Etichettato: unione fiscale in europa

Il terzo passo dell’eurozona: l’unione del mercato dei capitali


Dopo l’unione monetaria e quella bancaria, e non potendo per il momento aspirare alla logica conclusione, ossia l’unione fiscale, l’eurozona si appresta a muovere il terzo passo nel suo difficile e controverso percorso di integrazione: l’unione del mercato dei capitali.

Alcuni premesse ci sono già state, ma l’obiettivo è ancora lontano, come ha opportunamente ricordato Andreas Dombret, banchiere della Bundesbank, in una recente allocuzione al Brookings Institution di Washington (Designing a stable monetary union – progress and
open issues).

E si capisce, leggendolo, che le evidenti discrepanze fra le varie autorità europee, che non risparmiano neanche le banche centrali, non hanno alcun effetto sul dichiarato intento di costoro di arrivare, in un modo o nell’altro, a una profonda unione dell’eurozona, che dopo esser stata monetaria, bancaria, finanziaria e infine fiscale, culminerà in quell’unione politica che in tempi non sospetti ci è già stata preannunciata.

Di fronte a tanta determinazione s’ergono chiassosi e altrettanto vacui gli strepiti di tanti arruffapopoli che hanno gioco facile a promettere il paradiso trovandosi molti di noi all’inferno, ma che ignorano sostanzialmente, o fingono di ignorare, che spezzare il vincolo che ormai lega i paesi eurodotati gli uni agli altri richiederebbe ben altra forza e determinazione che un semplice comizio di piazza. E omettono di dire che tali forze, per loro natura primordiali, sfuggono ad ogni controllo, una volta che siano liberate.

Il caso vuole che Dombret abbia preso servizio alla Buba il 3 maggio 2010, proprio all’indomani della decisione dei ministri finanziari dell’Ue di concedere aiuti per 110 miliardi alla Grecia e trovandosi una settimana dopo, il 10 maggio, di fronte alla controversa decisione della Bce di acquistare bond governativi. Decisioni che molta parte della Buba non apprezzò e che tuttora mostra di non apprezzare, contravvenendo, nella loro opinione, la Bce a quel dogma della responsabilità che per i banchieri centrali tedeschi è l’asset principale che ogni sistema finanziario dovrebbe coltivare per smettere di privatizzare i guadagni e socializzare le perdite.

“Dopo quella settimana  – dice Dombret –  due cose mi divennero chiare: primo che molti osservatori, e in particolare dagli Stati Uniti – avevano sottostimato la volontà politica europea di tenere insieme l’area dell’euro. Secondo che molti, me compreso, avevano sovrastimato la stabilità dell’assetto istituzionale dell’eurozona”.

Mettendo insieme i due punti, osserva, la conclusione non può che essere una: far leva sulla volontà politica per migliorare l’eurozona. Ma come?

Dombret è convinto che aldilà di frange estreme che vorrebbero far saltare il banco, i cittadini europei ancora credano nel sogno dell’eurozona, e con loro la gran parte dei leader politici. Questi ultimi però non hanno determinazione sufficiente a saltare il fosso – probabilmente perché devono farsi eleggere in patria? – e colmare la strana contraddizione per la quale la politica monetaria europea è centralizzata mentre quella fiscale è ancora in mano ai singoli stati. Questo, nell’opione del banchiere, provoca uno squilibrio della responsabilità. Gli stati nazionali tenderanno a fare ciò che per loro è meglio piuttosto che guardare all’eurozona come quel tutt’uno che secondo Dombret e quelli che la pensano come lui sarebbe ideale.

L’Unione fiscale, di conseguenza, rimane ancora solo un bel sogno. Al più si possono invitare gli stati, e con scarso successo come insegnano il caso francese e italiano, a far valere le regole europee. Ma per il futuro prossimo, salvo esperimenti specifici che comunque richiederebbero importanti cessioni di sovranità, il lato fiscale rimane un tabù.

Ciò non vuol dire che si debba abdicare al dogma della responsabilità. Dombret infatti guarda con sospetto sia alla proposta di utilizzare il fondo Esm come provider di risorse per gi investimenti, che a suo dire indebolirebbe il senso politico di quell’organismo, che è innanzitutto quello di fornire fiducia e prestiti condizionati, sia alla recente decisione della Bce di comprare Abs che, socializzando di fatto le possibili perdite, aggiunge un ulteriore pregiudizio di responsabilità all’agire delle banche, che, come fanno di solito, potrebbero essere incentivate a sottovalutare i rischi sapendo che possono scaricarli sulla Bce e, insostanza, sui bilanci degli stati che della Bce sono azionisti per il tramite delle loro banche centrali.

Ma a parte queste divergenze, il punto centrale è che comunque le banche, con l’imminente avvio della supervisione unificata, verranno presto messe sotto la tutela della Bce con l’avvio della supervisioni unificata d’inizio novembre.

E’ chiaro già da adesso, tuttavia, che centralizzare la supervisione bancaria, associandola alla risoluzione e a un meccanismo centrale di tutela dei depositi, è già uno straordinario passo in avanti. Però, dice Dombret, è assai probabile che le banche europee, ancora fragili sul versante della loro profittabilità, dovranno tagliare i costi, essendo costrette ad agire in un contesto di bassi rendimenti, o sennò iniziare a fondersi fra loro per garantirsi la sopravvivenza.

Ma guardando avanti, il problema successivo riguarda proprio la frammentazione del mercato dei capitali nella zona euro. A parte le banche, ormai sotto tutela, c’è una pletora di operatori che nella zona euro fa girare i soldi: fondi, mercati azionari, controparti centrali. Queste entità sono ancora a chiara vocazione nazionale, come le banche d’altronde, e non sono ancora efficienti abbastanza, proprio a causa della frammentazione che esse replicano, di garantire al sistema produttivo i flussi di risorse che pure potrebbero generare. Ciò anche in conseguenza del fatto che le imprese europee sono a vocazione bancaria: chiedono prestiti più che provare a raccogliere capitali.

Invertire questa consuetudine richiede mercati del capitale più efficienti. O, che nel gergo degli internazionalisti è nella stessa cosa, slegati dalle logiche nazionali. Questo è ciò di cui si parla quando si discute di unione del mercato dei capitali, come hanno fatto il presidente della commissione Juncker e Mersch, del board della Bce.

L’integrazione politica, in tempi in cui tutto è economia, a quel punto sarà solo una questione da addetti ai lavori.

Pubblicità

Ecco l’Europa di Supermario bros


Certe volte bisogna coltivare le domande inutili perché spesso conducono a scoperte istruttive.

Poiché mi diletto in questo esercizio ozioso, qualche giorno fa mi sono chiesto: ma come sarà l’Europa fra dieci anni?

Prima di fare gli scongiuri suggerisco di leggere un bell’intervento del 30 settembre scorso di  Yves Mersch, componente del board della Bce dal titolo asettico ma pieno di promesse: “Verso l’unione bancaria europea”.

Una volta si andava verso il sol dell’avvenire, ma tant’è.

Non ci crederete, ma ho trovato risposte utili alla mia domanda inutile.

Non mi soffermo sul significato e gli scopi dell’unione bancaria, sulla quale ho versato gli opportuni fiumi di bit in diversi post.

Quello che è interessante, del lungo intervento, è invece il passaggio in cui Mersch, dopo aver ricordato i diversi problemi strutturali che affligono l’architettura delll’eurozona, ricorda che “qualcosa di nuovo è emerso a giugno 2012 al summit dei leader europei: scorci di una visione europea comune per un’architettura coerente e vitale della UEM”.

Meglio tardi che mai, viene da dire.

I protagonisti di questa visione furono quattro: il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, quello dell’eurogruppo, Jean Claude Juncker, della commissione europea, José Manuel Barroso, e della Bce, Mario Draghi. I quattro visionari redassero un documento che fu icasticamente soprannominato “Il rapporto dei quattro presidenti”.

Supermario brothers.

Una sorta di nuovo videogioco destinato al mercato europeo.

Leggendo il rapporto viene il sospetto che l’Europa si sia infilata in un’avventura pericolosa, dagli esiti incerti, che richiederà una gran destrezza per superare i vari livelli di difficoltà, che prevedono crisi, cadute e rinascite, come aveva già intravisto Jean Monnet, non a caso citato da Mersch, in una sua celebre dichiarazione, secondo la quale “L’Europa sarà forgiata dalle crisi e sarà la somma delle soluzioni adottate per le crisi”.

L’Europa che dovremmo vedere da qui a dieci anni, che poi è l’orizzonte di tempo delineato dai quattro presidenti nel loro rapporto di giugno 2012, sarà la risultante di questo gioco. Anzi, videogioco, visto che la battaglia si condurrà innanzitutto tramite i mezzi di informazione, tv e internet in testa.

Sarà L’Europa di Supermario Bros.

Dieci anni di tempo per giocare e quattro livelli da superare. Ogni livello nasconde decine di insidie. Mostri paurosissimi (gli stati nazionali), trappole e trabocchetti, sotto forma di codici e codicilli.

Primo livello: l’Unione bancaria. Sappiamo già che siamo a un terzo dell’opera. Dopo l’approvazione della supervisione unificata, si dovrebbe approvare il meccanismo di risoluzione e poi quello di assicurazione dei depositi. Risultato: una banca barcollante potrà essere chiusa dal risolutore senza spese per i contribuenti, ma a carico di azionisti e obbligazionisti fino ai depositanti. In questo modo si conta di spezzare il legame, tuttora molto forte, fra le banche e gli stati dove risiedono.

Secondo livello: l’Unione fiscale, “che comprenda – dice Mersch – un contesto unitario di budget che vada aldilà del fiscal compact”. Per dirla con le parole di Supermario Bros, “sono essenziali meccanismi efficaci per prevenire e correggere politiche di bilancio non sostenibili in ciascuno stato membro”. Come? “L’emissione di debito pubblico, oltre il livello convenuto di comune accordo, dovrebbe essere motivato e approvato in via preventiva”. A queste condizioni “in prospettiva di medio termine si potrebbe valutare l’emissione di debito comune che comporterebbe lo sviluppo di una maggiore capacità di gestire le interdipendenze economiche”.

Terzo livello: l’Unione economica, visto che “una maggiore integrazione – recita il rapporto – è necessaria per favorire il coordinamento e la convergenza dei diversi settori politici fra i paesi dell’euro”. Tale livello di integrazione sarebbe “particolarmente importante per orientare le politiche in settori come quello della mobilità dei lavoratori o del coordinamento in campo tributario”.

Quarto livello: l’Unione politica. Bontà sua, Supermario bros ammette che “le decisioni sui bilanci nazionali sono al centro delle democrazie parlamentari, quindi orientarsi verso un processo decisionale in campo fiscale ed economico richiederà (dulcis in fundo, ndr) meccanismi forti che garantiscano la legittimità e la responsabilità delle decisioni comuni”.

Le istruzioni del gioco prevedono anche un metodo di lavoro. I quattro presidenti costruiranno una tabella di marcia che verrà socializzata nel tempo perché tutti possano averne contezza.

Il gioco è questo. E’ tutto già scritto, Solo che, come al solito quasi nessuno legge.

Rimane una domanda: chi manovra il joystick?

Ps Ovviamente non ho una risposta. Però seguo una traccia.

Draghi ieri ha detto di essersi molto stupito del fatto che qualcuno metta in discussione il principio che gli stati dovranno ricapitalizzare le banche che dovessero essere giudcate carenti di capitale dalla Supervisione europea, sottolineando che gli stati si sono impegnati in tal senso già da tempo e che comunque le risorse messe a disposizione delle banche non verranno conteggiate fra i parametri che definiscono il deficit fiscale.

Quindi gli stati, molto presto, saranno chiamati a tirare fuori altri soldi dopo quelli che hanno dovuto spendere per salvare le banche dal 2008 in poi. Giocoforza ne avranno meno da spendere per tutto il resto, e questo, pure se servirà a dare stabilità al sistema bancario europeo, rischia di far diventare ancora più anemica l’economia reale. E poiché consolidamento chiama consolidamento, è facile prevede un’altra stagione di crisi fiscali che sarà di sicuro un ottimo viatico per arrivare al secondo livello del videogioco: l’Unione fiscale.

La crisi come asso nella manica per superare i livelli del gioco: ecco il trucco vincente di Supermario Bros.

Resta da capire che tipo di crisi servirà per superare anche gli altri due livelli.

Visti i precedenti, c’è di che preoccuparsi.

Il Fondo monetario vuole più Europa


Solo una sana e consapevole unione fiscale salva l’euro dallo stress e dall’azione statale. E grazie alla crisi questo miracolo ormai è in vista.

Eccola qui la morale di un robusto studio presentato dal Fondo monetario internazionale che si intitola “Toward a fiscal union for the euro area”, che è un po’ un bignami di tutto quello che abbiamo letto e sentito in questi ultimi anni e anche un possente documento di analisi destinato di sicuro a trovare udienza benevola sui tavoli della politica europea, compresa la nostra, ammesso che trovi il tempo di occuparsi di qualcosa che abbia un senso.

Meglio perciò leggerlo, almeno sappiamo cosa ci aspetta.

“La crisi – scrive il Fondo – ha rivelato un gap critico nell’UEM: la capacità degli shock subiti da un singolo paese di propagarsi in tutta l’eurozona, mettendo in discussione anche la moneta unica”.

L’avreste mai detto?

Da qui la domanda: una più profonda integrazione fiscale può servire a correggere la debolezza dell’architettura europea?

Voi che dite?

Il Fondo osserva che sono già stati fatti alcuni passi in questa direzione. Ma, suggerisce, è il momento di fare qualcosa di più.

Prima di arrivare alla prognosi, tuttavia, è utile andare a vedere la diagnosi. Non tanto perché il Fondo dica qualcosa di nuovo, ma perché ribadisce concetti anche ancora oggi faticano ad affermarsi nel nostro dibattito economico. Quello politico sul tema, semplicemente, non è pervenuto.

“La crisi ha rilvelato che il debito sovrano può essere prezzato a un livello fuori mercato, e che gli stati possono persino perdere l’accesso a tali mercati, mentre il costo dei prestiti ai privati può variare notevolmente malgrado l’Unione monetaria. Inoltre ha mostrato come il contagio può diffondersi fra gli stati”.

In pratica la crisi ha dimostrato che l’unione monetaria, per come dovrebbe funzionare in teoria, semplicemente non esiste.

Ancora peggio, la crisi ha mostrato che quello che l’Uem avrebbe dovuto garantire, ossia la convergenza dei redditi dei paesi dell’area, non si è mai verificata. Al contrario, “la divergenza all’interno dell’eurozona non è declinata con l’introduzione dell’euro.

 Ma questo lo sapevamo già.

Così come sapevamo che l’unica forma di convergenza raggiunta grazie all’euro è stata quella sul ribasso dei salari per gran parte dell’area.

Quello che non sapevamo prima di leggere l’analisi del Fmi è che “mentre gli shock specifici al livello del singolo stato sono rimasti più prevalenti di quanto ci si aspettasse, l’alto livello di commercio e l’integrazione finanziaria ha creato il potenziale per sostanziali esternalità, aggravate da una governance fiscale debole e dall’assenza di un’effettiva disciplina di mercato”.

Traducendo vuol dire che l’Uem ha funzionato da amplificatore degli squilibri, anziché come fattore di riequilibrio.

Vi sembra strano?

Il motivo? “Rigidità del mercato del lavoro e dei prezzi”, visto che “a differenza di quanto ci si aspettava accadesse in un’area valutaria ottimale prezzi e salari hanno continuato a mostrare rigidità in molti paesi dell’area, e ciò ha provocato dei larghi squilibri interni nella zona che sono stati il cuore della crisi”.

Peraltro, la mobilità del lavoro “continua ad essere bassa a differenza di quanto accade in altre aree a valuta comune”, vuoi per motivi linguistici e culturali, vuoi perché, più prosaicamente, è impossibile portare con sé, quando si cambia paese all’interno dell’eurozona, il proprio bagaglio pensionistico o “i propri benefit di disoccupazione”. Tutta roba che, nel migliore dei mondi possibili, avrebbe dovuto essere affrontata prima dell’Unione, non dopo.

Quando la crisi è esplosa, si è visto che la frammentazione socio-economica-istituzionale dei paesi dell’area è diventata frammentazione finanziaria tout court. Sono arrivati gli spread, e con essi il rischio sovrano, prima, e quello della destabilizzazione finanziaria per via bancaria, dopo. La paura del contagio ha fatto il resto.

L’eurozona si è scoperta per quella che è: un gruppo di paesi dove tutto è diverso, tranne la moneta.

Uno straordinario bagno di realtà.

E anche costoso.

Il Fondo calcola che finora i paesi dell’euro hanno già speso 227 dei 390 miliardi previsti per i programmi di assistenza agli stati in difficoltà, quindi fra ESM, EFSF, EFSM e prestiti alla Grecia. Senza contare l’esposizione dell’Eurosistema per circa 1.200 miliardi tramite il bilancio della Bce e il sistema Target 2. L’Italia, per guardare a casa nostra, è esposta per circa 400 miliardi di debito nella pancia della Bce. La Spagna per altri 500.

Tale pratica, che ha avuto l’indubitabile vantaggio di far abbassare il costo del finanziamento per gli stati in difficoltà, ha generato quello che il Fondo chiama “trasferimenti impliciti” a favore di questi stati sostanzialmente a carico dei paesi creditori, stimati fra i 45 e i 76 miliardi l’anno per Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna.

Questo spiega perché gli stati del Nord Europa siano così nervosi.

Allo stesso tempo, questi trasferimenti impliciti mostrano con chiarezza che c’è già un meccanismo di socializzazione dei debiti.

Perché allora non andare oltre?

Infatti per riparare il giocattolo difettoso, l’Ue ha messo mano a una serie di strumenti che vale la pena riepilogare (sempre perché è utile sapere cosa ci aspetta).

A dicembre 2011 è stato approvato il Six pack, un pacchetto di norme votato al rafforzamento della governance fiscale nella zona, seguito, un anno dopo, dal Fiscal compact, già ratificato da 15 paesi dell’eurozona, e poi c’è il Two pack approvato dal parlamento europeo a marzo scorso che dovrebbe entrare in vigore nel 2014.

Una volta o l’altra andremo a vedere che c’è scritto in queste norme. Per adesso contentiamoci di sapere che servono, o dovrebbero servire, a dare una maggiore disciplina fiscale agli stati dell’euro.

Non finisce qui. La parte del leone, in questo momento, la sta facendo l’Unione bancaria, per la quale il Fondo tifa senza mezze misure, che abbiamo già visto essere il prodromo necessario per arrivare all’unione fiscale. Nell’arco dei prossimi 18 mesi, poi, il Fondo si aspetta che la Commissione Ue metta a punto il “Convergence and competitiveness instrument” per promuovere ex ante un maggior coordinamento fra gli stati e maggiori riforme strutturali.

Tutta questa roba, sottolinea il Fondo, si può fare i tempi ravvicinati e, soprattutto, senza modificare i trattati.

Nel medio termine, quindi fra la fine del 2014 e il 2017, dovrebbero raggiungersi risultati ben più ambiziosi, che però richiedono il cambiamento dei trattati.

In particolare, un “controllo più forte sui bilanci nazionali, compreso il diritto per il centro (l’Ue) di richiedere cambiamenti nelle decisioni fiscali nazionali; una capacità fiscale centrale, con risorse dedicate; la possibilità di prendere a prestito in solido, vale a dire creare un fondo di rimborso europeo per coordinare la riduzione del debito pubblico; emettere eurobills per favorire l’integrazione dei mercati finanziari”.

Quindi il monito: “Il contesto di governance deve essere implementato rigorosamente, con un forte rinforzo dei poteri del centro”.

Alla fine del documento, fra le note tecniche, il Fondo scrive un bellissimo paragrafo che si intitola “Lezioni per l’eurozona” che leggo con avido interesse.

Scopro che:

1) La condivisione del rischio fra i paesi deve essere accoppiata con una robusta governance del centro. Mettere i debiti in comune significa anche mettere in comune la capacità di gestire le finanze pubbliche. Che poi è il senso dell’Unione fiscale.

Quindi più Europa.

2) Bisogna migliorare il set istituzionale degli strumenti europei per risolvere eventuali crisi sovrane. Processo lungo che, almeno nella fase attuale, “deve essere imposto più direttamente dal centro”.

Quindi più Europa.

3) La transizione è uno dei risultati della crisi. La storia mostra che gli episodi di stress fiscale sono spesso il primo passo per un ribilanciamento dei poteri verso il centro (l’Ue). Le crisi hanno offerto l’occasione per una transizione verso meccanismi più stabili nelle aree a valuta unica. La crisi corrente offre all’eurozona una simile opportunità.

Quindi più Europa (grazie alla crisi).

La lezione è che dobbiamo sperare che la crisi ci conduca a un’Europa più forte e stabile.

Viva la Crisi.

Viva l’Europa.