Etichettato: squilibri dell’eurozona

L’Eurozona (dis)integrata dagli “sbilanci” nei pagamenti

Sono ancora un volta loro i grandi protagonisti del tormento che ormai da anni affligge l’eurozona. Li abbiamo chiamati gli “sbilanci” nei pagamenti, ovvero gli squilibri esteri degli stati. Debiti e crediti destinati a non incontrarsi mai e generatori di crisi via via peggiori, che la finanza cerca, più o meno maldestramente, di annacquare utilizzando la leva della liquidità.

Il problema, lo abbiamo già visto, è globale. Ma il caso dell’eurozona è doppiamente interessante. Primo perché, in quanto aggregato, monetario ed economico se non sociale, partecipa a questi squilibri globali. Secondo perché al suo interno non solo ha replicato questa situazione distorta, ma l’ha pure complicata avendo fissato il cambio con le vecchie valute nazionali.

Per farla semplice, mentre il Giappone può svalutare (come ha fatto) lo Yen del 20-30 per cento in pochi mesi rispetto al dollaro per rilanciare il suo export, i singoli paesi dell’eurozona non possono farlo. Può farlo l’area nel suo complesso, sempre che trovi un’intesa politica fra i suoi 17 stati e che la Bce sia d’accordo.

Il paradosso dell’eurozona, tuttavia, è un altro. Ossia che gli “sbilanci” nei pagamenti siano esplosi con l’integrazione monetaria, e che oggi tali “sbilanci” persistano, malgrado la dichiarata intenzione di sanarli, senza che nessuno sappia bene come intervenire.

L’altro paradosso dell’eurozona, oggi, è che proprio tali “sbilanci” siano diventati lo spauracchio utilizzato per proseguire il processo di integrazione, stavolta per via bancaria (con la vigilanza alla Bce) dopo un decennio di integrazione monetaria.

Come dire: ciò che separa unisce.

L’eurozona, potremmo dire, persegue l’integrazione bordeggiando la dis-integrazione.

Per capire come tutto ciò non sia astratto, basta leggere la parte della relazione della Banca d’Italia dedicata proprio alla bilancia dei pagamenti dell’area euro.

I numeri parlano chiaro. Nel suo complesso il saldo di conto corrente dell’eurozona, nel 2012, ha archiviato un surplus positivo di 116 miliardi, guidato dal calo delle importazioni e dai deflussi dal conto finanziario, provocato dal crollo degli investimenti di portafoglio verso la zona euro, passati dai 252 miliardi del 2011 ad appena 52 miliardi nel 2012.

A livello di area, invece, nota la Banca d’Italia, “non si sono ridotti gli ingenti avanzi in Germania e nei Paesi Bassi”, malgrado i miglioramenti dei disavanzi del Pigs.

In particolare, nel 2012 si sono ridotti i deficit delle partite correnti della Grecia (dai 20,6 miliardi del 2007 a 6 miliardi), del Portogallo (da 12 miliardi a 2,6), della Spagna (da 39,8 a 11,3), dell’Italia (da 48,3 miliardi a 8,4) e dell’Irlanda, che ha aumentato il suo surplus da 1,8 a 8,1 miliardi.

Per converso “l’ingente avanzo della Germania si è ulteriormente ampliato, da 161,2 a 185 miliardi, il 7% del Pil, e quello dei Paesi Bassi è rimasto stabile, da 61 miliardi a 59,7, il 9,9% del Pil”. La crisi, insomma, ha giovato ai paesi che stavano già bene, mentre si è scaricata su quelli più deboli.

La cura dell’austerità ha “riparato” i conti esteri dei paesi deboli, ma solo grazie “alla caduta delle importazioni e al rallentamento dei prezzi alle importazioni”. “In Grecia, Portogallo e Spagna – aggiunge Bankitalia – il miglioramento del saldo di conto corrente ha beneficiato inoltre del disavanzo nei redditi dovuta principalmente alle minori uscite per interessi sui titoli di debito”.

La Germania, insomma, replica nell’eurozona il ruolo di Grande Creditore che, a livello globale abbiamo visto interpretato dai paesi asiatici, Cina in testa, e dagli esportatori di petrolio. Basti considerare che “la somma dei surplus sul conto corrente accumulata dalla Germania fra il 2003 e il 2012 ha raggiunto il 52% del Pil, di cui poco più della metà all’interno dell’unione monetaria, dopo aver toccato il picco del 70% del Pil nel 2009 ed esser sceso al 32% nel 2012”.

Il calo dell’import dei Pigs, insomma, ha picchiato duramente sull’export tedesco. Proprio come ha pesato notevolmente su quello cinese e giapponese il calo dell’import americano.

Per capire quanto il microcosmo dell’eurozona replichi pedissequamente quello che succede a livello globale, basta considerare un altra circostanza. “Fino al 2007, scrive Bankitalia – all’avanzo di conto corrente della Germania avevano corrisposto investimenti finanziari netti all’estero sotto forma di prestiti, depositi e altri investimenti, soprattutto nel settore bancario. A partire dal 2008 il settore privato tedesco ha invece fortemente ridotto gli investimenti all’estero (quindi soprattutto nei Pigs, ndr)”. Questi soldi sono finiti in un aumento della posizione creditoria del settore privato tedesco verso la Bundesbank e di quest’ultima verso la Bce, con la conseguenza che i saldi Target 2 sono esplosi.

Nell’agosto 2012 la posizione debitoria di Piigs verso la Bce aveva raggiunto quota 1000 miliardi, a fronte di 940 miliardi di crediti vantati da Germania, Finlandia e Paesi Bassi. Ciò spiega bene perché il processo di (dis)integrazione europea sia guidato da questi stati.

L’intervento della Bce e la relativa attenuazione della crisi finanziaria ha ridotto questi squilibri, ma non li ha eliminati. Il saldo Target positivo della Bundesbank è sceso dal picco di 751,4 miliardi dell’agosto 2012 a 607,9. E’ bastato questo a tranquillizzare gli animi.

Ma è una quiete transitoria. Anche perché finora è mancata una risposta chiara su come tali “sbilanci” debbano essere affrontati. Finora ci si è limitati all’approvazione del six-pack, un pacchetto di regole che rafforza il coordinamento delle regole di bilancio europeo, ed è stata avviata una procedura di sorveglianza sugli stati, che fornisce la base dati per un rapporto della commissione europea (l’ultimo è stato pubblicato il 28 novembre 2012) che monitora le condizioni di squilibrio.

Il risultato è stato che, a parte l’Italia, anche gli altri 16 paesi dell’eurozona, “compresa Francia e Germania, superano il livello di attenzione per tali indicatori”. Insomma: è globale.

L’ultimo aggiornamento della commissione Ue è arrivato il 10 aprile scorso. Oltre a rilevare che c’è stato “un miglioramento delle posizioni debitorie”, viene sottolineata “la necessità di migliorare la competitività, sia di prezzo che legata ad altri fattori”. I quali, non potendo essere quelli del cambio, non possono che essere quelli del produzione, ossia il costo del lavoro per cominciare.

Conclusione. Gli squilibri dell’eurozona non sono facilmente sanabili se non a prezzo di dure correzioni, innanzitutto sociali. La Bce spinge per un maggior coordinamento bancario, per evitare tensioni finanziarie, mentre prevale la disciplina del fiscal compact per i bilanci pubblici, che rischia di aggravare ulteriormente le tensioni sociali, mentre è chiaro che dovrebbe approvarsi una disciplina che sani gli squilibri esteri.

I precedenti storici non mancano. Basta ricordare l’Unione europea dei pagamenti, che negli anni ’50, corresse senza traumi gli squilibri dei pagamenti intra-europei. Funzionò tanto bene, che venne chiusa.

E’ difficile sapere oggi a cosa condurranno gli “sbilanci” fra gli Stati del Sud e gli Stati del Nord. Se il pericoloso esperimento di perseguire l’integrazione tramite il rischio della dis-integrazione avrà successo oppure no.

Per il momento l’unica cosa chiara è che la tensione dei paesi del Sud contro quelli del Nord sta aumentando, e viceversa.

Sullo sfondo si intravede germinare il seme di un conflitto già capitato altrove in un altro tempo.

Forse l’Europa dovrà conoscere la sua guerra di secessione.