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Assedio globale alle porte di Berlino
Il lungo processo di accerchiamento del fortino tedesco, iniziato tempo fa ad opera della Commissione Europea e della Bce, ha raggiunto il culmine alcuni giorni fa. Gli euroburocrati della Commissione hanno rilasciato un paper molto eloquente a metà agosto, dove senza mezze parole si affermava che un più deciso stimolo fiscale da parte dei paesi che se lo potevano permettere, Germania e Olanda in testa, avrebbero aiuto l’eurozona e loro a recuperare decimali di crescita, in un momento in cui l’economia globale minaccia di rallentare ancor di più. Dal canto suo la Bce ha approfittato dell’ultimo meeting dell’8 settembre per ripetere la stessa cosa, stavolta facendo i nomi. “I paesi che hanno spazio fiscale dovrebbero usarlo – ha detto Mario Draghi -. La Germania ha spazio fiscale”. E chi ha orecchi intenda.
Dal canto suo il governo tedesco ha parlato per bocca del suo ministro dell’economia, Wolfgang Schäuble, che ha promesso un taglio delle tasse mantenendo al contempo l’obiettivo, peraltro previsto dalle regole europee, di arrivare al 60% del debito/pil entro il 2020. Un risultato storico che riveste anche un importante significato politico nel momento in cui tutti i grandi paesi dell’eurozona, per tacere del resto del mondo, sono alle prese con grandi difficoltà nella tenuta dei conti pubblici.
In tal senso, l’esortazione “tecnica” di Bruxelles e quella accorata di Draghi nascondono assai più di quello che dicono. E’ il segnale di una radicalizzazione nei rapporti fra la Germania e il resto dell’eurozona, per non dire del mondo. La Germania, come ha detto il ministro tedesco davanti al parlamento è convinta di “rappresentare l’affidabilità e la stabilità”. Il resto del mondo vede l’innegabile successo economico tedesco come il serbatoio di risorse necessario ad alimentare la politica di spese che, secondo quanto prescritto dalla modellistica comunemente usata, dovrebbe contribuire a far uscire dalle secche l’economia europea. Il mondo, sembra di capire, potrebbe pure perdonare ai tedeschi il loro successo, ma solo a patto che lo condividano.
Questa tenzone fra l’egoismo tedesco e l’altruismo con i soldi degli altri rivela il limite della (ir)reale volontà cooperativa degli stati, e, sul versante più squisitamente teorico il conflitto fra due diverse visioni del mondo: la “stabilità e affidabilità” rivendicata da Schäuble e la politica deficit&inflazione, con la collaborazione delle banche centrali, che vede negli Usa il campione riconosciuto.
Alla fine dei giochi l’economia è solo un pretesto. L’assedio alla cassaforte tedesca in nome del bene comune è motivato da ragioni politiche e squisitamente culturali. E la Germania non è soltanto assediata. E’ anche sola.
Cura irlandese (e cartolarizzazioni) per l’eurozona
Sarà perché l’Eurostat rilasciava i dati 2013 della produzione industriale, ma improvvisamente la lettura di un recente intervento di Yves Mersch, banchiere della Bce, nella quale mi stavo intrattenendo è diventata interessante. L’andamento declinante della nostra contabilità europea rimava perfettamente con ciò di cui discorreva Mersch a Dublino qualche settimana fa. Tema quantomai attuale: far ripartire la crescita nell’eurozona (Reviving growth in the euro area, Institute of International European Affairs, Dublin, 7 February 2014).
Lo so che ne parlano tutti, per non dire che ne parlano e basta. Ma la questione, anzi il coacervo di questioni che la crescita porta con sé, dovrà pur essere affrontata, prima o poi. E leggere Mersch risulta utile perché aiuta a capire le coordinate del problema, a dimensionarlo e a sapere cosa frulla nella testa dei nostri banchieri centrali che, in ultima analisi, piaccia o meno, sono diventati gli autentici timonieri dell’eurozona.
La domanda dunque è: come possiamo far ripartire una crescita sostenibile nella zona euro? La prima risposta è che “possiamo aspettarci solo una risposta limitata dalle politiche di stimolo della domanda”. Quindi i teorici della spesa pompata da debito faranno bene a disilludersi.”La politica monetaria rimarrà accomodativa per tutto il tempo necessario, ma non può risolvere i problemi: può solo comprare tempo”.
Il tempo è denaro, notoriamente, e per sua natura la Banca centrale ne fornisce in quantità illimitata.
Nel frattempo ci sono alcune cose che dovremmo sapere. Primo: la crescita pompata dal debito (debt-fuelled) degli anni pre-crisi non sarà più possibile: “Non ci possiamo aspettare di vedere un ritorno alla crescita di domanda aggregata del passato”, dice. Questo comporta che dobbiamo “guardare alla capacità produttiva potenziale dell’economia nel suo complesso”.
Vista deprimente, comunque, perché “la situazione non è incoraggiante”, dato che nelle stime della Commissione Ue tale crescita potenziale è passato dal 2,2% del periodo 2000-2007 a un miserello +0,9% nel quinquennio 2008-12.
A guidare la contrazione, spiega Mersch, è stata innanzitutto quella degli investimenti, la cui quota globale è diminuita del 15% nell’eurozona dal picco raggiunto nel 2008. Tale calo ha conseguenze chiare anche sul futuro della crescita.
Ciò viene riscontrato anche dalla debolezza del mercato del lavoro. Basti ricordare che il tasso dei disoccupati di lungo periodo è raddoppiato, dal 3 al 6%. La terza gamba della crescita, ossia i fattori totali della produzione “che essenzialmente catturano i progressi tecnologici di lungo periodo”, nella definizione di Mersch, sta messa un po’ meglio di come stanno capitale e lavoro, ma la situazione è comunque difficile perché “si trova in una situazione di trend declinante”. Tanto per cambiare viene da dire.
Tutto ciò per dire che all’eurozona serve una cura da cavallo. Se vi fischiano le orecchie non è colpa mia.
La cure di Mersch si basa essenzialmente su due direttrici: quella finanziaria, che passa dalla “riparazione” del mercato dei capitalei, frammentato prima dalla crisi e poi dalla mancanza di fiducia, e quella “reale”, ossia mercato del lavoro e dei prodotti.
La prima via, quella finanziaria, trova nell’Unione bancaria il suo pilastro costitutivo, come abbiamo visto più volte ripetere dai nostri banchieri centrali. Ma poi ecco che Mersch tira fuori un altro asso dalla manica che, ventilato qua e là nei mesi passati, sembra essere diventato uno dei probabili passaggi obbligati della Banca centrale europea: il rilancio delle cartolarizzazioni, il cui mercato europeo “si è virtualmente essiccato negli anni recenti”.
Sappiamo tutti che l’uso selvaggio e incontrollato di cartolarizzazioni è stato uno dei fattori scatenanti della crisi del 2008, in particolare nel mercato americano, che questi strumenti ha inventato e diffuso negli ultimi decenni. Per non dire poi che, in fondo, le cartolarizzazioni non sono altro che un modo di far circolare debiti nell’ipotesi assolutamente teorica che ciò serva a distribuire il rischio, annullandolo.
E tuttavia ai mali estremi, rimedi estremi, sembra dire Mersch, secondo il quale “vedo nelle cartolarizzazioni un importante strumento per consentire alle banche di gestire il rischio di credito associato alle piccole e medie imprese”. Perché quelle grandi dovrebbero rivolgersi sempre più al mercato del capitale, nelle rosse aspettative del nostro banchiere.
Per non fare gli sbagli del passato Mersch conta sui progressi della regolazione, fatti sulla scorta del disastro subprime americano. Forte anche del fatto che il tasso di default europeo degli Abs, fra il 2007 e il primo quarto del 2013 è stato intorno all’1,4% a fronte del 17,4 americano. Come dire: siamo più bravi e prudenti.
Ma ovviamente è il lato delle riforme strutturali quello che più interessa il nostro banchiere, il quale, visto che parlava a Dublino, non si è peritato di additare l’Irlanda come una buona pratica per l’efficienza con la quale ha superato la crisi (?)
Detto in altri termini, bisogna partire da un dato: “Il 45% degli investimenti fissi in Europa è concentrato in settore dove il governo ha una significativa influenza regolatoria e ciò implica che riforme strutturali possano generare un balzo significativo di investimenti” anche nelle economie deboli.
Inoltre, dati i trend demografici europei, servono chiare riforme previdenziali e del mercato del lavoro che consentano di prolungare il tasso di partecipazione al mercato del lavoro: quindi lavorare di più e in numero crescente, anche favorendo i flussi transfrontalieri. Le Germania cerca lavoratori, se interessa, visto che le previsioni Ocse la prevedono in declinante crescita sotto l’1% entro il 2020 proprio a causa della sua situazione demografica.
E di nuovo, “l’Irlanda e un esempio molto concreto di sistema funzionante”. Le riforme del mercato del lavoro hanno fatto riassorbire due punti di disoccupazione (dal 14 al 12% fra il 2012 e il 2013), ma soprattutto “l’Irlada sta implementando il giusto tipo di politiche che miglioreranno la crescita in futuro”. Talché l’Irlanda, che ha ancora diversi problemi, come riconosce lo stesso Mersch, sembra il campo ideale dal quale estrarre suggerimenti per gli altri paesi fragili, visto che l’Europa, dal 1990, si trova in una situazione in cui le necessarie riforme aspettano ancora di essere realizzate.
Ci hanno provato con l’euro, ma a quanto pare la frusta monetaria non è bastata.
Ora magari proveranno con le buone maniere.
La radice sempreverde del mercantilismo europeo
La persistenza della memoria, nella nostra affannata Europa, potrebbe figurarsi in mille vezzi e altrettanti tic. Uno in particolare, tuttavia, merita di essere raccontato con un qualche principio di accuratezza, giacché si è mostrato, nella nostra storia economica, il più persistente di tutti i vezzi e il più diffuso dei tic: il mercantilismo. La nostra radice, si potrebbe dire, che ancora ai giorni nostri genera fioriti virgulti.
Tutti quelli che frequentano le pagine dell’economia sanno quanto sia sfuggente definire compiutamente un movimento di pensiero, peraltro a-sistematico come era il tempo in cui è stato formulato, che affonda le sue radici proprio all’origine del pensare economico europeo, coincidente, non a caso, con l’affermazione degli stati nazionali. Purtuttavia, dovendo discorrerne, commetterò l’errore di semplificare per darne un’idea sintetica, e quindi necesariamente monca.
La sostanza è che la ricchezza delle nazioni, per usare l’espressione cara a Smith, omonima del libro dove criticò per ogni dove proprio la pratica mercantilista, derivava, per tali teorici, dall’aumento delle esportazioni e la diminuizione delle importazioni, quindi da un saldo crescente della bilancia commerciale come manifestazione economica del principio di potenza statale. Tale modo di pensare caratterizzò l’Europa fra il XVI e il XVIII secolo, conducendo a guerre di ogni tipo, commerciali, tramite l’imposizione di dazi, o guerreggiate. Perché un’altra caratteristica del mercantilismo era quella di poggiarsi a uno stato forte e bellicoso, procacciatore di territori dove mercanteggiare da posizione di forza.
Come esempio pratico ed eloquente, valga quello del primo Navigation Act inglese del 1651 o giù di lì, uno degli atti mercantilisti più noti, che finì col condurre alla prima guerra con gli olandesi, che proibì l’importazione di materie prime dalle piantagioni di Asia, Africa e America a meno che non viaggiassero a bordo di navi inglesi. La norma fu reiterata negli anni successivi e basta da sola a spiegare quale sia la logica di questa teoria: proteggere la produzione nazionale grazie a un fattivo supporto statale.
Lo stesso Smith giudicò il Navigation act uno strumento appropriato per difendere l’interesse nazionale, pur tessendo l’elogio del libero commercio.
Senonché Smith scriveva un secolo dopo la legislazione sulla navigazione, in piena fioritura dell’impero inglese. Ed è sicuramente facile essere liberali quando ci si candida a divenire potenza egemone. E quando, qualche anno dopo, Ricardo elaborò la teoria dei vantaggi comparativi, fu tutt’uno arrivare all’ortodossia del commercio libero, laddove ogni paese si specializzava in quello che sapeva fare meglio, per la gioia di tutti, mentre la mano invisibile trasportava le merci nel migliore dei modi possibili (e l’Impero inglese accumulava rendite).
Ci sarebbe da scrivere a lungo sul presupposto imperiale, e vagamente filisteo, di tale filosofia. Notando magari come anche l’altro impero, quello americano, erede di quello inglese, si sia affrettato a metter dazi e fare protezione mercantilista della propria bilancia commerciale non appena conquistata l’indipendenza. Per tacere dei dazi imposti al mondo dopo la crisi del ’29. Salvo poi, dalla metà del XX secolo, divenire a sua volta il campione del liberalismo del blocco occidentale, però comunque sussidiato dal denaro pubblico e incoraggiato dai cannoni.
E che dire di Keynes, che nel terribile 1933, quando gli effetti della deflazione ormai stavano rosicchiando le economie globali, elogiava la pratica mercantilistica decisa da Roosvelt. “Sono stato educato, come tutti gli englishman a rispettare il free trade – scrive fra l’8 e il 15 luglio in un saggio – . ma simpatizzo con quelli che ridurrebbero al minimo gli intrecci economici tra le nazioni. Lasciamo che le merci siano fatte in casa, nel caso in cui sia ragionevolmente possibile e soprattutto rendiamo la finanza un affare primariamente nazionale”.
Abbandoniamo la storia (ma ne riparleremo) e torniamo a oggi. E più precisamente a una istruttiva riflessione pubblicata di recente dalla Banca centrale europea intitolata “The rise of China e India: blessing or curse for the advanced countries?”
Gli economisti della Banca centrale sono provvisti dell’opportuno (e astruso) arsenale di equazioni per arrivare a conclusioni che è utile, ai fini del nostro ragionamento, riepilogare.
Il paper si preoccupa di analizzare il rapporto fra la crescita drammatica dell’export di Cindia degli ultimi anni e il livello di ricchezza dei paesi avanzati, e, segnatamente degli effetti sulla crescita dell’occupazione.
Tralascio le premesse tecniche relative alla costruzione del modello perché sono sicuro che nessuno di voi avrà voglia di perderci tempo. Ricordate però che le conclusioni di una ricerca dipendono sempre dalle premesse: ne sono una semplice conseguenza logica. Ed è nella premesse che si annida il punto debole di ogni teoria.
Detto ciò, vediamo cosa deduce il nostro autore. I punti salienti sono tre: la competizione per conquistare quote di importazioni da Cina e India ha un effetto positivo sui paesi avanzati. La prospettiva di vendere in questi mercati, vale a dire, è un potente stimolo per la ricchezza delle nazioni avanzate.
Punto secondo: la competizione, sia su import che export, genera effetti negativi per l’occupazione impegnata nel settore manifatturiero, ma non per l’occupazione nel suo complesso. Chi produce scarpe può soffrire, chi smercia derivati no, insomma.
Punto terzo: i paesi con una quota ridotta di occupazione nel settore manifatturiero e una bassa protezione del mercato del lavoro hanno beneficiato comparativamente di più degli altri dalla crescita di Cina e India. Cio spiega, ad esempio, perché la Germania o il Lussemburgo stiano meglio di prima.
Ciò basta all’autore per dedurne che, nel complesso, alla domanda se la crescita di Cindia sia una maledizione o una benedizione per i paesi avanzati, si può rispondere che “a conti fatti l’effetto è positivo”. A patto di ricordare però che tali effetti benefici si concentrano in paesi che godono di un mercato del lavoro meno specializzato nel manifatturiero, più flessibile e con un forte collegamento commerciale con Cindia.
Si potrebbe anche dire così: i paesi che si sono specializzati a produrre quello che Cina e India per adesso non producono, e che possono sempre più specializzarsi, godendo del vantaggio di un mcerato del lavoro flessibile, sono quelli che ci guadagnano di più dall’emergere di Cindia.
Ecco che riecheggia la teoria dei vantaggi comparati di Ricardo, secondo la quale Cindia fa bene a produrre nel manifatturiero e i paesi avanzati magari nei servizi (meglio se finanziari magari). Ma, al fondo, il pensiero mercantilista: esportare di più (quindi essere flessibili, a cominciare dal mercato del lavoro) per vivere sempre meglio, anche in un contesto in cui Cindia ha visto crescere la sua quota di export nel mondo dal 4 al 20% fra il 1980 e il 2012, con gli Usa che ormai spendono 500 miliardi di dollari l’anno per importare beni dalla Cina, con i quali la Cina finanzia il crescente deficit della bilancia dei pagamenti americano.
Quanto all’eurozona, le statistiche ci raccontano dei suoi surplus commerciali, che però non mutano la sostanza asfittica della sua crescita. Ma rimangono le esportazioni, così come leggiamo in tutte le dichiarazioni di intenti di politici ed economisti, il driver sul quale la zona euro dovrà puntare per uscire fuori dalle secche dell’eurodepressione.
Comprensibile che sia così, visto che l’austerità deprime la domanda interna, sia pubblica che privata, mentre la deflazione salariale indotta dalla disoccupazione predispone i paesi dell’euro alla meravigliosa flessibilità che si vuole propedeutica alla specializzazione (low cost) settoriale.
Il neomercantilismo europeo, e qui torniamo alla storia, ci riporta in pratica nel magico mondo anteriore alla prima guerra mondiale, quando il capitalismo dipendeva dalle esportazioni e dalla loro competitività e la mano pubblica ancora non figurava nemmeno nella contabilità nazionale, come invece ha iniziato a succedere nel primo dopoguerra, dopo la crisi del ’29 per principale ispirazione americana e per volenterosa applicazione tedesca. Ma questa è un’altra storia che prima o poi sarà divertente raccontare.
D’altronde che il neomercantilismo si sforzi di comprimere la spesa pubblica è comprensibile: gli stati indebitati non hanno più un euro da mettere nell’economia, e qualcuno direbbe che forse è meglio così.
Lo studio della Bce ha il merito, perciò, di riportare un’evidenza: siamo e saremo sempre più condannati ad esportare in Cina, importando un costo del lavoro cinese.
Per notare quanto sia profonda la radice mercantilista della nostra economia, però, vale la pena fare un ultimo tuffo nella storia dedicando l’ultima considerazione proprio alle banche centrali, delle quali la Bce è l’esperimento più avanzato – una banca centrale senza stato – che hanno avuto la loro antesignana nella Banca d’Inghilterra alla fine del XVII secolo, in piena epoca mercantilista. La BoE nacque per finanziare a un costo ridotto le guerre del sovrano inglese, non a caso. In tal senso fu la punta avanzata dello Stato nell’economia. Un’economia di guerra, sarebbe più corretto dire, del tutto coerente con la logica del mercantilismo. In tal senso le banche centrali sono un’avanguardia. Una sorta di ircocervo: metà stato, metà mercato.
E infatti, nel corso dei secoli le banche centrali non hanno fatto altro che difendere (in una logica di guerra) la moneta nazionale manovrando gli afflussi e i deflussi di oro (all’epoca del Gold standard), ossia le importazioni ed esportazioni della moneta-merce. Ma questa raffinata forma di protezionismo finanziario non viene mai analizzata adeguatamente. Si potrebbe scorgerne la natura squisitamente mercantilista di queste entità che oggi sono i nocchieri dell’economia, pubblica e privata.
Chi ha orecchi intenda, diceva il filosofo.
Germania 1-Ue 0: avanza l’Europa (bancaria) tedesca
Sta vedere che dovranno ringraziare la Germania. Quelli, intendo dire, che hanno accumulato risentimento nei confronti dei tedeschi a causa di una distonia nella percezione, secondo la quale esisteva una sorta di patto scellerato fra Germania e Unione europea consumato sulle spalle dei PIIGS in nome dell’austerità.
La vicenda dell’Unione bancaria, ormai agli sgoccioli, dimostra sostanzialmente il contrario. L’accordo raggiunto dall’Ecofin, che dovrà essere ratificato fra oggi e domani dal consiglio dei capi di stato e di governo, si può leggere come una netta vittoria degli stati nazionali, di cui la Germania, volenti o nolenti si è dimostrata il campione, sulle autorità sovranazionali, a cominciare dalla Bce, che infatti ha fatto subito sentire la sua voce tramite Vitor Costancio, secondo il quale serve un processo di decisione più rapido per la risoluzione e un paracadute finanziario (backstop) assai più agile e sicuro di quello immaginato dall’Ecofin.
Che significa questo? Che in pratica la Germania ha ribadito con chiarezza che sono gli stati a decidere cosa fare delle loro banche, ovviamente a cominciare dalle proprie. Non la Bce (che comunque ha nella manica sempre l’asso della supervisione), non la Commissione, tantomeno il board di risoluzione che nascerà dalla costruzione del secondo pilastro dell’unione bancaria (SRM).
Quest’ultimo viene ridotto a un semplice anello di una catena che vede in cima il Consiglio europeo (prima assente dalle bozze normative), la Commissione Ue e le autorità di risoluzione dei singoli paesi, che partecipano al Board. Invece dell’implacabile Risolutore immaginato dai vari banchieri centrali, ossia una struttura assolutamente indipendente e “irresposabile”, ci troviamo di fronte a un bravo scolaro che prepara i dossier e elabora proposte che dovranno passare dalle forche caudine di mezzo mondo prima di essere approvate. E che una volta approvate saranno eseguite dalle autorità nazionali di risoluzione.
Capite bene perché la Bce ha fatto sentire la sua voce in tempo reale.
Dire che l’ultima parola sulla risoluzione spetta agli stati nazionali, seppure il tramite del Consiglio europeo o i propri organismi di risoluzione, significa tradurre nel linguaggio bancario il messaggio politico che ieri la Merkel ha ribadito senza peli sulla lingua, com’è suo costume: “Servono modifiche dei Trattati per avere un meccanismo vincolante per le riforme”. Tali riforme dovranno coinvolgere la Commissione, che però, ha sottolineato, “non dovrà dettare regole, ma deciderle d’intesa con gli stati”. Tanto per capire chi comanda.
Lo stesso principio ha guidato la decisione su chi debba pagare il conto della risoluzione, ammesso che mai si riuscirà a deciderne una.
L’accordo raggiunto prevede che alla fine, fra dieci anni e per gentile concessione tedesca, ci sarà il fondo dedicato richiesto a gran voce da Francia e Italia e dalla stessa Commissione europea. Il Fondo dovrebbe contare su almeno 55 miliardi, alimentandosi con i versamenti delle banche, che si tasseranno in quota crescente al crescere della rischiosità dei propri attivi (e in tal senso sarà interessante vedere come saranno valutati i titoli sovrani). C’è il rischio concreto, insomma, che verranno considerate più rischiose le banche che hanno in pancia titoli sovrani italiani piuttosto che tedeschi. Ma intanto dovranno vedersela sostanzialmente gli stati nazionali, che in compenso hanno accettato di anticipare al 2016 l’entrata in vigore della normativa sui bail-in. Questi ultimi, se non hanno i soldi da mettere nei salvataggi bancari, potranno sempre chiederli al fondo Esm, salvo però una messa sotto tutela alla spagnola. E’ il trionfo del Berliner consensus.
Di nuovo, dalla Germania arriva la conferma della supremazia del principio nazionale di fronte a quello sovranazionale. Il fatto che tale affermazione, che dovrebbe fare la felicità dei tanti che si sono scoperti nazionalisti negli ultimi anni, porti con sé che alla fine sia la nazione più forte a dettare la linea è una simpatica controindicazione. Vorrà dire che ameranno la bundesbank almeno quanto hanno odiato la Bce.
Il nazionalismo, oggi, significa auspicare sostanzialmente la costruzione di un’Europa tedesca. A cominciare dalla banche.
Alla faccia delle buone intenzioni.
Rimane il fatto che questo è solo il primo tempo di una partita più lunga che durerà per tutto l’anno prossimo, durante il quale si svolgerà l’attività preliminare della costituenda supervisione bancaria della Bce.
Dal canto suo la Banca centrale ha l’arma letale della market discipline, che già in passato ha dato grandi soddisfazioni a banchieri e regolatori (spesso le stesse persone). Le cerimonie barocche di Bruxelles rischiano di essere spazzate via al minimo accenno di sopraccigilio alzato da parte della Bce, specie in tempi di tapering.
La crisi dell’euro, “che non è ancora finita”, per usare le parole della Merkel, potrebbe essere la migliore alleata, come lo è sempre stata in passato, dei fautori del sovranazionalismo, costringendo i governi europei a bere calici amari come quello dell’Unione bancaria, che mai sarebbe stato riempito senza l’esplosione della crisi nel 2008.
E sovranazionalismo oggi significa innanzitutto auspicare la resa di Berlino all’accerchiamento neanche troppo dissimulato dei poteri forti di Bruxelles e Francoforte.
Comunque vada a finire questa partita, una cosa è chiara: per noi italiani sarà un insuccesso.
L’eurozona regola i conti con l’estero ma non con se stessa
Il paradosso dell’eurozona è di avere i conti esteri sostanzialmente in buona salute e i conti interni sballati.
Da un parte abbiamo un posizione netta degli investimenti che migliora la sua posizione debitoria e i saldi di conto corrente positivi già da due anni. Dall’altra abbiamo gli sbilanci dei saldi Target 2, che seppure migliorati dall’inizio della crisi, mostrano ancora sostanziali squilibri fra i saldi creditori dei paesi forti, Germania in testa, e quelli debitori dei PIIGS.
Perché succede questo?
E’ una di quelle domanda da un milione di euro.
Prima di provare a delineare una risposta, tuttavia, è utile dare un’occhiata agli ultimi dati diffusi dalla Bce.
A fine 2012 la NIIP (net international investment position) dell’area ha registrato debiti netti per 1,3 trilioni di euro, il 13% del Pil dell’eurozona, in calo di 193 miliardi rispetto al dato del 2011, quando il debiti neti ammontavano al 15,4% del Pil. Per la cronaca, tale risultato è migliore del dato registrato a fine 2007, quindi prima della crisi, quando i debiti netti erano al 14,2% del Pil. L’anno dopo sprofondarono al 17,3%.
Prima di proseguire è utile ricordare cosa sia la NIIP, visto che non tutti lo sanno. In sostanza questo indicatore misura la differenza algebrica fra il valore degli asset esteri di un paese e i suoi debiti (ossia il valore degli asset detenuti da paesi esteri sul suo territorio). Giova sottolinare che la NIIP, che in sostanza dà la misura del debito estero di un paese (di un’area nel caso dell’eurozona), include sia il debito pubblico che quello privato.
Questa definizione da sola dice molto, ma non dice tutto. Per capire se il mio debito estero è fonte di instabilità per un paese, devo andare a vedere il saldo del conto corrente della bilancia dei pagamenti. Una posizione netta negativa sull’estero per gli investimenti, infatti, vedrà un afflusso sul conto finanziario della bilancia dei pagamenti (ingresso di capitali, segno più, quindi debito) e una voce negativa alla voce redditi del conto corrente, visto che ai debiti di solito corrisponde una passività, ossia il pagamento di un interesse ai creditori.
Nell’eurozona, tuttavia, il saldo del conto corrente è positivo.
Nel secondo quarto del 2013, infatti, il saldo cumulato per i quattro trimestri precedenti mostra un surplus di 182,8 miliardi di euro, pari all’1,9% del Pil, in crescita rispetto allo 0,6% (56 miliardi) registrato nell’anno precedente. Tale miglioramento è dovuto all’aumento delle esportazioni di beni (da 44,8 miliardi a 147,6 miliardi di euro), all’aumento della voce redditi (da 41,3 miliardi a 58,4), ossia quella che misura la redditività degli investimenti diretti o di portafoglio dei residenti all’estero, e dei servizi (da 83,8 miliardi a 93,8).
Cosa significa questo?
Che attualmente il debito estero dell’eurozona non è una fonte di instabilità, come dimostrano gli afflussi di capitali sul conto finanziario, e che, malgrado tali afflussi, si sta riducendo.
Ci sono altre cose utili che vale la pena sapere. La prima è che il 20% degli investimenti diretti della zona euro all’estero, che totalizzano 5,9 trilioni, sono negli Stati Uniti e altrettanto nel Regno Unito che ricambiano con il investimenti diretti nell’eurozona pari al 26% (Gli Usa) e al 23% (UK) del loro totale. Un altro 10% si è allocato in Svizzera e solo il 6% in paesi europei non aderenti all’euro. Gli investimenti diretti di non residenti nella zona euro, invece, ammontano complessivamente a 4,4 trilioni.
Gli investimenti di portafoglio degli euroresidenti, che valgono 5,3 trilioni, pesano invece il 31% negli Stati Uniti e il 20% in UK. Una differenza che riflette evidentemente il ruolo di valuta di riserva del dollaro.
Un’altra cosa interessante è che l’aumento di valore degli asset europei detenuti dall’estero, azioni e obbligazioni, nel 2012, ha pesato ben 400 miliardi. Tale aumento di valore corrisponde – di fatto – ad un aumento del debito sottostante a tali obbligazioni,mentre l’andamento del tasso di cambio (in rialzo rispetto al dollari de 2% e rispetto allo yen del 13%) ha pesato solo cinque miliardi in più. In pratica significa che l’eurozona, nel 2012, è stato il paradiso degli investimenti di portafoglio. E infatti, a fine 2012, il totale degli asset di portafoglio detenuti dall’estero è arrivato a quota 8,4 trilioni di euro.
Quindi i paesi esteri hanno investimenti diretti nell’eurozona per 4,4 trilioni e investimenti di portafoglio per 8,4, quasi il doppio.
C’è ancora qualcuno che dubita della supremazia della finanza sull’economia reale?
L’ultima cosa che è utile sapere è che i milglioramenti del saldo di conto corrente, lato merci, sono dovuti principalmente alla diminuizione dei deficit verso gli altri paesi dell’Ue con i quali l’eurozona commercia, passato dal 124,3 miliardi a 54,6, poi verso il Giappone (da 9,6 miliardi a 0,8) e da un aumento del surplus nei confronti del Regno Unito (da 47,1 mld a 58) e degli Stati Uniti (da 68 miliardi a 76,5).
Ciò mostra, scrive la Bce nella sua nota di presentazione, che “i paesi dell’Ue non aderenti all’euro, escluso il Regno Unito, rappresentano il partner primario commerciali dell’eurozona, pesando il 16% del totale dei beni e servizi esportati, seguiti dal Regno Unito e dagli Stati Uniti”.
L’Asia, insomma, è una promessa più che una realtà.
Tutto ciò permette alcune conclusioni.
1) L’eurozona ha corretto via austerità i conti con l’estero, ma al contempo si caratterizza sempre più come una piazza finanziaria. Dall’estero vengono a comprare bond e azioni in Europa perché assicurano buoni rendimenti grazie alla crisi degli spread, ossia ciò che ha provocato l’austerità;
2) I principali partner della zona euro sono altri europei, inglesi compresi, e poi gli americani.
Ora il fatto è che malgrado il sostanziale equilibrio dei conti esteri, l’eurozona è squilibrata al suo interno, dove creditori e debitori non riescono più ad incontrarsi malgrado l’appartenenza a un’area comune.
Vale la pena ricordare che ad agosto 2012 (dato Bankitalia) la posizione debitoria complessiva registrata dai saldi Target 2 di Grecia, Spagna, Irlanda, Italia e Portogallo verso la Bce aveva toccato i 1.000 miliardi, a fronte di crediti per 940 da parte di Germania, Finlandia e Paesi Bassi. L’austerità ha solo leggermente migliorato questo stato di cose. La ripresa della fiducia nei confronti dell’euro, infatti, ha fatto tornare il capitale verso i PIIGS. Denari che sono venuti in parte dagli altri paesi dell’eurozona e in parte dall’estero, come mostra l’andamento degli investimenti di portafoglio esteri nell’eurozona.
Stando così le cose dovrebbe essere chiaro a tutti che sarebbe molto più razionale, anche ai fini dell’equilibrio dei conti esteri dell’eurozona, che fossero i paesi creditori dell’area a investire i loro surplus nei paesi debitori. Ciò consentirebbe di far ripartire il commercio interno e sviluppare ulteriormente le relazioni con gli altri partner non eurodotati, che però sono il nostro principale partner commerciale.
Il problema è che manca lo strumento capace di riattivare questo circuito virtuoso.
La buona notizia è che già in passato, nel secondo dopoguerra, l’Europa si è trovata in questa situazione e ne uscì con un sistema di clearing centralizzato che in pochi anni consentì di far ripartire gli scambi e le economie disastrate di quel tempo.
L’Europa conobbe la sua età dell’oro.
Lo strumento si chiamava Unione europea dei pagamenti.
L’abbiamo dimenticata.
Oltre che con l’estero, l’eurozona dovrebbe imparare a regolare i conti con se stessa.
Citizen Euro. Il Quarto potere dell’eurozona (che non è la stampa)
Se Orson Welles fosse ancora fra noi potrebbe trarre ispirazione da quello che sta accadendo in Europa per aggiornare il suo mitico Citizen Kane in Citizen Euro. Il film che più di tutti ha celebrato il subdolo potere della stampa, il cosiddetto Quarto potere, oggi è il miglior pretesto per celebrare il vero Quarto potere: quello delle banche centrali, e in particolare della Bce.
A differenza della stampa, il cui reale potere è ampiamente sopravvalutato, quello della Banca centrale europea è un potere che ormai gareggia, per non dire che primeggia, con quelli classici della teoria politica, ossia con quello legislativo, esecutivo e giudiziario. E non lo dico io. Lo dice Ewald Nowotny, governatore della Banca centrale austriaca.
Il nostro banchiere ha trattato l’argomento il 10 giugno scorso, nell’ambito della 41° conferenza della banca centrale austriaca che poneva una semplice domanda: “Un cambiamento di ruolo per le banche centrali?”
Il tema parrà a molti esotico o troppo tecnico. Ma non bisogna lasciarsi ingannare dalle apparenze. La partita che i banchieri centrali stanno giocando in Europa, se avranno successo, è destinata a cambiare il volto dell’Ue come la conosciamo adesso, segnando il definitivo tramonto degli stati nazionali, e potrebbe diventare un modello da esportare nel resto del mondo.
Partiamo da un presupposto. Le banche centrali sono un’invenzione recente della storia. Questi istituti hanno iniziato a diffondersi in tutto il mondo nella prima metà del XX secolo. In precedenza esistevano solo in alcuni paesi europei, ma, come ricorda lo stesso Nowotny, in quell’epoca “le banche centrali erano molto interconnesse con i governi nazionali”. In sostanza erano strumenti di supporto alle politiche espansionistiche degli stati nazionali, come d’altronde era stato fin dai tempi della Banca d’inghilterra.
All’epoca non si parlava certo di “indipendenza”.
Senonché, come ha scritto molto efficacemente più d’uno studioso, “le banche centrali sono figlie delle crisi”. O, come ha sottolineato di recente un banchiere centrale, “le crisi sono occasioni che un peccato sprecare”.
Infatti la prima grande evoluzione della banche centrali si conosce nei primi trent’anni del XX secolo. In America, dopo l’ennesima crisi finanziaria, nel 1913 viene fondata la Fed, mentre dopo la prima guerra mondiale si assiste a un fiorire di banche centrali nel resto del mondo. Il terribile periodo della super inflazione post bellica da a queste banche il diritto/dovere di fare quanto è necessario. Ma a quei tempi la connessione di queste entità con gli stati nazionali è ancora strettissima: le politiche deflazionarie che condussero alle crisi devastanti degli anni ’30 dipendono dalla volontà degli stati di tornare al gold standard, pure nella forma “mitigata” del gold exchange standard, che non dalla volontà delle banche centrali. A quest’ultime si disse solo di tenere sotto controllo la politica monetaria per evitare il ripetersi di fenomeni inflattivi così devastanti.
“E solo nella parte finale del XX secolo – ricorda Nowotny – che osserviamo una crescente enfasi sull’autonomia istituzionale delle banche centrali”. Anche stavolta, a fare da levatrice di queste piccola rivoluzione fu la crisi. In particolare quella provocata dalla stagflazione, che minò alle fondamenta il principio per il quale le banche centrali dovevano compare i titoli del loro stato per sostenere la finanza pubblica. Si disse all’epoca che era stata questa una delle ragioni dell’indisciplina fiscale degli stati, e di conseguenza, bisognava porvi fine.
Nel nostro Paese, per fare un esempio, ancora nel 1973 l’allora Governatore della Banca d’Italia Guido Carli si chiedeva se non fosse un atto di sedizione non comprare i titoli di stato, visto che con quegli acquisti si pagavano gli stipendi e le pensioni. Nel 1981, appena otto anni dopo, si arriva al “divorzio” che mise fine a questa pratica.
L’autonomia della Banca centrale diventa un dogma. Con la creazione della Bce tale dogma viene scritto sui trattati e diventa legge.
E proprio qua sta il punto.
Perché il quarto potere della Banca centrale abbia fondamento deve poggiarsi su una materia più solida delle mutevoli opinioni dei politici, tantomeno quelli degli stati nazionali. Occorre l’ancoramento alla legge sovranazionale. E quanto più tale legge è difficile da cambiare, tanto più funziona. Col vantaggio che ogni contenzioso, ad esempio su una decisione della Bce, non viene discusso sul tavolo della politica, ma della magistratura. Come nel caso delle attese decisioni della Corte costituzionale tedesca sull’ESM.
E’ la Repubblica dei giudici e dei banchieri.
Questa simpatica deriva “platonica” della costruzione europea non è storia di oggi. O meglio, oggi si palesa una tendenza innescata in Europa sin dal dopoguerra.
Il seme venne piantato dagli alleati nella Germania dell’Ovest, quando si inventò dal nulla una banca centrale a struttura federale, la Bank Deutscher Lander, totalmente indipendente dal nascente governo tedesco ma soggetta alle direttive della commissione bancaria alleata.
Ai politici tedeschi, ieri come oggi, questa entità piace poco.
Nel 1956, Konrad Adenauer lamentava che “la banca centrale è totalmente sovrana nei suoi rapporti col governo, essa è responsabile solo verso se stessa. Ecco quindi un organismo che non è responsabile nei confronti di alcuno, né del Parlamento, né tantomeno del governo”.
E’ in quegli anni che nasce il Quarto potere europeo.
Un anno dopo la BdL cambia nome.
Nasce la Bundesbank.
“A livello europeo – ricorda Nowotny – l’indipendenza della Bce fu rafforzata dall’esempio della Bundesbank, che fu un elemento chiave del Rapporto Delors che preparò l’assetto istituzionale della Bce”. Il risultato è che “oggi si può dire che la Bce è probabilmente la banca centrale più indipendente del mondo perché la sua indipendenza è scritta nei trattati e ogni cambiamento nei trattati è estremamente difficoltoso e improbabile”.
Oggi la Bce ha ottenuto la supervisione bancaria e si avvia a diventare uno dei protagonisti anche del meccanismo di risoluzione insieme con la Commissione UE alla base dell’Unione bancaria. La sua indipendenza è vieppiù rafforzata dal non avere uno stato alle spalle. Ciò la mette al centro di tutti i processi globali senza avere la seccatura, come ad esempio ha la Fed, di doversi occupare della politica economica dello stato che la ospita, appunto perché uno stato “concorrente” non ce l’ha.
Con la banca centrale europea, fatto davvero storico, si celebra il divorzio politico dallo stato nazionale. Fatto assai più rilevante della semplice circostanza che viene vietato il finanziamento dei deficit pubblici.
A livello della Bce dei quattro poteri declinati da Nowotny – central banking, giuridico, legislativo ed esecutivo – ne rimangono solo due: quello del central banking e quello giuridico.
Alla fine ne rimarrà uno solo.
L’Eurozona (dis)integrata dagli “sbilanci” nei pagamenti
Sono ancora un volta loro i grandi protagonisti del tormento che ormai da anni affligge l’eurozona. Li abbiamo chiamati gli “sbilanci” nei pagamenti, ovvero gli squilibri esteri degli stati. Debiti e crediti destinati a non incontrarsi mai e generatori di crisi via via peggiori, che la finanza cerca, più o meno maldestramente, di annacquare utilizzando la leva della liquidità.
Il problema, lo abbiamo già visto, è globale. Ma il caso dell’eurozona è doppiamente interessante. Primo perché, in quanto aggregato, monetario ed economico se non sociale, partecipa a questi squilibri globali. Secondo perché al suo interno non solo ha replicato questa situazione distorta, ma l’ha pure complicata avendo fissato il cambio con le vecchie valute nazionali.
Per farla semplice, mentre il Giappone può svalutare (come ha fatto) lo Yen del 20-30 per cento in pochi mesi rispetto al dollaro per rilanciare il suo export, i singoli paesi dell’eurozona non possono farlo. Può farlo l’area nel suo complesso, sempre che trovi un’intesa politica fra i suoi 17 stati e che la Bce sia d’accordo.
Il paradosso dell’eurozona, tuttavia, è un altro. Ossia che gli “sbilanci” nei pagamenti siano esplosi con l’integrazione monetaria, e che oggi tali “sbilanci” persistano, malgrado la dichiarata intenzione di sanarli, senza che nessuno sappia bene come intervenire.
L’altro paradosso dell’eurozona, oggi, è che proprio tali “sbilanci” siano diventati lo spauracchio utilizzato per proseguire il processo di integrazione, stavolta per via bancaria (con la vigilanza alla Bce) dopo un decennio di integrazione monetaria.
Come dire: ciò che separa unisce.
L’eurozona, potremmo dire, persegue l’integrazione bordeggiando la dis-integrazione.
Per capire come tutto ciò non sia astratto, basta leggere la parte della relazione della Banca d’Italia dedicata proprio alla bilancia dei pagamenti dell’area euro.
I numeri parlano chiaro. Nel suo complesso il saldo di conto corrente dell’eurozona, nel 2012, ha archiviato un surplus positivo di 116 miliardi, guidato dal calo delle importazioni e dai deflussi dal conto finanziario, provocato dal crollo degli investimenti di portafoglio verso la zona euro, passati dai 252 miliardi del 2011 ad appena 52 miliardi nel 2012.
A livello di area, invece, nota la Banca d’Italia, “non si sono ridotti gli ingenti avanzi in Germania e nei Paesi Bassi”, malgrado i miglioramenti dei disavanzi del Pigs.
In particolare, nel 2012 si sono ridotti i deficit delle partite correnti della Grecia (dai 20,6 miliardi del 2007 a 6 miliardi), del Portogallo (da 12 miliardi a 2,6), della Spagna (da 39,8 a 11,3), dell’Italia (da 48,3 miliardi a 8,4) e dell’Irlanda, che ha aumentato il suo surplus da 1,8 a 8,1 miliardi.
Per converso “l’ingente avanzo della Germania si è ulteriormente ampliato, da 161,2 a 185 miliardi, il 7% del Pil, e quello dei Paesi Bassi è rimasto stabile, da 61 miliardi a 59,7, il 9,9% del Pil”. La crisi, insomma, ha giovato ai paesi che stavano già bene, mentre si è scaricata su quelli più deboli.
La cura dell’austerità ha “riparato” i conti esteri dei paesi deboli, ma solo grazie “alla caduta delle importazioni e al rallentamento dei prezzi alle importazioni”. “In Grecia, Portogallo e Spagna – aggiunge Bankitalia – il miglioramento del saldo di conto corrente ha beneficiato inoltre del disavanzo nei redditi dovuta principalmente alle minori uscite per interessi sui titoli di debito”.
La Germania, insomma, replica nell’eurozona il ruolo di Grande Creditore che, a livello globale abbiamo visto interpretato dai paesi asiatici, Cina in testa, e dagli esportatori di petrolio. Basti considerare che “la somma dei surplus sul conto corrente accumulata dalla Germania fra il 2003 e il 2012 ha raggiunto il 52% del Pil, di cui poco più della metà all’interno dell’unione monetaria, dopo aver toccato il picco del 70% del Pil nel 2009 ed esser sceso al 32% nel 2012”.
Il calo dell’import dei Pigs, insomma, ha picchiato duramente sull’export tedesco. Proprio come ha pesato notevolmente su quello cinese e giapponese il calo dell’import americano.
Per capire quanto il microcosmo dell’eurozona replichi pedissequamente quello che succede a livello globale, basta considerare un altra circostanza. “Fino al 2007, scrive Bankitalia – all’avanzo di conto corrente della Germania avevano corrisposto investimenti finanziari netti all’estero sotto forma di prestiti, depositi e altri investimenti, soprattutto nel settore bancario. A partire dal 2008 il settore privato tedesco ha invece fortemente ridotto gli investimenti all’estero (quindi soprattutto nei Pigs, ndr)”. Questi soldi sono finiti in un aumento della posizione creditoria del settore privato tedesco verso la Bundesbank e di quest’ultima verso la Bce, con la conseguenza che i saldi Target 2 sono esplosi.
Nell’agosto 2012 la posizione debitoria di Piigs verso la Bce aveva raggiunto quota 1000 miliardi, a fronte di 940 miliardi di crediti vantati da Germania, Finlandia e Paesi Bassi. Ciò spiega bene perché il processo di (dis)integrazione europea sia guidato da questi stati.
L’intervento della Bce e la relativa attenuazione della crisi finanziaria ha ridotto questi squilibri, ma non li ha eliminati. Il saldo Target positivo della Bundesbank è sceso dal picco di 751,4 miliardi dell’agosto 2012 a 607,9. E’ bastato questo a tranquillizzare gli animi.
Ma è una quiete transitoria. Anche perché finora è mancata una risposta chiara su come tali “sbilanci” debbano essere affrontati. Finora ci si è limitati all’approvazione del six-pack, un pacchetto di regole che rafforza il coordinamento delle regole di bilancio europeo, ed è stata avviata una procedura di sorveglianza sugli stati, che fornisce la base dati per un rapporto della commissione europea (l’ultimo è stato pubblicato il 28 novembre 2012) che monitora le condizioni di squilibrio.
Il risultato è stato che, a parte l’Italia, anche gli altri 16 paesi dell’eurozona, “compresa Francia e Germania, superano il livello di attenzione per tali indicatori”. Insomma: è globale.
L’ultimo aggiornamento della commissione Ue è arrivato il 10 aprile scorso. Oltre a rilevare che c’è stato “un miglioramento delle posizioni debitorie”, viene sottolineata “la necessità di migliorare la competitività, sia di prezzo che legata ad altri fattori”. I quali, non potendo essere quelli del cambio, non possono che essere quelli del produzione, ossia il costo del lavoro per cominciare.
Conclusione. Gli squilibri dell’eurozona non sono facilmente sanabili se non a prezzo di dure correzioni, innanzitutto sociali. La Bce spinge per un maggior coordinamento bancario, per evitare tensioni finanziarie, mentre prevale la disciplina del fiscal compact per i bilanci pubblici, che rischia di aggravare ulteriormente le tensioni sociali, mentre è chiaro che dovrebbe approvarsi una disciplina che sani gli squilibri esteri.
I precedenti storici non mancano. Basta ricordare l’Unione europea dei pagamenti, che negli anni ’50, corresse senza traumi gli squilibri dei pagamenti intra-europei. Funzionò tanto bene, che venne chiusa.
E’ difficile sapere oggi a cosa condurranno gli “sbilanci” fra gli Stati del Sud e gli Stati del Nord. Se il pericoloso esperimento di perseguire l’integrazione tramite il rischio della dis-integrazione avrà successo oppure no.
Per il momento l’unica cosa chiara è che la tensione dei paesi del Sud contro quelli del Nord sta aumentando, e viceversa.
Sullo sfondo si intravede germinare il seme di un conflitto già capitato altrove in un altro tempo.
Forse l’Europa dovrà conoscere la sua guerra di secessione.