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Weidmann, ovvero il primato della politica (della Buba)


Leggo ogni volta con piacere le sempre più frequenti esternazioni dei nostri banchieri centrali, in difetto di argomenti di un qualche interesse che provengano da coloro che dovrebbero esser deputati ad occuparsi del futuro comune, quindi i politici, e che invece si occupano pressoché in esclusiva del proprio.

Per dirla in altro modo, finché i politici continueranno a chiacchierare di sé, e il dibattito politico di conseguenza a incardinarsi sull’incarichificio a cui si è ridotta la politica nazionale, tanto vale occupare il tempo leggendo quelli che la politica – nel senso di polis – la fanno sul serio. Si capisce molto di più e si impara pure qualcosa.

Fra i miei banchieri centrali preferiti, per la sua inossidabile antipatia teutonica e il suo piglio franco e ruvido, primeggia Jens Weidmann, governatore della Bundesbank, del quale ogni uscita pubblica è fonte di grande curiosità (e timore) proprio in virtù del suo ruolo di sostanziale azionista di maggioranza della Bce.

Weidmann è quasi garanzia di una robusta polemica, specie in casa nostra. Quindi bisogna leggerlo per capire l’aria che tira e, soprattutto, quella che tirerà.

Ma bisogna leggerlo anche un altro motivo. Il banchiere centrale tedesco, infatti, non  si perita affatto di evidenziare come fondamentale quello che molti osservatori, a casa nostra, lamentano come una grave perdita per il Paese: il primato della politica.

Quest’osservazione si deduce leggendo uno dei tanti interventi pubblicati dal loquace banchiere tedesco qualche settimana addietro (Of dentists and economists – the importance of a consistent economic policy framework) recitato a Karlsruhe, sede della Corte costituzionale tedesca, che proprio in quei giorni stava decidendo sulla sorte della causa contro l’OMT di Draghi che poi, come sappiamo, è finita sul tavolo della Corte di giustizia europea del Lussemburgo.

In questo lungo e articolato intervento Weidmann sottolinea il profondo e duraturo legame che lega (o dovrebbe sempre più legare) economisti e giuristi nell’elaborazione delle leggi, forte dell’ispirazione ordoliberale della sua Bundesbank, alla cui scuola (quella di Friburgo) Weidmann si richiama espressamente.

Peraltro che il potere politico “ufficiale” sia ormai un mero esecutore di decisione prese dai tecnici, giuristi in testa, è chiaro fin dagli albori della Comunità europea, che rivela la sua natura di organismo giuridico, e quindi politico, fin dalla sua istituzione.

In tal senso il primato della politica europea è assicurato dal suo essere sostanzialmente subordinato alla tecnica giuridica ed economica. Non a caso Weidmann cita, in epigrafe al suo intervento, una celebre battuta di Paul Samuelson: “Non mi importa chi scrive le leggi, se posso scriverne i contenuti economici”. O, per dirla con le parole di Weidmann, “per capire quanto possa essere fruttuoso lo scambio di idee fra economisti e giuristi si può esaminare un concetto che ha avuto una grande importanza della politica economica tedesca: quello della regolazione”.

Ed ecco l’eredità ordoliberale, che punta sulla competizione, “non nel senso classico, ma nel senso di una ordinata e protetta competizione”. Ritroviamo in queste parole la radice sempreverde del nostro mercantilismo. Ossia l’importanza dell’intervento dello stato nelle faccende economiche anche se solo per costruire le cornice di regole in cui la competizione deve svolgersi. La cosiddetta economia sociale di mercato, versione omeopatica dei vari socialismi che hanno attraversato il nostro continente negli ultimi centocinquant’anni.

I banchieri centrali, infatti, e Weidmann è l’alfiere di questa categoria, rivendicano con forza il primato della politica sui mercati. Cos’altro è se non politica l’affermazione secondo la quale le banche centrali non devono farsi condizionare dai mercati nelle loro decisioni?

Weidmann ha sottolineato tale punto di vista in un altro intervento, il 14 febbraio scorso, al tradizionale Schaffermahlzeit di Brema, nel corso di uno di quegli incontri che servono per parlare a nuora affinché suocera intenda.

Con l’occasione ha discusso anche della sentenza della Corte costituzionale tedesca sull’OMT, ribadendo le sue critiche alla Bce e avvertendo che la partita non è ancora chiusa e che “sarebbe saggio, per i policymaker, non basare sulle reazioni del mercati le proprie decisioni”.

I mercati, quindi, ossia il grande “avversario” di tutti coloro che rivendicano il primato della politica, scambiandola col primato della marchetta.

Ecco Weidmann ribadire esattamene lo stesso concetto.

E’ un caso?

Solo per i distratti. I banchieri centrali, in particolare quelli europei, lo abbiamo visto più volte, sono la punta avanzata di un progetto egemonico che basa sulla regolazione finanziaria (controllo dei mercati) e la market discipline (controllo di stati e banche commerciali) il suo dipanarsi. L’euro stesso è perfettamente coerente con questo disegno. E l’Unione bancaria un altro passo fondativo, come più volte è stato rivendicato dagli stessi banchieri centrali, di una più perfetta Unione, per dirla con le parole di Draghi.

Ciò spiega pure perché Weidmann abbia tranquillamente dichiarato in un’intervista alla FAZ che una patrimoniale, in caso di difficoltà è il male minore per salvare uno Stato. Vi sembra abbastanza politica, come affermazione?

A me sì. Così come è politico il principio del bail in, e la decisione, peraltro contraria a quella presa dalla politica ufficiale, di stressare i bond sovrani nella fase preparatoria della supervisione centralizzata come annunciato dalla Bce.

Quest’altro primato, che potremmo definire come primato della “buona” politica (in sostanza quella della Buba) sulla politica stessa, ossia su quella degli stessi governi e parlamenti, viene chiaramente delineato sempre nell’intervento di cui abbiamo parlato in apertura, quando Weidmann affronta la questione delle politiche fiscali.

“L’esperienza teorica e storica – dice – mostrano che finanze pubbliche in buona salute sono garanzie di una politica monetaria di successo, specie nelle unioni monetarie. Questa è una ragione per creare regole comuni di politica fiscale”. Senonché, le questioni fiscali hanno a che fare con decisioni redistributive. Il che, sottolinea il banchiere, “richiede una legittimazione democratica”. Sempre in omaggio al primato della politica. In questo caso quella tedesca, come sempre la Corte costituziona locale non ha mancato di rimarcare nella sua decisione sul fondo Esm.

Inoltre, “visto che i parlamenti hanno sovranità fiscale, e quindi far agire uno staff indipendente è difficilmente praticabile, è possibile solo fissare alcuni limiti, ad esempio un tetto all’indebitamento”. Vedi fiscal compact. O la regola del deficit al 3%.

Ma anche qui l’esperienza non conforta il nostro banchiere. La stessa Germania, osserva, ha violato le regole e la Commissione europea si è dimostrata troppo morbida, in passato, ma anche in occasione della crisi. Mentre Weidmann è convinto che “l’euro area può continuare a esistere nel lungo periodo solo se incorpora un principio chiave della regolazione: il principio di responsabilità”.

Ed ecco che tutto torna: il bail in, l’eventuale patrimoniale, i bond sovrani sotto stress, e tutto quello che richiederà la diffusione capillare del principio di responsabilità che, secondo Weidmann, è ciò che occorre all’eurozona per fare il salto di qualità.

“Per restaurare il principio della responsabilità – dice – abbiamo due possibilità: o spostiamo la sovranità fiscale a livello sovranazionale, creando l’Unione fiscale, o rafforziamo la responsabilità dei singoli stati includendo fra le eventualità anche quella che possano fallire senza causare il collasso del sistema“. Al contrario, conclude, l’attuale equilibrio fra responsabilità e controllo è sballato “ed è probabile crei altri problemi nel lungo periodo”.

Gli amanti del primato della politica, perciò, dovrebbero essere estimatori di Weidmann, visto che il banchiere affida una grande responsabilità al potere di governo e parlamenti, limitandosi a ricordare loro che farebbero meglio ad ascoltare economisti ed avvocati, se vogliono fare la cosa giusta. Anche, al limite, far fallire uno stato.

Da questo punto di vista, il primato della politica che Weidmann cerca di affermare è essenzialmente quello della Buba.

Politica perfettissima, quindi.

Infatti non prevede elezioni.

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L’anno (bancario) che verrà


La chiusura dell’accordo sull’Unione bancaria è la degna conclusione di un anno (bancario) vissuto pericolosamente per l’eurozona. Ma allo stesso tempo conferma che le banche saranno le grandi protagoniste anche dell’anno che verrà.

Il 2014 in tal senso sarà un anno di preparazione e di riorganizzazione dell’intero settore bancario in vista dell’avvio della supervisione unificata della Bce, da una parte, e dell’attivazione degli altri due pilastri dell’Unione bancaria, ossia il meccanismo di risoluzione e quello di garanzia dei depositi, previsto per il primo gennaio 2015. Sempre che l’europarlamento approvi le norme relative.

Allo stesso tempo, il 2014 sarà anche l’anno del tapering della Fed. La Banca centrale americana ha già annunciato che inizierà a ridurre gli acquisti di bond di dieci miliardi di dollari al mese e i mercati, che al momento hanno assorbito la notizia senza problemi, dovranno farci i conti. Le tensioni, come già accaduto in passato, potrebbero scaricarsi innanzitutto sui paesi emergenti. Ma è evidente che qualora la mossa della Fed fosse maldigerita dai mercati gli effetti sarebbero evidenti anche nell’eurozona, proprio nell’anno in cui la zona euro spera di tornare alla crescita.

Il combinato disposto Fed-Unione bancaria, con il suo portato di asset quality review sugli asset bancari europei, rischia di avere effetti notevoli nel settore bancario dell’eurozona. Non a caso qualche settimana fa Vitor Constancio, parlando a Dublino, abbia detto che non sarebbe sorpreso se il meccanismo di supervisione “inaugurasse un periodo di ristrutturazioni”. Detto in soldoni, una bella stagione di fusioni e acquisizioni, magari con le banche più forte e meno esposte su bond sovrani “rischiosi” nel ruolo di aggregatori.

E qui veniamo ai casi nostri. Le banche italiane è inevitabile finiscano sotto tensione, visto l’orientamento restrittivo annunciano dalla Bce sulla valutazione del rischio dei bond sovrani, di cui le nostre banche sono imbottite. Se si applicassero le regole di Basilea III ai 400 miliardi stimati di titoli di stato italiani in mano alle banche (anziché quelle più favorevoli previste dalla legislazione europea), queste ultime si potrebbero vedere costrette a mettere da parte capitale per una cifra che potrebbe oscillare fra i 6 e i 16 miliardi, a seconda della classe di rating alla quale si farà riferimento. Hai voglia a ricapitalizzare Bankitalia. O, in alternativa, dovrebbero vendere i titoli di stato, con effetti deleteri sul nostro bilancio pubblico.

Perché poi questo è il problema, che tutti dicono di voler risolvere: il famoso collegamento fra banche residenti e debito sovrano. Se le banche italiano vanno in affanno, anche il bilancio dello stato ne risente, sia direttamente, perché può venir meno uno dei principali acquirenti dei suoi titoli, sia indirettamente, perché può essere costretto a ricapitalizzarle, visto che il fondo di risoluzione dell’Unione bancaria non si vedrà prima del 2025.

In questo senso il 2014 potrebbe essere un anno orribile per il bilancio dello stato italiano, già alle prese con una correzione del deficit basata sulla scommessa di uno spread in calo.

Ma le tensioni non riguarderanno solo le grandi banche. 

Le piccole stanno pure peggio.

Queste ultime in particolare, responsabili grossomodo di circa la metà del credito erogato alle Pmi, sono diventate oggetto delle preoccupazioni della Banca d’Italia, secondo quanto riporta il Financial Times, che ipotizza che si arriverà a un consolidamento del settore bancario italiano entro la metà del 2014.

Alcuni analisti stimano che sia probabile addirittura la creazione di una bad bank con 10-12 miliardi di capitale (presi dove?) dove far confluire tutti i crediti incagliati delle banche medio-piccole. E in questa complessa partita giocherà di sicuro un ruolo la decisione del governo di rivalutare le quote di Bankitalia, fortemente voluta dalle banche proprio per passare con maggiore sicurezza l’esame della Bce, il cui provvedimento relativo è ancora all’esame delle Camere e in attesa del parere della Bce. Che non è vincolante, come ripete sempre il ministro Saccomanni, però pesa e, soprattutto, ritarda. Specie se è vero, come riportano le cronache, che la Bundesbank si è messa di traverso.

Le banche italiane, insomma, non saranno semplici protagoniste ma saranno in prima linea dell’anno che verrà.

Alla riorganizzazione interna, infatti, è assai probabile seguirà una riorganizzazione intereuropea, con le nostre banche nel ruolo di facili prede, visto che sono imbottite di sofferenze e titoli di stato italiani e quindi a serio rischio di patrimonializzazione.

La cronaca ci dirà se il 2014 sarà l’anno in cui verrà meno l’ultimo baluardo del nostro sistema produttivo, ossia quello finanziario, da tempo oggetto delle amorevoli attenzioni dei giganti europei. Non sarà necessario aspettare l’Unione bancaria per spezzare il nesso fra debito sovrano e banche. Basterà una robusta migrazione di pacchetti azionari.

In ogni caso, auguri.

Ci rivediamo il 13 gennaio 2014.

Germania 1-Ue 0: avanza l’Europa (bancaria) tedesca


Sta vedere che dovranno ringraziare la Germania. Quelli, intendo dire, che hanno accumulato risentimento nei confronti dei tedeschi a causa di una distonia nella percezione, secondo la quale esisteva una sorta di patto scellerato fra Germania e Unione europea consumato sulle spalle dei PIIGS in nome dell’austerità.

La vicenda dell’Unione bancaria, ormai agli sgoccioli, dimostra sostanzialmente il contrario. L’accordo raggiunto dall’Ecofin, che dovrà essere ratificato fra oggi e domani dal consiglio dei capi di stato e di governo, si può leggere come una netta vittoria degli stati nazionali, di cui la Germania, volenti o nolenti si è dimostrata il campione, sulle autorità sovranazionali, a cominciare dalla Bce, che infatti ha fatto subito sentire la sua voce tramite Vitor Costancio, secondo il quale serve un processo di decisione più rapido per la risoluzione e un paracadute finanziario (backstop) assai più agile e sicuro di quello immaginato dall’Ecofin.

Che significa questo? Che in pratica la Germania ha ribadito con chiarezza che sono gli stati a decidere cosa fare delle loro banche, ovviamente a cominciare dalle proprie. Non la Bce (che comunque ha nella manica sempre l’asso della supervisione), non la Commissione, tantomeno il board di risoluzione che nascerà dalla costruzione del secondo pilastro dell’unione bancaria (SRM).

Quest’ultimo viene ridotto a un semplice anello di una catena che vede in cima il Consiglio europeo (prima assente dalle bozze normative), la Commissione Ue e le autorità di risoluzione dei singoli paesi, che partecipano al Board. Invece dell’implacabile Risolutore immaginato dai vari banchieri centrali, ossia una struttura assolutamente indipendente e “irresposabile”, ci troviamo di fronte a un bravo scolaro che prepara i dossier e elabora proposte che dovranno passare dalle forche caudine di mezzo mondo prima di essere approvate. E che una volta approvate saranno eseguite dalle autorità nazionali di risoluzione.

Capite bene perché la Bce ha fatto sentire la sua voce in tempo reale.

Dire che l’ultima parola sulla risoluzione spetta agli stati nazionali, seppure il tramite del Consiglio europeo o i propri organismi di risoluzione, significa tradurre nel linguaggio bancario il messaggio politico che ieri la Merkel ha ribadito senza peli sulla lingua, com’è suo costume: “Servono modifiche dei Trattati per avere un meccanismo vincolante per le riforme”. Tali riforme dovranno coinvolgere la Commissione, che però, ha sottolineato, “non dovrà dettare regole, ma deciderle d’intesa con gli stati”. Tanto per capire chi comanda.

Lo stesso principio ha guidato la decisione su chi debba pagare il conto della risoluzione, ammesso che mai si riuscirà a deciderne una.

L’accordo raggiunto prevede che alla fine, fra dieci anni e per gentile concessione tedesca, ci sarà il fondo dedicato richiesto a gran voce da Francia e Italia e dalla stessa Commissione europea. Il Fondo dovrebbe contare su almeno 55 miliardi, alimentandosi con i versamenti delle banche, che si tasseranno in quota crescente al crescere della rischiosità dei propri attivi (e in tal senso sarà interessante vedere come saranno valutati i titoli sovrani). C’è il rischio concreto, insomma, che verranno considerate più rischiose le banche che hanno in pancia titoli sovrani italiani piuttosto che tedeschi. Ma intanto dovranno vedersela sostanzialmente gli stati nazionali, che in compenso hanno accettato di anticipare al 2016 l’entrata in vigore della normativa sui bail-in. Questi ultimi, se non hanno i soldi da mettere nei salvataggi bancari, potranno sempre chiederli al fondo Esm, salvo però una messa sotto tutela alla spagnola. E’ il trionfo del Berliner consensus.

Di nuovo, dalla Germania arriva la conferma della supremazia del principio nazionale di fronte a quello sovranazionale. Il fatto che tale affermazione, che dovrebbe fare la felicità dei tanti che si sono scoperti nazionalisti negli ultimi anni, porti con sé che alla fine sia la nazione più forte a dettare la linea è una simpatica controindicazione. Vorrà dire che ameranno la bundesbank almeno quanto hanno odiato la Bce.

Il nazionalismo, oggi, significa auspicare sostanzialmente la costruzione di un’Europa tedesca. A cominciare dalla banche.

Alla faccia delle buone intenzioni.

Rimane il fatto che questo è solo il primo tempo di una partita più lunga che durerà per tutto l’anno prossimo, durante il quale si svolgerà l’attività preliminare della costituenda supervisione bancaria della Bce.

Dal canto suo la Banca centrale ha l’arma letale della market discipline, che già in passato ha dato grandi soddisfazioni a banchieri e regolatori (spesso le stesse persone). Le cerimonie barocche di Bruxelles rischiano di essere spazzate via al minimo accenno di sopraccigilio alzato da parte della Bce, specie in tempi di tapering.

La crisi dell’euro, “che non è ancora finita”, per usare le parole della Merkel, potrebbe essere la migliore alleata, come lo è sempre stata in passato, dei fautori del sovranazionalismo, costringendo i governi europei a bere calici amari come quello dell’Unione bancaria, che mai sarebbe stato riempito senza l’esplosione della crisi nel 2008.

E sovranazionalismo oggi significa innanzitutto auspicare la resa di Berlino all’accerchiamento neanche troppo dissimulato dei poteri forti di Bruxelles e Francoforte.

Comunque vada a finire questa partita, una cosa è chiara: per noi italiani sarà un insuccesso.