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La Bce spinge i ricavi delle banche italiane


Qualche giorno fa mi è capitato sotto gli occhi un articolo del Sole 24 ore che, citando uno studio di Prometeia, stimava in 3,8 miliardi i profitti aggregati del sistema bancario italiano, notando come la stima inverta un quadriennio di risultati negativi per il settore, gravato da ingenti rettifiche sui crediti deteriorati. Nel seguito veniva inoltre riportata la stima del CER, Centro europa ricerche, che vede gli utili aggregati fermarsi a due miliardi.

Ma a parte la differenza di vedute, l’articolo sottolineava altresì come tale risultato dipenda più dal calo di questa voce che dall’aumento dei ricavi, delineando però anche alcune prospettive positive.

Sempre secondo Prometeia, infatti, il ROE, ossia del ritorno sul capitale, passerà dal segno negativo al +3,7% nel triennio 2015-2017. Ancora poco, ma sempre meglio di nulla. Specie se il governo avvierà come ormai sembra imminente l’operazione bad bank per pulire definitivamente i bilanci delle banche.

La buona notizia, di cui sono assetato come tutti, mi ha fatto venire voglia di approfondire, sicché mi sono andato a rileggere l’approfondimento che Bankitalia ha dedicato al sistema bancario italiano nel suo ultimo Rapporto sulla stabilità finanziaria che contiene alcune informazioni che permettono di apprezzare cosa sia successo negli ultimi anni alle nostre banche e, soprattutto, cosa riservi il futuro.

In particolare trovo una tabella che ci racconta l’evoluzione dei conti economici delle banche italiane nell’ultimo ventennio, che trovo assai utile dalla quale estraggo alcune informazioni di sistema.

La prima è che il totale delle attività delle banche italiane è passato dai 1.291 miliardi del periodo 1994-1997, ai 3.219 del periodo 2013-2014. Degna di nota anche la circostanza che l’utile prima delle imposte (ROA, return on asset) era ol 0,37% del totale dell’attivo negli anni ’90, mentre è sceso a -0,23 nel biennio 2013-14.

Nel bel mezzo di erge il periodo d’oro del banking italiano, quello fra il 2004 e il 2007, quando gli attivi erano a quota 2.704 miliardi e l’utile prima delle imposte al +0,91.

Su questi conti pesano alcune importante scelte gestionali. I costi operativi, intanto. Negli anni ’90 pesavano il 2,37% del totale degli attivi, a metà 2000 l’1,70, negli ultimi due anni l’1,35%. D i questi costi, l’incidenza delle spese per il personale erano pari all’1,51% negli anni ’90, ossia il 63% del totale dei costi operativi, lo 0,92% a metà 2000, quindi il 54% dei costi operativi, e lo 0,69, pari al 51% dei costi operativi, nel biennio 2013-14.

Nel ventennio considerato, quindi, le banche hanno tagliato di dodici punti il peso dei costi del personale su quelli operativi, e ciò spiega perché i dipendenti siano passati dai 333 mila degli anni ’90, col picco di 338 a metà 2000, ai 298 mila di fine 2014, a fronte però di un aumento degli sportelli, passato da 24.600 dei Novanta ai 31.600 dell’ultimo biennio.

Altra voce pesante è stata quella delle rettifiche. Nei Novanta pesavano lo 0,75 degli attivi, crollano allo 0,29 nel periodo d’oro, e aumentano quasi del quadruplo nell’ultimo biennio, all’1,09. Se considerate l’evoluzione degli attivi, noterete che i valori assoluti sono parecchio importanti.

E ciò spiega perché gli indicatori di redditività del capitale proprio (ROE) sia crollato. In particolare, nel 2013 era negativo per lo 0,9 ed è arrivato a -0,2 nel 2014, dove si segnala un ROE negativo per -1,8% dei primi cinque gruppi bancari a fronte di un ROE positivo per l’1,7% delle altre.

Per dirla con le parole di Bankitalia, “alla riduzione (del ROE, ndr) hanno contribuito in misura pressoché analoga la diminuzione dei ricavi, dovuta soprattutto al forte calo del margine di interesse, e l’aumento delle rettifiche su crediti. Le banche hanno fatto fronte alla diminuzione dei ricavi in larga parte attraverso riduzioni dei costi operativi, soprattutto quelli per il personale (-10 per cento, -23 punti base in rapporto all’attivo). Il riassetto organizzativo è stato di ampie dimensioni: dal 2008 il numero di sportelli è diminuito dell’8 per cento e quello dei dipendenti del 12%”.

Le previsioni di Bankitalia, tuttavia, sono meno ottimistiche di quelle di Prometeia: “Se l’aggiustamento dei costi si dimostrasse strutturale e la ripresa economica consentisse di recuperare il calo dei ricavi e dimezzare le rettifiche”, con l’avvertenza che anche dimezzandosi nell’arco del prossimo quinquennio rimarrebbero su livelli quasi doppi rispetto al periodo pre-crisi, allora “il ROA potrebbe risalire a un livello sostanzialmente analogo a quello del quadrienni 2004-2007. Si tratta di un obiettivo ambizioso ma possibile nell’arco di un quinquennio”.

Il futuro ci dirà se ha ragione Prometeia oppure Bankitalia.

Nel mentre un altro approfondimento contenuto nel Rapporto sulla stabilità finanziaria ci consente di apprezzare un altro aspetto sovente sottaciuto nelle cronache: l’impatto del QE di Francoforte sui bilancio delle banche italiane.

La banca centrale ricorda che il QE “influisce sulla redditività delle banche italiane attraverso numerosi canali: la variazione dei tassi di interesse, il tasso di cambio dell’euro, i cambiamenti di valore dei titoli detenuti nel portafoglio delle banche e l’aumento della domanda di servizi di intermediazione connesso con il miglioramento del quadro macroeconomico”.

Ipotizzando che il QE provochi una flessione dei tassi a medio e a lungo termine di circa 85 punti base e un deprezzamento del tasso di cambio nei confronti del dollaro pari all’11,4 per cento, la simulazione prevede che il programma Bce aumenterebbe i profitti bancari, al lordo delle imposte, di circa 300 milioni nel 2015 e 1,4 miliardi nel 2016, mentre gli altri ricavi aumenterebbero di 400 milioni nel biennio “per effetto soprattutto dei risultati positivi dell’attività di negoziazione in titoli”.

Un paio di miliardi di più di utili lordi in due anni, quando l’utile nell’ultimo biennio è stato negativo per oltre sette miliardi, male non fa. Le banche italiane non sono nella condizione di rinunciare a nulla.

Figuratevi all’aiutino della Bce.

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L’anno (bancario) che verrà


La chiusura dell’accordo sull’Unione bancaria è la degna conclusione di un anno (bancario) vissuto pericolosamente per l’eurozona. Ma allo stesso tempo conferma che le banche saranno le grandi protagoniste anche dell’anno che verrà.

Il 2014 in tal senso sarà un anno di preparazione e di riorganizzazione dell’intero settore bancario in vista dell’avvio della supervisione unificata della Bce, da una parte, e dell’attivazione degli altri due pilastri dell’Unione bancaria, ossia il meccanismo di risoluzione e quello di garanzia dei depositi, previsto per il primo gennaio 2015. Sempre che l’europarlamento approvi le norme relative.

Allo stesso tempo, il 2014 sarà anche l’anno del tapering della Fed. La Banca centrale americana ha già annunciato che inizierà a ridurre gli acquisti di bond di dieci miliardi di dollari al mese e i mercati, che al momento hanno assorbito la notizia senza problemi, dovranno farci i conti. Le tensioni, come già accaduto in passato, potrebbero scaricarsi innanzitutto sui paesi emergenti. Ma è evidente che qualora la mossa della Fed fosse maldigerita dai mercati gli effetti sarebbero evidenti anche nell’eurozona, proprio nell’anno in cui la zona euro spera di tornare alla crescita.

Il combinato disposto Fed-Unione bancaria, con il suo portato di asset quality review sugli asset bancari europei, rischia di avere effetti notevoli nel settore bancario dell’eurozona. Non a caso qualche settimana fa Vitor Constancio, parlando a Dublino, abbia detto che non sarebbe sorpreso se il meccanismo di supervisione “inaugurasse un periodo di ristrutturazioni”. Detto in soldoni, una bella stagione di fusioni e acquisizioni, magari con le banche più forte e meno esposte su bond sovrani “rischiosi” nel ruolo di aggregatori.

E qui veniamo ai casi nostri. Le banche italiane è inevitabile finiscano sotto tensione, visto l’orientamento restrittivo annunciano dalla Bce sulla valutazione del rischio dei bond sovrani, di cui le nostre banche sono imbottite. Se si applicassero le regole di Basilea III ai 400 miliardi stimati di titoli di stato italiani in mano alle banche (anziché quelle più favorevoli previste dalla legislazione europea), queste ultime si potrebbero vedere costrette a mettere da parte capitale per una cifra che potrebbe oscillare fra i 6 e i 16 miliardi, a seconda della classe di rating alla quale si farà riferimento. Hai voglia a ricapitalizzare Bankitalia. O, in alternativa, dovrebbero vendere i titoli di stato, con effetti deleteri sul nostro bilancio pubblico.

Perché poi questo è il problema, che tutti dicono di voler risolvere: il famoso collegamento fra banche residenti e debito sovrano. Se le banche italiano vanno in affanno, anche il bilancio dello stato ne risente, sia direttamente, perché può venir meno uno dei principali acquirenti dei suoi titoli, sia indirettamente, perché può essere costretto a ricapitalizzarle, visto che il fondo di risoluzione dell’Unione bancaria non si vedrà prima del 2025.

In questo senso il 2014 potrebbe essere un anno orribile per il bilancio dello stato italiano, già alle prese con una correzione del deficit basata sulla scommessa di uno spread in calo.

Ma le tensioni non riguarderanno solo le grandi banche. 

Le piccole stanno pure peggio.

Queste ultime in particolare, responsabili grossomodo di circa la metà del credito erogato alle Pmi, sono diventate oggetto delle preoccupazioni della Banca d’Italia, secondo quanto riporta il Financial Times, che ipotizza che si arriverà a un consolidamento del settore bancario italiano entro la metà del 2014.

Alcuni analisti stimano che sia probabile addirittura la creazione di una bad bank con 10-12 miliardi di capitale (presi dove?) dove far confluire tutti i crediti incagliati delle banche medio-piccole. E in questa complessa partita giocherà di sicuro un ruolo la decisione del governo di rivalutare le quote di Bankitalia, fortemente voluta dalle banche proprio per passare con maggiore sicurezza l’esame della Bce, il cui provvedimento relativo è ancora all’esame delle Camere e in attesa del parere della Bce. Che non è vincolante, come ripete sempre il ministro Saccomanni, però pesa e, soprattutto, ritarda. Specie se è vero, come riportano le cronache, che la Bundesbank si è messa di traverso.

Le banche italiane, insomma, non saranno semplici protagoniste ma saranno in prima linea dell’anno che verrà.

Alla riorganizzazione interna, infatti, è assai probabile seguirà una riorganizzazione intereuropea, con le nostre banche nel ruolo di facili prede, visto che sono imbottite di sofferenze e titoli di stato italiani e quindi a serio rischio di patrimonializzazione.

La cronaca ci dirà se il 2014 sarà l’anno in cui verrà meno l’ultimo baluardo del nostro sistema produttivo, ossia quello finanziario, da tempo oggetto delle amorevoli attenzioni dei giganti europei. Non sarà necessario aspettare l’Unione bancaria per spezzare il nesso fra debito sovrano e banche. Basterà una robusta migrazione di pacchetti azionari.

In ogni caso, auguri.

Ci rivediamo il 13 gennaio 2014.

Grana da mezzo trilione per le banche italiane


Le banche italiane stanno bene, dicono e ripetono i nostri massimi esperti, a cominciare dal governatore di Bankitalia. Ed è vero, ma non è tutta la verità.

I nostri massimi esperti la direbbero tutta, la verità, se aggiungeressero alla loro affermazione un’altra semplice parolina: finora. 

Già. Il problema è che le nostre banche hanno di fronte un annetto difficile visto che dovranno passare sotto la doppia forca caudina della recessione economica, ancora tutt’altro che risolta, e della nuova supervisione bancaria della Bce, che verrà condotta senza guardare in faccia nessuno, pena un miserevole flop. E di conseguenza senza alcun riguardo per i nostri campioni bancari nazionali. “L’esercizio sarà rigoroso”, ha assicurato il nostro Governatore centrale, Ignazio Visco, in un discorso del 7 ottobre scorso.

Tutti noi sapremo a breve con quali criteri la Bce inizierà la sua radiografia dei principali 130 istituti bancari europei con l’inizio del 2014. E vale la pena ricordare che lo scopo di tale sorveglianza, il primo reale banco di prova della nascente Unione bancaria, è restituire al mercato la fiducia in tali banche. Qualora una di loro venisse trovata carente di capitale, ha ricordato di recente il presidente della Bce, gli stati dovranno farsene carico.

Naturale perciò chiedersi quanto sarà salato il conto per l’Italia, fra stato e risparmiatori.

Nell’elaborazione del conto pesano un paio di variabili non trascurabili. La prima è la condizione di trattamento che verrà assegnato al rischio sovrano, ossia come verrà valutata, nell’ambito degli stress test sui bilanci bancari, l’esposizione in bond pubblici.

A tal proposito Visco ci spiega che “l’esame dovrà riguardare tutte le tipologie di rischio, tenendo conto delle regole prudenziali già definite”. e per quanto riguarda il rischio sovrano “non si può prescindere dal fatto che la sua attuale percezione da parte dei mercati risenta ancora di timori, che noi riteniamo infondati, sulla tenuta dell’euro”. Ma, sottolinea “sarebbe un errore basare su tale percezione, implicitamente condividendola, il giudizio sulla rischiosità delle esposizioni sovrane”.

Che vuole dire Visco?

In ballo c’è una questione molto delicata, ossia la classificazione, ai sensi delle norme regolamentari di Basilea, dei titoli di stato come risk free, che molti, a cominciare dal governatore della Bundesbank, vorrebbero riformulare.

Per noi italiani la questione non è di poco conto. Sul Sole 24 Ore vedo una tabella che prezza in oltre 90 miliardi di euro l’esposizione di Banca Intesa in bond dello stato italiano a fine 2012, mentre per Unicredit tale voce pesa appena 42 miliardi e rotti. Ma tutti noi sappiamo quanto le banche italiane si siano imbottite di titoli di stato nell’ultimo anno, come ricorda lo stesso Visco. Quindi sapere come la Bce valutare questi asset sarà determinante per calcolare l’effettiva capitalizzazione del sistema bancario e, di conseguenza, la sua solidità.

La seconda variabile, altrettanto destabilizzante, è l’ammontare delle sofferenze bancarie, ossia l’altra faccia della medaglia dell’indebitamento privato delle imprese italiane col sistema bancario.

A tal proposito Visco racconta che “nel secondo trimestre di quest’anno il tasso annuo di ingresso in sofferenza ha raggiunto il 2,9 per cento; il peggioramento ha riguardato esclusivamente le imprese. A giugno di quest’anno l’ammontare lordo delle partite deteriorate (che includono, oltre alle sofferenze, anche gli incagli, i crediti ristrutturati e quelli scaduti) ha toccato i 300 miliardi. Al netto delle rettifiche di valore già contabilizzate l’ammontare è più contenuto, circa 190 miliardi, di cui poco più di 70 si riferiscono a sofferenze e sono oggi ampiamente coperti, per il complesso del sistema, dalla presenza di garanzie reali e personali”.

Provo a ricapitolare: c’è una montagna da 300 miliardi di debiti deteriorati che, al netto delle rettifiche vale 190, di cui solo 70 sono sofferenze coperte da garanzie reali e personali.

Quindi, di nuovo, le banche stanno tutte bene. Finora.

Ma cosa succederebbe se sul sistema finanziario italiano scoppiasse una bomba da 70 miliardi? Che valore avrebbero garanzie “reali e personali” in uno scenario di crisi peggiore?

Per adesso accontentiamoci di sapere che “nel primo semestre 2013 le perdite su crediti hanno assorbito tre quarti della redditività operativa” e che “le difficoltà del sistema creditizio non sono destinate ad essere riassorbite rapidamente”. Ma poiché Visco fa il Governatore fa bene a ricordare che “sono sviluppi che possono incentivare a superare l’eccessiva dipendenza delle imprese dal credito bancario”.

Le crisi come occasioni di evoluzione, un vecchio refrain del nostro continente.

Visco, tuttavia, conclude la sua analisi con una asserzione decisa: “Le opinioni emerse più volte nel corso della crisi secondo cui il sistema bancario italiano avrebbe enormi necessità di ricapitalizzazione non sono fondate”. E cita uno studio del Fmi secondo il quale il sistema bancario italiano è uscito bene dalla crisi come dimostrano anche alcuni stress test preparati dal Fondo. “Anche grazie al rafforzamento patrimoniale realizzato nel corso degli ultimi anni – dice – il sistema nel suo complesso sarebbe in grado di fronteggiare uno scenario più avverso, in cui
la crescita del prodotto nel triennio 2013-15 fosse cumulativamente inferiore di oltre quattro punti percentuali rispetto allo scenario di base. Le esigenze di capitale a cui, in questo caso, alcuni intermediari dovrebbero fare fronte per riportarsi sui minimi regolamentari sarebbero contenute; a seconda della definizione di capitale utilizzata, nelle stime del Fondo monetario si collocherebbero, in totale, tra 6 e 14 miliardi, comunque meno dell’1 per cento del prodotto interno lordo”.

Le difficoltà, ammette Visco, riguardano “intermediari di media e piccola dimensione, particolarmente dipendenti dall’evoluzione macroeconomica, anche locale, o caratterizzati
da assetti di governance che rendono difficoltosa l’attuazione di misure volte a rafforzare il patrimonio; si tratta in maggioranza di banche popolari o nelle quali una Fondazione
detiene almeno il 20 per cento del capitale”.

Tanta assertività mi ha fatto venire voglia di andarmi a leggere per intero il rapporto a cui Visco fa riferimento, che poi è il Financial System Stability Assessment uscito nel settembre scorso.

Leggendolo scopro alcune cose. La prima è che gli asset totali del sistema bancario italiano, un sistema di 706 banche che detiene l’85% del totale degli asset finanziari del Paese, pesano il 220% del Pil, quindi più o meno 3,3 trilioni di euro, il 9% dei quali, quindi circa 300 miliardi, sono investiti in bond sovrani, in gran parte dello stato italiano. La cifra equivale più o meno al totale della liquidità che le banche hanno preso in prestito dal programma Ltro della Bce a far data dal marzo 2012 e che sono stati in gran parte investiti in titoli di stato

Quindi questa è la misura totale del macigno che potrebbe schiacciare le banche italiane qualora la Bce finisse col considerare i titoli di stato non più risk free. E spiega bene perché Visco abbia auspicato che non si dia seguito ai timori “confermandoli” sulla tenuta dell’euro mettendo in dubbio la solidità di questi asset.

Il Governatore fa il suo mestiere, bisogna capirlo.

E fa il suo mestiere pure quando ricorda l’ammontare massimo delle ricapitalizzazioni che le banche potrebbe dover sopportare.

Senonché, il Fondo ricorda pure che “la più pressante vulnerabilità delle banche italiane è rappresentata dalla debolezza del settore corporate, che risulta molto indebitato e generatore di NPL, non performing loans, (il 26% nel maggio 2013). Nel cofronto europeo le imprese italiane, a differenza delle famiglie, sono le più indebitate dopo quelle portoghesi e quelle spagnole, con una percentuali di debiti sul totale degli asset che sfiora il 35%.

Questo significa che il debito delle imprese italiane è estremamente sensibile al rischio dei tassi di interesse, che a sua volta è legato alla performances degli spread sui bond sovrani. Per dirla con semplicità, imprese e stato o si tengono insieme o cadono insieme.

Le banche sono il terzo vertice di questi triangolo finanziario, che genera rischi notevoli per il Paese. Il debito pubblico dello stato e il debito privato delle imprese, infatti, stanno insieme dentro la pancia delle stesse banche.

Ogni peggioramento di uno dei tre vertici porta con sé il peggioramento degli altri due.

Per questo il governatore fa il suo mestiere e glissa sul monito del Fmi, secondo il quale “il risultato degli stress test suggerisce che il sistema bancario italiano è capace di resistere a entrambi i due scenari, quello base e quello avverso e all’applicazione di Basilea III, ma la sue riserve di capitale sarebbero erose nel caso di crescita lenta ed esaurite in caso di scenario avverso”.

In particolare il Fmi calcola che alcune banche, fra cinque e dieci, dovrebbero recuperare fra 1,1 e 3,4 miliardi per ricapitalizzarsi ai sensi di Basilea III nell scenario base. Nello scenario di bassa crescita ci vorrebbero fra 5 e 10 miliardi. Nel caso di scenario avverso fra i 6 e i 14 miliardi.

Un mese dopo, però, nel suo Global stability report, sempre il Fmi torna sul caso italiano. Anche stavolta il Fmi mette l’accento sulla pesante esposizione delle banche nostrane nel settore corporate e calcola le perdite potenziali che il settore bancario potrebbe subire qualora non migliorino le condizioni economiche e finanziarie del Paese entro i prossimi due anni. Guardacaso la simulazione riguarda solo noi, la Spagna e il Portogallo.

Ebbene, nel caso italiano, il Fmi stima perdite potenziali per 125 miliardi sull’esposizione al settore corporate che eccedono di 53 miliardi le riserve per perdite su crediti, ossia il cuscinetto che il sistema bancario ha accantonato per coprire eventuali perdite sui prestiti. Quest’altra montagna di denaro, spiega il fondo, dovrebbe essere assorbita dai profitti senza erodere il capitale delle banche. Quindi le banche potrebbero reggere il peso del debito corporate. Ma è chiaro che se dovranno gestire al contempo il deflusso delle risorse investite sui bond sovrani, rischiano di trovarsi in grave difficoltà.

Sul tavolo balla, fra esposizione a rischio corporate ed esposizione sovrana, una grana da quasi mezzo trilione di euro.

Le banche stanno tutte bene, appunto.

Finora.