne parlano tutti, per non dire che ne parlano e basta. Ma la questione, anzi il coacervo di questioni che la crescita porta con sé, dovrà pur essere affrontata, prima o poi. E leggere Mersch risulta utile perché aiuta a capire le coordinate del problema, a dimensionarlo e a sapere cosa frulla nella testa dei nostri banchieri centrali che, in ultima analisi, piaccia o meno, sono diventati gli autentici timonieri dell’eurozona.

La domanda dunque è: come possiamo far ripartire una crescita sostenibile nella zona euro? La prima risposta è che “possiamo aspettarci solo una risposta limitata dalle politiche di stimolo della domanda”. Quindi i teorici della spesa pompata da debito faranno bene a disilludersi.”La politica monetaria rimarrà accomodativa per tutto il tempo necessario, ma non può risolvere i problemi: può solo comprare tempo”.

Il tempo è denaro, notoriamente, e per sua natura la Banca centrale ne fornisce in quantità illimitata.

Nel frattempo ci sono alcune cose che dovremmo sapere. Primo: la crescita pompata dal debito (debt-fuelled) degli anni pre-crisi non sarà più possibile: “Non ci possiamo aspettare di vedere un ritorno alla crescita di domanda aggregata del passato”, dice. Questo comporta che dobbiamo “guardare alla capacità produttiva potenziale dell’economia nel suo complesso”.

Vista deprimente, comunque, perché “la situazione non è incoraggiante”, dato che nelle stime della Commissione Ue tale crescita potenziale è passato dal 2,2% del periodo 2000-2007 a un miserello +0,9% nel quinquennio 2008-12.

A guidare la contrazione, spiega Mersch, è stata innanzitutto quella degli investimenti, la cui quota globale è diminuita del 15% nell’eurozona dal picco raggiunto nel 2008. Tale calo ha conseguenze chiare anche sul futuro della crescita.

Ciò viene riscontrato anche dalla debolezza del mercato del lavoro. Basti ricordare che il tasso dei disoccupati di lungo periodo è raddoppiato, dal 3 al 6%. La terza gamba della crescita, ossia i fattori totali della produzione “che essenzialmente catturano i progressi tecnologici di lungo periodo”, nella definizione di Mersch, sta messa un po’ meglio di come stanno capitale e lavoro, ma la situazione è comunque difficile perché “si trova in una situazione di trend declinante”. Tanto per cambiare viene da dire.

Tutto ciò per dire che all’eurozona serve una cura da cavallo. Se vi fischiano le orecchie non è colpa mia.

La cure di Mersch si basa essenzialmente su due direttrici: quella finanziaria, che passa dalla “riparazione” del mercato dei capitalei, frammentato prima dalla crisi e poi dalla mancanza di fiducia, e quella “reale”, ossia mercato del lavoro e dei prodotti.

La prima via, quella finanziaria, trova nell’Unione bancaria il suo pilastro costitutivo, come abbiamo visto più volte ripetere dai nostri banchieri centrali. Ma poi ecco che Mersch tira fuori un altro asso dalla manica che, ventilato qua e là nei mesi passati, sembra essere diventato uno dei probabili passaggi obbligati della Banca centrale europea: il rilancio delle cartolarizzazioni, il cui mercato europeo  “si è virtualmente essiccato negli anni recenti”.

Sappiamo tutti che l’uso selvaggio e incontrollato di cartolarizzazioni è stato uno dei fattori scatenanti della crisi del 2008, in particolare nel mercato americano, che questi strumenti ha inventato e diffuso negli ultimi decenni. Per non dire poi che, in fondo, le cartolarizzazioni non sono altro che un modo di far circolare debiti nell’ipotesi assolutamente teorica che ciò serva a distribuire il rischio, annullandolo.

E tuttavia ai mali estremi, rimedi estremi, sembra dire Mersch, secondo il quale “vedo nelle cartolarizzazioni un importante strumento per consentire alle banche di gestire il rischio di credito associato alle piccole e medie imprese”. Perché quelle grandi dovrebbero rivolgersi sempre più al mercato del capitale, nelle rosse aspettative del nostro banchiere.

Per non fare gli sbagli del passato Mersch conta sui progressi della regolazione, fatti sulla scorta del disastro subprime americano. Forte anche del fatto che il tasso di default europeo degli Abs, fra il 2007 e il primo quarto del 2013 è stato intorno all’1,4% a fronte del 17,4 americano. Come dire: siamo più bravi e prudenti.

Ma ovviamente è il lato delle riforme strutturali quello che più interessa il nostro banchiere, il quale, visto che parlava a Dublino, non si è peritato di additare l’Irlanda come una buona pratica per l’efficienza con la quale ha superato la crisi (?)

Detto in altri termini, bisogna partire da un dato: “Il 45% degli investimenti fissi in Europa è concentrato in settore dove il governo ha una significativa influenza regolatoria e ciò implica che riforme strutturali possano generare un balzo significativo di investimenti” anche nelle economie deboli.

Inoltre, dati i trend demografici europei, servono chiare riforme previdenziali e del mercato del lavoro che consentano di prolungare il tasso di partecipazione al mercato del lavoro: quindi lavorare di più e in numero crescente, anche favorendo i flussi transfrontalieri. Le Germania cerca lavoratori, se interessa, visto che le previsioni Ocse la prevedono in declinante crescita sotto l’1% entro il 2020 proprio a causa della sua situazione demografica.

E di nuovo, “l’Irlanda e un esempio molto concreto di sistema funzionante”. Le riforme del mercato del lavoro hanno fatto riassorbire due punti di disoccupazione (dal 14 al 12% fra il 2012 e il 2013), ma soprattutto “l’Irlada sta implementando il giusto tipo di politiche che miglioreranno la crescita in futuro”. Talché l’Irlanda, che ha ancora diversi problemi, come riconosce lo stesso Mersch, sembra il campo ideale dal quale estrarre suggerimenti per gli altri paesi fragili, visto che l’Europa, dal 1990, si trova in una situazione in cui le necessarie riforme aspettano ancora di essere realizzate.

Ci hanno provato con l’euro, ma a quanto pare la frusta monetaria non è bastata.

Ora magari proveranno con le buone maniere.

La Giovine Europa (reloaded)

Ecco che i giovani diventano il lievito del dibattito europeo.

Sono loro, poverini, che dovranno pagare i debiti lasciati dai loro genitori.

Sono loro che dovranno farsi carico del fallimento epocale di un paio di generazioni, che tanto hanno preso quanto poco oggi vogliono restituire.

E’ in nome loro, perciò, che i governi devono farsi carico di tutto ciò che è necessario fare per rimettere in pista la macchina della crescita.

Perché in caso contrario questi giovani non avranno un futuro.

Ecco che i giovani diventano il denominatore comune di stati agli antipodi, come la Germania e la Grecia, tanto per citare gli ultimi due sui quali si è esercitata la retorica dei nostri banchieri centrali.

Vi sembrerà strano, ma anche la virtuosa Germania ha un debito nei confronti dei suoi giovani. Certo, differente da quello della Grecia, ma altrettanto cogente.

Della Grecia si è occupato Yves Mersch, che ha tenuto un discorso alla Minsky conference intitolato “Intergenerational justice in times of sovereign debt crises”, che già dal titolo è tutto un programma.

Il popolo greco, dice Mersch, ha compiuto “un aggiustamento fiscale di dimensione storiche e si è indirizzato sulla difficile strada delle riforme strutturale”. E tuttavia “l’inversione di tendenza è ancora a metà. C’è ancora molto lavoro da fare”.

Non basta mai.

Anche perché “la Grecia ha di fronte delle sfide fiscali di lungo termine collegate all’alto livello del debito pubblico e agli sviluppi demografici. Queste sfide sollevano profonde questioni di giustizia intergenerazionale”.

Che significa? Che se “il consolidamento fiscale parte oggi, allora la generazione che ha beneficiato di più dai suoi debiti giocherà il ruolo principale nella loro riduzione. Ma se il consolidamento verrà ritardato, allora le generazioni future dovranno farsi carico del peso della riduzione del debito, il che costituirebbe un diretto trasferimento a suo vantaggio dai suoi figli e nipoti”.

La decisione spetta a noi, sottolinea Mersch, visto che i nostri figli e nipoti non hanno voce in capitolo.

Il mito di Crono, che divora i suoi stessi figli, si attaglia perfettamente al caso greco.

Ma,  sottolinea lo stesso Mersch, sono tutte le società occidentali chiamate a farci i conti.

Questo dilemma non riguarda solo la gestione del passato (i debiti), ma ha a che fare con il futuro (i debiti che dovremo fare).

Mersch calcola che da qui al 2060 ci saranno solo due lavoratori per un ultra 65enne, a fronte dei quattro di oggi. Quindi più previdenza e welfare, il cui peso si scaricherà sempre più su sempre meno persone.

“Questo significa che se le generazioni correnti saranno proattive nel riformare il sistema delle pensioni – dice – si potrà ridurre il peso sulle spalle delle generazioni future, sennò tale peso sarà sempre più gravoso”.

Da qui la domanda: “Riuscirà la generazione corrente a farsi carico delle responsabilità delle sfide fiscali di lungo termine nelle quali hanno avuto una gran parte di responsabilità?”

“E’ chiaro cosa sarebbe giusto fare in un’ottica di giustizia intergenerazionale”, conclude.

Le linee guida per la Grecia sono tre: consolidamento fiscale, aumento della competitività (leggi azione sul mercato del lavoro), attrazione di investimenti dall’estero. Quest’ultima prescrizione si attaglia perfettamente al ruolo di economia emergente che la Grecia si appresta a interpretare nel palcoscenico europeo.

Diciamo che è una sua specificità

Ma le altre due sono universali.

Lasciamo Mersch e andiamoci a leggere quello che dice Sabine Lautenschläger, vice presidente della Bundesbank, che ha parlato più o meno della stessa cosa a Francoforte il 26 ottobre scorso. Il suo discorso si intitola “The European sovereign debt crisis and its implications for the younger generation”.

Ve la faccio breve perché sono sicuro abbiate già capito. La nostra banchiera, dopo aver magnificato il successo della riforma del lavoro tedesca (le varie riforme Hartz) sottolinea che anche in Germania bisogna fare i conti con l’equità intergenerazionale.

Ma, aggiunge, è un problema che riguarda tutto il mondo.

La Germania, semmai, si trova un passo in avanti perché ha compiuto alcune riforme.

Ma altre ancora devono essere compiute, specie a livello europeo. A cominciare dall’Unione bancaria.

Degna di nota è la citazione che apre il suo discorso: “Il progresso degli enormi debiti, che al presente opprimono, e nel lungo periodo probabilmente rovineranno, tutte le grandi nazioni d’Europa, è stato pressoché uniforme”.

“Penserete che si tratta di una citazione recente – dice la frau – ma questa citazione data 1766 ed è tratta da uno scritto di Adam Smith, considerato il fondatore dell’economia classica”.

Come si vede, è sempre successo che i padri abbiano finito col mangiare i figli.

Salvo poi subire la ribellione dei superstiti. Che magari si sono rifiutati di pagare questi debiti in uno dei mille modi creativi con i quali si può fare (dal default, all’inflazione alla guerra). Tanto è vero che la nefasta previsione di Smith, nel lungo periodo, non si è mai avverata e gli stati europei sono ancora qui, malridotti, ma vivi e vegeti.

Fino ad oggi.

E tuttavia il problema rimane. “Molti giovani nei paesi europei colpiti dalla crisi stanno sperimentando una grande difficoltà a trovare lavoro e la crisi del debito proietta un’ombra sul loro futuro”, dice.

“Questi debiti saranno caricati sulle spalle delle giovani generazioni e il peso degli  interessi restingerà notevolmente la politica fiscale”, aggiunge.

“Chiaramente, di conseguenza, le cause della crisi devono essere eliminate una volta per tutte nell’interesse delle giovani generazioni”, conclude.

E ancora una volta si pone l’accento sulle solite riforme, necessarie quanto ineludibili nel brevissimo periodo.

Per tutti.

Ecco perciò che  i giovani diventano il migliore argomento per parlare di riforme del mercato del lavoro, della riorganizzazione della finanza europea e del necessario consolidamento fiscale.

Ecco che i giovani diventano la testa d’ariete di un’offensiva facilmente spendibile sui tavoli delle cancellerie europee.

Questo spiega bene perché ormai, di conseguenza, si sia perso il conto di quanti leader politici abbiano speso parole a favore dei giovani, sempre evitando di aggiungere che saranno proprio i giovani di oggi (e non i garantiti gonfi di diritti acquisiti) a pagare il prezzo maggiore della correzione storica di un andazzo traballante.

Ecco che il giovani diventano l’argomento principe della retorica “sviluppista” che, volente o nolente, non potrà far altro che esacerbare il conflitto intergenerazionale che sta maturando nell’eurozona e nel mondo, al grido di “giovani di tutto il mondo unitevi”.

D’altronde a chi meglio dei giovani può rivolgersi un’istituzione giovane come l’Unione europea?

La nuova Giovine Europa ha bisogno di una Santa allenza dei giovani da contrapporre alla Santa allenza degli Stati sovrani, artefici neanche troppo celati del dissesto finanziario del nostro tempo, come quella che si tentò, ai tempi di Mazzini, contro la Santa Allenza dei sovrani tout court.

A quel tempo l’esprimento fallì.

Ma ancora non c’erano le banche centrali.

Ecco l’Europa di Supermario bros

Certe volte bisogna coltivare le domande inutili perché spesso conducono a scoperte istruttive.

Poiché mi diletto in questo esercizio ozioso, qualche giorno fa mi sono chiesto: ma come sarà l’Europa fra dieci anni?

Prima di fare gli scongiuri suggerisco di leggere un bell’intervento del 30 settembre scorso di  Yves Mersch, componente del board della Bce dal titolo asettico ma pieno di promesse: “Verso l’unione bancaria europea”.

Una volta si andava verso il sol dell’avvenire, ma tant’è.

Non ci crederete, ma ho trovato risposte utili alla mia domanda inutile.

Non mi soffermo sul significato e gli scopi dell’unione bancaria, sulla quale ho versato gli opportuni fiumi di bit in diversi post.

Quello che è interessante, del lungo intervento, è invece il passaggio in cui Mersch, dopo aver ricordato i diversi problemi strutturali che affligono l’architettura delll’eurozona, ricorda che “qualcosa di nuovo è emerso a giugno 2012 al summit dei leader europei: scorci di una visione europea comune per un’architettura coerente e vitale della UEM”.

Meglio tardi che mai, viene da dire.

I protagonisti di questa visione furono quattro: il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, quello dell’eurogruppo, Jean Claude Juncker, della commissione europea, José Manuel Barroso, e della Bce, Mario Draghi. I quattro visionari redassero un documento che fu icasticamente soprannominato “Il rapporto dei quattro presidenti”.

Supermario brothers.

Una sorta di nuovo videogioco destinato al mercato europeo.

Leggendo il rapporto viene il sospetto che l’Europa si sia infilata in un’avventura pericolosa, dagli esiti incerti, che richiederà una gran destrezza per superare i vari livelli di difficoltà, che prevedono crisi, cadute e rinascite, come aveva già intravisto Jean Monnet, non a caso citato da Mersch, in una sua celebre dichiarazione, secondo la quale “L’Europa sarà forgiata dalle crisi e sarà la somma delle soluzioni adottate per le crisi”.

L’Europa che dovremmo vedere da qui a dieci anni, che poi è l’orizzonte di tempo delineato dai quattro presidenti nel loro rapporto di giugno 2012, sarà la risultante di questo gioco. Anzi, videogioco, visto che la battaglia si condurrà innanzitutto tramite i mezzi di informazione, tv e internet in testa.

Sarà L’Europa di Supermario Bros.

Dieci anni di tempo per giocare e quattro livelli da superare. Ogni livello nasconde decine di insidie. Mostri paurosissimi (gli stati nazionali), trappole e trabocchetti, sotto forma di codici e codicilli.

Primo livello: l’Unione bancaria. Sappiamo già che siamo a un terzo dell’opera. Dopo l’approvazione della supervisione unificata, si dovrebbe approvare il meccanismo di risoluzione e poi quello di assicurazione dei depositi. Risultato: una banca barcollante potrà essere chiusa dal risolutore senza spese per i contribuenti, ma a carico di azionisti e obbligazionisti fino ai depositanti. In questo modo si conta di spezzare il legame, tuttora molto forte, fra le banche e gli stati dove risiedono.

Secondo livello: l’Unione fiscale, “che comprenda – dice Mersch – un contesto unitario di budget che vada aldilà del fiscal compact”. Per dirla con le parole di Supermario Bros, “sono essenziali meccanismi efficaci per prevenire e correggere politiche di bilancio non sostenibili in ciascuno stato membro”. Come? “L’emissione di debito pubblico, oltre il livello convenuto di comune accordo, dovrebbe essere motivato e approvato in via preventiva”. A queste condizioni “in prospettiva di medio termine si potrebbe valutare l’emissione di debito comune che comporterebbe lo sviluppo di una maggiore capacità di gestire le interdipendenze economiche”.

Terzo livello: l’Unione economica, visto che “una maggiore integrazione – recita il rapporto – è necessaria per favorire il coordinamento e la convergenza dei diversi settori politici fra i paesi dell’euro”. Tale livello di integrazione sarebbe “particolarmente importante per orientare le politiche in settori come quello della mobilità dei lavoratori o del coordinamento in campo tributario”.

Quarto livello: l’Unione politica. Bontà sua, Supermario bros ammette che “le decisioni sui bilanci nazionali sono al centro delle democrazie parlamentari, quindi orientarsi verso un processo decisionale in campo fiscale ed economico richiederà (dulcis in fundo, ndr) meccanismi forti che garantiscano la legittimità e la responsabilità delle decisioni comuni”.

Le istruzioni del gioco prevedono anche un metodo di lavoro. I quattro presidenti costruiranno una tabella di marcia che verrà socializzata nel tempo perché tutti possano averne contezza.

Il gioco è questo. E’ tutto già scritto, Solo che, come al solito quasi nessuno legge.

Rimane una domanda: chi manovra il joystick?

Ps Ovviamente non ho una risposta. Però seguo una traccia.

Draghi ieri ha detto di essersi molto stupito del fatto che qualcuno metta in discussione il principio che gli stati dovranno ricapitalizzare le banche che dovessero essere giudcate carenti di capitale dalla Supervisione europea, sottolineando che gli stati si sono impegnati in tal senso già da tempo e che comunque le risorse messe a disposizione delle banche non verranno conteggiate fra i parametri che definiscono il deficit fiscale.

Quindi gli stati, molto presto, saranno chiamati a tirare fuori altri soldi dopo quelli che hanno dovuto spendere per salvare le banche dal 2008 in poi. Giocoforza ne avranno meno da spendere per tutto il resto, e questo, pure se servirà a dare stabilità al sistema bancario europeo, rischia di far diventare ancora più anemica l’economia reale. E poiché consolidamento chiama consolidamento, è facile prevede un’altra stagione di crisi fiscali che sarà di sicuro un ottimo viatico per arrivare al secondo livello del videogioco: l’Unione fiscale.

La crisi come asso nella manica per superare i livelli del gioco: ecco il trucco vincente di Supermario Bros.

Resta da capire che tipo di crisi servirà per superare anche gli altri due livelli.

Visti i precedenti, c’è di che preoccuparsi.

Il Capitale conquista il mercato comune europeo

Se il denaro è una merce, come postula (senza mai dirlo) il mainstream economico del nostro tempo, allora sembra del tutto logico che sia trattato alla stregua di tutte le altri merci.

Se far girare il denaro è un servizio, come sottintende la forsennata liberalizzazione dei movimenti di capitali in auge da un trentennio nei nostri paesi, allora è del tutto logico che chi gestisce i servizi finanziari sia assimilato a tutti gli altri.

Perché stupirsi, allora, se nel dibattito, finora ristretto, sul futuro dell’Unione europea ormai si chieda a gran voce che si traggano le dovute conseguenze? Ossia che anche il Capitale entri nel sistema generale generale che regge il mercato comune europeo per le altre merci e servizi, che vede la Commissione europea, e non gli stati nazionali, nel ruolo di governante capace anche di comminare sanzioni.

Nessuno può far nulla se la Commissione europea sanziona uno stato che magari non rispetta la direttiva sulle quote latte. Perché dovrebbe sembrare strano se la Commissione, o chi per lei, conquista il potere di decidere di far fallire una banca?

Questo è il punto esatto in cui ci troviamo. L’Unione europea si trova di fronte a un bivio cruciale per il suo sviluppo: la definitiva integrazione, in prospettiva anche fiscale, o la definitiva disintegrazione.

La migliore cartina tornasole di cui disponiamo per monitorare tale processo è il dibattito sull’Unione bancaria, che abbiamo già visto porta con sé alcune significative implicazioni.

Adesso possiamo fare un passo in avanti. Possiamo leggere ad esempio le illuminanti parole di Yves Mersch, componente del board della Bce, che di recente ha parlato all’European Forum di Alpbach proprio sul tema “Il mercato unico e l’unione bancaria”. Un intervento che, aldilà di come la si pensi, ha il pregio di fare chiarezza su come la vedano i nostri banchieri centrali.

Può sembrare strano che ci sia un nesso fra mercato unico europeo, che conosciamo ormai da oltre 50 anni, e Unione bancaria. Quest’ultima è diventata d’attualità solo in conseguenza della crisi, mentre il Mercato comune europeo è ormai pacificamente acquisito. Ma i cultori della materia ricorderanno che di Unione bancaria, o meglio di supervisione bancaria, parlò per la prima volta Wim Duisenberg, già presidente della Bce e componente di quel Comitato Delors che fissò le regole del trattato di Maastricht, sollecitandone l’attuazione. Ma i suoi appelli caddero nel vuoto.

All’epoca, come oggi, gli stati nazionali erano poco restii a cedere sovranità su una materia tanto delicata.

Oggi però, a differenza di allora, i tempi sembrano più propizi.

Il terremoto provocato dalla crisi, che ha sconquassato le economie europee, ha reso gli stati nazionali più disposti ad ascoltare i consigli dei banchieri centrali, chiamati a “fare tutto quanto sarà necessario” per salvare l’euro e, di conseguenza la costruzione europea.

Lo dimostra il fatto che l’Unione Bancaria è entrata di prepotenza nelle cronache economiche, proprio su sollecitazione dei banchieri centrali, anche se il dibattito è ancora lontano dalle orecchie del grande pubblico.

Ma il grande pubblico scopre sempre troppo tardi la posta in gioco. Oggi le opinioni pubbliche europee sono impelagate nel dibattito euro sì/euro no, mentre l’Internazionale dei banchieri centrali è già andata oltre.

Si prepara a varare l’Euro 2.0.

Il mese di settembre sarà fondamentale per capire quanto tale lavorio sia concreto.

Quando si parla di settembre, la prima cosa che viene in mente sono le elezioni tedesche. Ma, sebbene importanti, non saranno queste (o almeno non subito) a determinare il futuro dell’Unione bancaria.

Sarà molto più importante, infatti, la riunione plenaria del Parlamento europeo che si terrà fra il 9 e l’11 di questo mese, che dovrebbe approvare il regolamento che istituisce la supervisione bancaria nell’Eurozona, quello che viene denominato con l’acronimo SSM, della quale si sa già dovrebbe occuparsi la Bce. Se il parlamento darà il suo via libera, ci vorrà almeno un semestre prima che la burocrazia faccia il suo corso, calcola Mersch, e almeno un altro anno perché la supervisione diventi davvero operativa.

Arriviamo dunque ai primi del 2015, quando dovremmo avere un Supervisore europeo pienamente attivo.

Ma il tempo non sarà trascorso invano. Ricorderete che prima dell’estate il Consiglio europeo ha trovato l’accordo sulla direttiva sul salvataggio delle banche e che la Commissione europea ha già elaborato una proposta di attuazione che ha fatto storcere il naso ad alcuni stati, Germania in testa, perché giudicata formalmente in contrasto con i trattati, ma sostanzialmente troppo sbilanciata verso le autorità sovranazionali.

Evidentemente gli stati non hanno problemi a delegare alla commissione le regole per la cottura della pizza o della pesca del salmone, al contrario di quanto accade per la gestione delle banche. Persino i politici devono aver capito che se perdono la possibilità di contare sulle banche che risiedono nei loro stati, il loro potere sarà ridotto all’equivalente di un amministratore di condominio.

L’accordo trovato nel consiglio europeo, che ha originato la Bank Recovery and Resolution Directive (BRRD) dovrà essere a sua volta ratificato dal Parlamento europeo, e l’auspicio del nostro banchiere centrale è che si arrivi al gennaio 2018 (“Troppo tardi”, dice Mersch) con il meccanismo del bail-in (ossia della responsabilità dei fallimenti bancari in prima battuta in capo agli azionisti e agli obbligazionisti) pienamente operativo.

Ciò renderà operativo un altro meccanismo, quello di risoluzione. Quindi dovrebbe essere creata un’entità, ancora non si sa bene composta da chi, che abbia il potere di far fallire in maniera ordinata una banca qualora le segnalazioni del Supervisore lo suggeriscano.

Sulla fisionomia del Risolutore si gioca un’altra importante partita che influenzerà il destino europeo. Sarà un’entità sovranazionale, come suggeriscono i banchieri centrali e vorrebbe la Commissione Ue, o sarà “annacquata” dagli stati nazionali come vorrebbero i tedeschi e i francesi?

Per capire perché sulla partita dell’Unione bancaria si decida il futuro dell’Europa basta leggere Mersch. Con l’Unione bancaria, spiega, si ottengono tre risultati:

1) si incoraggia l’integrazione trans-frontaliera delle banche europee, e quindi si crea un sistema bancario europeo che, spiega, faciliterebbe l’emissione di credito;

2) si aumenterebbe la fiducia nelle banche europee, supervisionate dalla Bce e “punite” dal Risolutore quando sbagliano. Questo migliorerebbe gli scambi di capitale all’interno dell’eurozona;

3) si spezzerebbe il collegamento fra stati e banche nazionali, vista la tendenza di queste ultime a riempirsi di bond del proprio stato di residenza, magari con i soldi della Bce. A tal punto che hanno finito col sostituire le vecchie banche centrali, che finanziavano lo stato, ma con la differenza che, diversamente dalle banche centrali, lucrano corposi rendimenti, specie nei PIIGS, favorendo indirettamente l’indisciplina fiscale. E poi magari se falliscono devono essere salvate dagli stessi stati che prima hanno spremuto.

Per la cronaca, questo link fra stati e banche è la bestia nera di tutti i banchieri centrali europei.

Ma il fine ultimo del progetto è ancora più ambizioso.

Grazie alla costruzione di un’appropriata Unione bancaria, ossia più sovranazionale possibile, si arriverà al risultato, davvero storico, di costruire un mercato unico del capitale. Ossia la naturale evoluzione e il completamento del mercato unico europeo nato negli anni ’50.

“Noi abbiamo un mercato unico dei beni e dei servizi, dove le regole sono stabilite dalla legislazione comunitaria che dispone di diversi strumenti, come la procedura di infrazione, per far rispettare le sue decisioni”, spiega Mersch.

Adesso serve un passo avanti: “Abbiamo bisogno di costruire un regime altrettanto efficace per il mercato unico del capitale. Abbiamo già alcune nuove norme in vigore, per esempio sui requisiti patrimoniali. Siamo sul punto di accettare di un nuovo meccanismo per la supervisione. Ma ora dobbiamo fare in modo di creare una forte autorità per la risoluzione che abbia gli strumenti adeguati per fare il suo lavoro, come il bail-in, già a partire dal 2015”.

In pratica una nuova Unione Europea che integri sotto l’egida protettiva e rassicurante di una burocrazia opaca e democraticamente irresponsabile tutto ciò che si può scambiare, denaro compreso. Il dispotismo nella sua forma euroasiatica e il trionfo dell’egemonia monetaria.

Tutta la nostra economia sarà finalmente liberata dalla politica e dalle sue storture e sarà totalmente finanziarizzata, con le merci in balia delle borse valori.

La migliore delle economie possibili, a quanto pare.

Tutto ciò nel nome di futuri benefici di cui potranno godere i cittadini, “che avranno un settore bancario più sicuro”, le banche, “che agiranno in un contesto più ordinato”, e i governi, “che non dovranno più preoccuparsi di salvare le banche con i soldi pubblici”.

Quindi sicurezza, ordine e parsimonia pubblica.

Questa è la proposta valoriale sottintesa nel progetto economico di Europa che abbiamo davanti.

Siamo tutti convinti?

Allora diamo ai banchieri centrali, o a chi per loro, le chiavi della macchina dell’economia, come facciamo in Italia da vent’anni, e penseranno loro a guidarla.

Ecco come la logica del denaro come merce conduce al dominio del Capitale sulle merci.