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Miti del nostro tempo. Il ritorno della piena occupazione


Mi tornano in mente parole scritte più di settant’anni fa da Luigi Einaudi, mentre leggo un bell’intervento di Lael Brainard, banchiera centrale in forza al board della Fed, che già dal titolo evoca promesse politiche che risalgono al secondo dopoguerra: “Full Employment in the New Monetary Policy Framework”.

La piena occupazione, nientemeno. Quella promessa che, come scriveva Einaudi, pone “sottili problemi”, che il nostro economista sintetizzava nel fatto che mentre prima la politica monetaria incorporava l’esigenza di garantire la stabilità dei cambi auri, e quindi il valore delle obbligazioni contratte in moneta, dopo la politica monetaria ha finito con l’essere subordinata all’obiettivo della piena occupazione. Eravamo nel 1948, quando Einaudi scriveva.

Piena occupazione, poi, che significa? Anche questa espressione, come molte di quelle che incontriamo nel discorrere economico, evoca suggestioni che spesso hanno poco a che vedere con quello di cui parlano gli economisti. Per capirci, prendiamo a prestito la definizione che ne diede Mike McCracken, economista canadese scomparso nel 2015, dopo una lunga militanza professionale dedicata proprio alla diffusione di politiche atta a promuovere questo obiettivo, al quale peraltro è stato intitolato l’evento al quale ha partecipato la banchiera americana.

McCracken definiva la piena occupazione come quella condizione nella quale “chiunque desideri un lavoro può trovarne uno accettabile in termini di salario, sicurezza e altre condizioni di lavoro”. Una sorta di paradiso terrestre che suscita sicuramente diffidenze in chi abbia una qualche memoria storica.

Ma poiché viviamo in un tempo che ha smarrito la memoria, il ritorno del mito della piena occupazione sembra il pretesto ideale per solleticare la crescente vanità dei policy maker, che ormai hanno preso gusto a manovrare l’economia, agitando un motivo nobilissimo: il benessere delle popolazioni.

La Fed dunque, e torniamo alla nostra banchiera, che ha deciso di modificare di recente la sua forward guidance per far capire che non lascerà nulla di intentato per arrivare alla piena occupazione, definita non più da un semplice numeretto in calce a una statistica, ma come il soddisfacimento di una serie di parametri, con la politica monetaria a far da ruota di scorta con il suo ampio corredo di allentamenti della quantità di moneta. Che significa tassi bassi da qui a chissà quando e bilanci della banche centrali sempre più gonfi.

Non sappiamo se fosse questo quello che McCracken aveva in mente, o prima di lui il nostro Einaudi. Però è interessante sfogliare per un attimo la Storia. Magari, prima di vedere cosa ha in mente la Fed, ce ne facciamo un’idea.

(1/segue)

Ultima puntata: Cinquant’anni di storia della piena occupazione. Il caso canadese

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All’origine del bad equilibrium: il mito della Produzione


Mentre sfoglio libri d’altri tempi e analisi di oggi, cercando di capire da dove sia iniziata la fine di questa storia, noto sorpreso che da qualunque lato lo si osservi, il nostro peregrinare ballerino conduce sempre nello stesso dove: la produzione. O, detto più comprensibilmente, la sua crescita. Nel nostro immaginario economico i due termini sono praticamente sinonimi, mentre gli statistici confezionano l’indice del prodotto interno lordo, e non a caso.

Crescere è il nostro imperativo categorico, che già denota un difetto nella costituzione dello spirito di questo tempo, giacché dovrebbe appartenere al normale svolgersi di una vita, la crescita, pur’anche di un organismo economico. E invece è un pensiero fisso, una malattia, che fatalmente ci ossessiona e chissà quanto ci impedisce di crescere sul serio. Intendo dire lungo una traiettoria più ampia, se non quantitativamente più alta, di quella espressa dagli indici del prodotto nazionale.

Al Prodotto, quindi, è stato assegnato per comune consenso un potere davvero demiurgico: quello di conformare la realtà. Muovendosi origina tutta la panoplia delle variabili che sono le maschere delle rappresentazioni confezionate dagli economisti nelle loro teorie. Se non ci fosse la produzione di qualcosa non ci sarebbero i salari per chi produce, i profitti per chi la intraprende, le rendite per chi affitta il capitale o gli strumenti. La produzione, perciò, generando i redditi delle comparse economiche, implica al suo interno la misteriosa alchimia dei prezzi, guidata dal gioco di domanda e offerta, che nella visione tradizionale degli economisti sono il giusto punto di equilibrio capace di soddisfare tutti: l’operaio, l’imprenditore e il rentier.

Da circa 80 anni lo Stato è diventato comprimario di questo teatro di marionette e anzi rivendicando ai privati il ruolo da protagonista, sedotto e mai abbandonato dalle provvidenziali “eresie” keynesiane pubblicate sempre circa 80 anni fa nell’intento disperato di uscire dal cono della depressione. Il risultato è che adesso i prezzi devono remunerare anche le imposte, ormai a un livello esorbitante, così come anche servire i debiti, anche essi a livelli inusitati. Ciò implica che il Prodotto debba crescere sempre di più per sostenere anche questa faticosa rappresentazione.

Su questo quadro sintetico s’innesta l’attualità. Oggi come ieri tutte le soluzioni proposte dai vari osservatori internazionali sono palesemente indirizzate a favorire la produzione, che già negli anni ’50 l’economista americano John K. Galbraith dipingeva come un mito in un celebre libro (La società opulenta) osservando con sapida arguzia il suo essere un cascame culturale del XIX secolo, quando i problemi della produzione erano al centro dell’attenzione degli economisti perché si ragionava su società autenticamente bisognose di tutto, a differenza di quella che lui osservava nel secondo dopoguerra, che già esibiva le distorsioni provocate dalla ricchezza. Galbraith ne deduceva – sintetizzo malamente – che una società opulenta dovrebbe spostare l’angolo visuale dalla produzione di beni materiali a quella di servizi pubblici. Per capirsi: è inutile, oltre che inflazionistico, continuare a produrre automobili se non ci sono strade sufficienti e sicure dove farle camminare.

Più di sessant’anni dopo ci troviamo esattamente allo stesso punto. L’oggetto del dibattere rimane la produzione. I disaccordi si generano all’interno di un recinto specialistico dove sedicenti esperti, quelli che Luigi Einaudi chiamava i periti, discettano se l’aumento della produzione debba derivare da politiche della domanda – meglio se pubblica e magari a deficit – o da politiche dell’offerta che vengono ammantate dietro la dizione generica di Riforme Strutturali, che è un modo educato e moderno di dire che dobbiamo essere sempre più bravi, istruiti, flessibili, competitivi cosicché i mercati possano provvedere a noi secondo il nostro merito. E poiché tutto il meccanismo economico si è conformato lungo le coordinate di questo dibattito favolistico non c’è più spazio per discorrere di altro.

E’ interessante, tuttavia, seguendo sempre Galbraith, tornare all’origine di questa idea per provare a penetrarne il presupposto celato. A ben vedere il desidero di una produzione crescente altro non è che la mercificazione del nostro bisogno di sicurezza economica. Poiché dalla produzione si fa seguire l’occupazione e da quest’ultima la nostra capacità di stare al mondo, è giocoforza puntare sulla produzione per tenere in equilibrio le nostre società. Questo non è un fatto incidentale, ma una precisa scelta politica che il mondo occidentale ha fatto nel secondo dopoguerra.

Sempre Einaudi, nell’introduzione a un libro del 1948 (“La Germania ritorna sul mercato mondiale”) dove Ludwig Erhard spiegava le ragioni del nuovo miracolo tedesco, osservava con tono che a me pare dolente il sorgere di questa nuova ossessione che dominava la politica e faceva strame di antiche consuetudini e pudori ancor più remoti. “Qui non si vuole muovere critica a un atteggiamento politico, che probabilmente è fatale”, scrisse, ricordando “i sottili problemi posti dalla premessa della piena occupazione” che si sarebbero realizzati una volta che si fosse definitivamente superata la premessa sulla quale si era basata sino ad allora l’economia. “La premessa antica era che la politica monetaria e finanziaria fosse subordinata al mantenimento di un rapporto fisso della unità monetaria nazionale con un determinato peso di oro fino. La premessa moderna è che la politica monetaria debba essere subordinata all’osservanza del comandamento della piena occupazione (…). Che cosa significava l’antica premessa? Che un impegno deve essere osservato (..) oggi invece stati e privati sanno di non assumere più lo stesso obbligo quando contraggono obbligazioni (…). La domanda angosciosa è: i principi delle assicurazioni sociali, della piena occupazione e della uguaglianza delle fortune e dei redditi fino a che punto hanno prodotto risultati vantaggiosi alla collettività? Non si è già oltrepassato il punto critico, dimenticando i valori antichi della responsabilità individuale, della osservanza degli impegni assunti, dell’incentivo a innalzarsi nella scala gerarchica? Non siamo tornati troppo indietro abbandonando il tipo di società regolata da contratto liberamente negoziato a favore di una società basata sui regolamenti delle leggi?”. Indietro, notate bene, non avanti.

La piena occupazione, quindi, o quantomeno un livello soddisfacente di occupazione capace di garantire la sicurezza economica e quindi l’ordine sociale rimane, ieri come oggi, al centro dell’agenda politica internazionale. Come esempio basti soltanto ricordare che la Fed aveva messo un certo tasso disoccupazione fra i suoi target della sua politica di quantitative easing.

Il fatto che sessant’anni di politiche basate sull’idea della piena occupazione, e quindi della produzione, ci abbiano portati a una situazione di instabilità permanente alimentata da debiti crescenti ormai palesemente inesigibili non sembra turbare nessuno. Gli specialisti – i periti – continuano a dividersi sui rimedi e pochi si stupiscono  – anzi si dicono soddisfatti – che un solo stabilimento produca 100 mila automobili al giorno e dica di voler ancora aumentare la produttività sostanzialmente a scapito delle retribuzioni, che poi l’acquisto delle stesse auto dovrebbero garantire, mentre si assiste a una concentrazione della ricchezza di tipo ottocentesco.

L’esito di tutto ciò è che il desiderio di sicurezza, di cui la piena occupazione è la declinazione economicistica, ha costruito un mondo che invece alimenta l’insicurezza. Il mito della produzione genera il timore di una stagnazione secolare, che peraltro è una paura che risale sempre agli anni ’30, quando Alvin Hansen la teorizzò in un’opera del ’37.

Tale dilemma non potrà essere affrontato se non si cambierà il paradigma che sta alla base del nostro vivere sociale. I tre attori sociali che fanno l’economia reale, ossia i produttori, i consumatori e lo stato, devono elaborare uno schema di relazione che modifichi consuetudini ormai superate dalla storia, dando un significato diverso a parole antiche come lavoro, reddito, capitale, moneta.

Purtroppo questa riflessione non è neanche cominciata. I politici agitano ricette economiche che non comprendono, gli economisti s’impiccano e ci impiccano all’econometria, le persone alla paura del futuro, ossia ciò che origina il bisogno di sicurezza economica. E il girotondo ricomincia.

Ed è questa mancanza di riflessione la vera origine del nostro bad equilibrium.

(4/fine)

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All’origine del bad equilibrium: l’invenzione della reflazione


Per quanto sedotti dalle complicazioni degli economisti contemporanei, che esibiscono senza pudore alcuno astrusità matematiche e garbugli statistici, dovremmo ricordarci del sano senso comune del quale l’economia autentica è intrisa.

All’uopo è utile rileggere vecchi libri e metterli a confronto con i nuovi. Se ne può ricavare più di un motivo di riflessione o, meglio ancora, una spiegazione del nostro presente assai più sensata, e quindi comprensibile, di quella che ci viene offerta dai nostri moderni specialisti.

Sicché mentre mi attardavo a leggere una recensione di Luigi Einaudi del 1934, scritta per commentare uno dei lavori di Irving Fisher, il teorico della debt-deflation reso celebre dalla Grande Depressione, mi son imbattuto in un passo che è utile citare ai fini del nostro discorso economico.

Il rimedio individuato da Fisher per invertire il ciclo depressionario della deflazione da debiti, era quello che si chiamò reflazione, termine che Einaudi in altri saggi aveva giudicato confuso e di difficile comprensione.

Il ragionamento era più o meno questo: poiché i soggetti economici hanno fatto molti debiti, il loro peso è divenuto insostenibile a causa del calo dei prezzi. Quest’ultimo infatti, diminuendo il loro reddito, aumenta il peso relativo del servizio di questi debiti, che generano un costo fisso. Sicché i debitori corrono a vendere tutto ciò che possono per pagare le rate dei prestiti. Questa vendita disordinata di asset aggrava la caduta dei prezzi, e così via fino al disastro.

Sicché Fisher suggeriva che “si impedissero le liquidazioni fin dall’inizio, fermando con qualche incantesimo il livello dei prezzi a 100”, spiegò Einaudi. Ossia tenendo i prezzi stabili.

La questione dell’incantesimo è quella dirimente, visto che in questo consiste l’idea della reflazione. Oggi manuali ed enciclopedie definiscono la reflazione come una “moderata nuova inflazione successiva alla deflazione, innescata dalla iniezione di una maggior quantità di moneta, e che si accompagna solitamente a una ripresa economica”. Solitamente.

Ai tempi di Einaudi era un’idea che bisognava ancora analizzare e digerire, peraltro dovendo fare i conti con una visione dell’economia dove i cicli economici con i loro andirivieni venivano giudicati naturali e necessari, le crisi essendo la condizione normale dell’economia. I ribassi  venivano giudicati il giusto prezzo che avventurieri e sprovveduti dovevano pagare per ripulire il ciclo economico dalle sue scorie. Serviva insomma un malanno per recuperare la salute.

L’idea reflazionaria di Fisher perciò, che in qualche modo poi entrerà a far parte del corredo delle politiche economiche internazionali, piaceva poco a Einaudi e per diversi motivi. Il primo era che, impedendo l’aggiustamento, “non sono eliminate le scorie del ciclo precedente”. “Se i prezzi continuano ad essere remuneratori – osserva – perché affannarsi a ridurre i costi, ad abbandonare i metodi vecchi a buttare fra i rottami le macchine antiquate?”

L’incantesimo quindi, “opera nel senso di stabilizzare e perpertuare l’equilibrio proprio di un tempo passato, ritardando l’adattamento all’equilibrio di un tempo nuovo (…) debiti e interessi fissi si accavallano e si gonfiano (..) la macchina è divenuta pesante. Non scoppia perché incantesimo l’ha addormentata, ma agisce sempre più adagio e straccamente. Il che è ben peggio della crisi (…) Alla fine, quando il gonfiore è al punto massimo, la bolla d’aria scoppia. E’ la liquidazione, cruenta e ritardata, preferibile pur sempre alla morte per lisi”.

L’articolo si conclude con l’esortazione ai “governatori  dei banchi centrali” affinché “sappiano stringere in avvenire sempre meglio e sempre più tempestivamente i freni della macchina economica mondiale di cui essi sono i manovratori responsabili”.

Ora, il punto non è tanto condividere le convinzioni di Einaudi, sulle quali ognuno avrà le sue opinioni, ma confrontare le sue conclusioni generali con la nostra situazione particolare.

Che le economie internazionali vivano sotto un tentativo di incantesimo monetario da parte delle banche centrali mi pare fuor di dubbio. La reflazione, che pur tuttavia langue, è l’obiettivo dichiarato non soltanto nei target delle banche centrali, ma anche testimoniato dall’ossessione con la quale tutti noi guardiamo al livello generale dei prezzi.

Sostenere il pagamento dei debiti privati e pubblici contratti nel vecchio ciclo espansivo ora che il ciclo si è invertito, inoltre, è il chiaro intendimento dell’altra parte della manovra reflazionaria, ossia la conduzione dei tassi reali in territorio negativo, che nelle principali economie del mondo dura ormai da anni con la conseguenza che i rendimenti dei bond sono diventati pressoché nulli. Ciò, fra le altre cose ha provocato un aumento dei rischi, visto che gli investitori non hanno rinunciato alla loro fame di rendimento.

Il problema è che l’incantesimo, che come si osserva è alquanto datato, non funziona.

Le statistiche della Bis mostrano con chiarezza che il livello generale dei debiti, dal 2007 non è affatto diminuito, ma anzi è aumentato, portandosi dal circa il 100% del Pil di otto anni fa a più del doppio, in coerenza con quanto scritto da Einaudi ottant’anni fa. I paesi avanzati sono ormai oltre il 250%.

Similmente, l’incantesimo non funziona per la crescita, che procede “sempre più adagio e straccamente”, come le varie revisioni al ribasso della pil internazionale ci ricordano a ogni pie’ sospinto.

Sicché rimane il timore che, prima o poi, si verifichi l’esito finale prescritto da Einaudi. Ossia che “la bolla d’aria scoppi”. E su tale timore, che si esprime col moderno linguaggio della volatilità, si costruisce tutta la nostra attualità

L’equilibrio “proprio di un tempo passato” che ci si ostina a perpetuare con l’incantesimo monetario è diventato il bad equilibrium della contemporaneità.

E noi ci balliamo sopra.

(1/segue)

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La ricerca dell’equilibrio diventa pratica d’equilibrismo


Al sole di un’estate ormai ingiallita e fredda, sbiadisce l’incanto della narrazione che ci ha impegnato lungo la bella stagione. Ora che siamo ai titoli di coda, allo spettatore distratto rimane solo la vaga inquietudine di chi debba affrontare i rigori della realtà, che d’improvviso si scopre assai più complessa e minacciosa di come l’avevano figurata le voci fuori campo.

Dimenticata la Grecia, ormai scomparsa fino a nuovo ordine dai radar dei contastorie, purgata la Cina, che infine si è rassegnata a una maggiore penetrazione dei capitali esteri (anche se solo per il tramite delle banche centrali) nella sua valuta, rimane solo la Fed, che dovrà rispondere all’annosa domanda se alzerà i tassi oppure no, versione contemporanea dell’amletico dilemma ormai degradato a pura contabilità.

Intanto che aspettiamo, si scopre l’emergenza brasiliana, che ovviamente in molti si sono affrettati a ricollegare a quella cinese, e quindi corollario della narrazione estiva, dimenticando quanto ramificata e complessa sia la ragnatela che unisce i paesi emergenti, ormai in palese crisi, a quelli cosiddetti avanzati, a cominciare dagli europei. Si dimentica, ma è solo uno degli esempi possibili, che le banche spagnole hanno circa 140 miliardi di esposizione verso il Brasile, che adesso dovranno reggere la tensione derivante dal declassamento a spazzatura del rating sovrano.

La crisi brasiliana, che s’iscrive di diritto al cronicario dell’economia internazionale, contribuisce a rafforzare l’opinione che ormai, qualunque cosa si faccia, siamo destinati a subire costantemente perturbazioni. Sicché finisce che l’osservatore esausto rivolga l’occhio speranzoso oltre Atlantico, dove alligna il gigante nordamericano, da un sessantennio giudicato, a torto o ragione, il salvatore del mondo. O, guardandola in altro modo, colui che il mondo finisce sempre con l’inguaiarlo.

Autorevoli esperti invitano la Fed a non alzare i tassi perché, dicono, l’economia non è ancora normale, con ciò sottintendendo che l’agognata normalità, ossia una situazione di equilibrio, prima o poi ritornerà. Ma sanno benissimo che così non è.

L’ideale dell’equilibrio economico ormai si è tramutato in pratica d’equilibrismo. Politici, banchieri e uomini d’affari affrontano la quotidianità percorrendo un filo sottilissimo teso sopra le fauci di mercati affamati, ingordi e paurosi, per di più dovendo fare i conti con popolazioni vecchie, stanche e sazie, che l’illusione della politica monetaria allentata è costretta a mantenere artificialmente vispe, raggiungendo finora l’unico risultato visibile di trasformarle in scommettitori.

Ricordo uno scritto di Einaudi del ’33, dove “lo spediente monetario”, così veniva definito, viene assimilato a “giocare al casinò di Montecarlo”. Ma soprattutto mi torna in mente un passo che ho incontrato nel corso dei miei vagabondaggi libreschi dell’estate e che ho trovato la migliore analisi del nostro stato attuale di cose: “Il mantenimento di bassi saggi d’interesse durante la grande crisi era stata perfettamente conforme ai princìpi tradizionali dell’economia politica; ma, a partire da quel momento, il danaro “a buon mercato” cominciò ad essere considerato non più come uno degli strumenti da applicarsi solo in caso di necessità, ma come caratteristica essenziale della teoria “moderna” che sosteneva essere i bassi saggi d’interesse sempre necessari per impedire depressioni e compensare tendenze al
ristagno secolare”.

Questo parole sono state scritte nel 1954, dopo un ventennio di tassi tenuti bassissimi, per quanto positivi, a differenza di oggi che la teoria del ristagno secolare è tornata di moda. Con la differenza che allora vi era una demografia favorevole e le economia tendevano al pieno impiego. Oggi è il contrario.

Tutto ciò per dire che la storia si somiglia, pure se non si ripete, e ogni volta ci troviamo di fronte a policy maker imbottiti di teoria, convinti di fare la cosa giusta, il cui scopo dichiarato è quello di mantenere un equilibrio che rimane solo teorico, mentre la pratica racconta di disastri temuti, evitati, conclamati, malgestiti il cui esito finale è un sentimento crescente di precarietà. Lo stato d’animo dell’equilibrista, più o meno talentuoso che sia, che deve proseguire sempre temendo di cadere.

Sicché il sentimento che tutti noi ormai frequentiamo d’abitudine, e che la cronaca si preoccupa di confermare, è quello della crescente insicurezza, che ci riporta ai tempi di Ricardo, quando l’economia era la narrazione di un mondo spietato e destinato sostanzialmente alla miseria.

Il senso del bad equilibrium, in cui noi tutti abitiamo e che intitola la quarta stagione di questo blog, è precisamente questo.

Buon inizio di stagione.

 

 

L’ottimismo della volontà: l’unione politica di Supermario


Mentre lucida il suo bazooka, pronto a riporlo se del caso, il presidente della Bce, Mario Draghi, fa sfoggio del suo migliore ottimismo della volontà circa gli esiti della guerra alla deflazione che la banca centrale europea ha iniziato ormai da mesi.

I mercati attendono il prossimo 22 gennaio, quando il consiglio della Bce annuncerà i suoi prossimi passi operativi, come il D-day del quantitative easing in salsa europea, pur consapevoli che quanto farà la banca servirà al più a dare una scossa, ma non sarà certo risolutivo.

Ma il punto non è tanto sapere se e quanti titoli pubblici la Bce comprerà sul mercato primario, opzione peraltro controversa e invisa ai paesi nordeuropei. La questione saliente è squisitamente politica. In gioco non c’è soltanto un pacchetto di miliardi che la Bce, magari per il tramite delle banche centrali nazionali, inietterà sul mercato. Ciò di cui discute è l’assetto dell’unione monetaria, la sua precisa costituente.

A tal proposito il nostro Supermario ha le idee chiarissime e chiunque abbia letto i suoi tanti interventi negli ultimi anni lo sa bene.

Ai più distratti vale la pena segnalarne uno che Draghi ha rilasciato lo scorso 2 gennaio nell’ambito del Projcet Syndicate, dal titolo eloquente: “Stability and prosperity in Monetary Union”.

Un paio di paginette appena, ma pregne, come si dice. Già dall’inizio.

“C’è un comune malinteso sul fatto che l’euro area sia un’unione monetaria senza un’unione politica – osserva – . Ma questo riflette un profondo fraintendimento su ciò che un’unione monetaria sia. Un’unione monetaria è possibile solo in virtù di una sostanziale integrazione già acquisita fra i paesi europei, e condividere una moneta unica approfondisce questa integrazione”.

Il punto di vista, insomma, è esattamente l’opposto di quello contrabbandato in questi anni da tanta stampa. L’unione monetaria è stata possibile solo perché c’era già una sostanziale unità d’intenti sull’unione politica.

D’altronde chi frequenti la storia europea questo lo sapeva già. Guardando in casa nostra, basta ricordare un celebre saggio di Luigi Einaudi, intitolato “Per una federazione economica europea”, dove già si delineava la necessità di una moneta comune, manifestandosi con ciò la volontà di superare i vecchi stati nazionali, delegando la sovranità economica e militare a un’entità sovranazionale.  Ricordo a tal proposito il fallimento, determinato dai francesi, della Comunità europea di difesa del 1953, che avrebbe dato sostanza a questa visione assai prima dell’euro.

Il tema, quindi, non è tanto quello del più Europa, come incita la pubblicista mainstream, ma quello della presa d’atto che il più Europa c’è già. Manca solo di essere statuito.

A tal proposito Draghi ha gioco facile a ricordare che gli osservatori hanno sottostimato l’investimento politico che l’Europa ha fatto sulla moneta unica, segnale evidente dell’intento, che data ormai più di sessant’anni, di arrivare a una sostanziale unione politica,passando magari per succedanei di un bilancio fiscale unico.

Ciò non vuol dire che i giochi siano fatti. Lo stesso Draghi riconosce che “l’unione monetaria è ancora incompleta”. E all’uopo ricorda la lettera dei quattro presidenti che un paio di anni fa le principali autorità europee, compreso lui, rilasciarono all’opinione pubblica per illustrare il percorso di integrazione dell’Unione, rispetto al quale “importanti progressi sono stati fatti”.

Ma cosa significa esattamente unione incompleta? La risposta è molto pragmatica: “Significa disporre di condizioni grazie alle quali i paesi membri sono più stabili e prosperi di quanto non sarebbero se fossero fuori dall’Unione”. Risposta ovvia, ma incompleta a sua volta. La domanda è come creare queste condizioni.

“In altre unioni politiche – sottolinea Draghi – la coesione è mantenuta attraverso una forte identità comune, ma spesso anche tramite trasferimenti fiscali permanenti dalle regioni ricche a quelle più povere. Nell’euro area questi trasferimenti non sono previsti. Questo significa che abbiamo bisogno di un approccio differente per creare le condizioni che assicurino che ogni paese tragga vantaggio dall’Unione”.

Ciò ci permette di capire quale sia, nella visione di Draghi, la via europea all’Unione politica. Il primo passo è che le regole europee devono mettere ogni paese nella condizione di prosperare autonomamente: “Tutti i paesi membri devono essere in grado di sfruttare i vantaggi comparativi all’interno del mercato unico, attrarre capitali e generare posti di lavoro. E hanno bisogno di avere sufficiente flessibilità per rispondere rapidamente a shock a breve termine. Questo deriva dall’adozione di riforme strutturali che stimolino la concorrenza, riducano la burocrazia superflua, e rendano i mercati del lavoro più flessibili”.

Le riforme, dunque.

Il problema è che finora la decisione di adottare o meno tali riforme è stata “largamente una prerogativa nazionale”, mentre “in un’Unione sono un chiaro interesse comune”. Come dire: se l’Italia non fa le riforme, che sono anche interesse della Germania, l’entità sovranazionale dovrebbe disporre degli strumenti per “costringere” l’Italia a farle. Ciò significa “passare da un coordinamento a un processo decisionale comune, dalle regole alle istituzioni”.

La seconda implicazione dell’assenza di trasferimenti fiscali è che “i paesi devono investire di più in altri meccanismi per condividere il costo degli shock”. “Anche nelle economie più flessibili – sottolinea – gli aggiustamenti interni saranno sempre più lenti di quanto sarebbero se i paesi avessero la libertà di disporre del loro tasso di cambio”. Quindi? La soluzione è creare un meccanismo di condivisione del rischio “per evitare che le recessioni lascino cicatrici permanenti e rafforzino le divergenze economiche”.

La strada indicata per sviluppare meccanismi di risk-sharing è quella di approfondire l’integrazione finanziaria: “Meno condivisione pubblica del rischio vogliamo, più serve condivisione privata del rischio”. Ed ecco spiegata la logica dell’unione bancaria e degli altri profondi quanto poco osservati cambiamenti intrapresi dall’infrastruttura finanziaria europea. Condividere il rischio privato, infatti, significa responsabilizzare tutte le banche, ma anche i mercati dei capitali, per arrivare a una rapida unione finanziaria.

E ciò malgrado la variabile fiscale riveste e rivestirà sempre un’importanza vitale. Uno shock fiscale in un paese ha conseguenza chiare su tutti gli altri, quindi “è fondamentale che le politiche fiscali nazionali siano in grado di interpretare un ruolo di stabilizzazione”. E questo spiega i vari fiscal compact che affliggono le nostre contabilità pubbliche.

Ma c’è un caveat: “Per consentire alle  fiscalità nazionali di funzionare, un governo deve potersi finanziare a un costo sostenibile in periodi di stress. Un forte framework fiscale è indispensabile, ma l’esperienza della crisi suggerisce che in tempi di tensione estrema anche un paese con una posizione fiscale soddisfacente può essere soggetto a contagio”. E questo ci riporta alla riunione del 22 gennaio prossimo, quando il principio teorico dovrebbe tramutarsi in pratica, come anche ha ribadito in un’intervista all’Irish Time Benoit Couré, componente del direttorio Bce, sottolineando che perché tale politica funzioni  “deve essere grande”.

Per questo serve l’unione economica, che ristabilisce fiducia nei momenti di crisi: “Con l’impegno dei governi a attuare le riforme strutturali, l’unione economica rafforza la credibilità circa la capacità dei paesi dell’unione di crescere senza fare debiti”.

Sicché, “per completare l’unione monetaria dobbiamo approfondire ulteriormente la nostra unione politica: definire i diritti e doveri in un ordine istituzionale rinnovato”. E state pur certi che la Bce farà la sua parte, nella costruzione della nuova costituzione materiale dell’eurozona, visto che quella formale è stata bocciata (sempre dai francesi). Cominciando proprio dal suo personalissimo QE.

Ma attenzione: approfondire ulteriormente l’Unione politica. Non cominciare a farla.

Per il semplice fatto che c’è già.

(2/segue)

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