L’invenzione dell’inflazione

Mi sorprendo sempre quando osservo un banchiere riscoprire le virtù cardinali, attitudine che potrebbe farlo sospettare d’una qualche inclinazione spirituale che esondi dalla contabilità. Eppure non dovrei. Il mestiere stesso del banchiere, basandosi sulla fiducia, cos’altro è se non una celebrazione dell’effimero, travestita col solido fondamento della matematica?

Sicché ho letto tutto d’un fiato l’intervento dello scorso 24 settembre di Charles L.Evans, presidente della Fed di Chicago, non tanto perché fossi interessato all’ennesima dissertazione sulla fine delle straordinarie politiche monetarie americane, che quando arriverà sarà dolorosa e lo sanno tutti, ma esclusivamente per il titolo: “Patience is a virtue when normalizing monetary policy”.

Mi ci è voluto poco ad assimilare la pazienza di cui discorre il banchiere alla prudenza teologica, e il prosieguo della lettura mi ha confermato che non avevo torto: i nostri banchieri centrali dovranno utilizzare tutta la prudenza di cui dispongono per evitare, a exit strategy iniziata, di far sprofondare il mondo di nuovo nella depressione deflazionaria dalla quale con molta fatica sta sforzandosi di emergere.

Ma altrettanta prudenza dovranno osservare per evitare il demone uguale e contrario: l’inflazione. O almeno un’inflazione che sia la riedizione in stile XXI secolo del flagello che devastò le economie occidentali nei settanta del XX. Perché il banchiere, ed ecco che scopro un’altra delle sue virtù cardinali, adora la temperanza: vorrebbe un’inflazione temperata, diciamo del 2% l’anno o giù di lì, con ciò dovendosi dedurre che tale tasso di inflazione sia quello ottimale per garantire una crescita stabile dell’economia. E sarà sicuramente così, anche se io faccio fatica ad asseverare tale convizione, essendo del tutto ignorante di studi o semplici allocuzioni, che certifichino tale livello di inflazione come autenticamente benefico per tutti noi.

Ma non è tanto questo il punto (mi riprometto tuttavia di approfondire). Il punto è che il banchiere centrale persegue tale missione con fortezza – ed ecco un’altra virtù cardinale – degna di un autentico credente.

Talché a un certo punto mi sono fatto una di quelle domande inutili che mi faccio di solito e che finiscono col rivelarsi pregne di soddisfazioni: ma quando comincia la storia recente dell’inflazione?

Cent’anni fa, dicono gli storici, finiva a causa della guerra l’epoca d’oro della stabilità dei prezzi che era durata oltre cinquant’anni. Un paper di un paio di anni fa di Michael D. Bordo (“Under What Circumstances Can Inflation be a Solution to Excessive National Debt: Some Lessons from History”) mi ha ricordato che prima del caos monetario ed economico provocato dalla Grande Guerra, l’inflazione fu deliberatamente usata, ad esempio, dalla Banca d’Inghilterra monetizzando debito pubblico solo all’indomani della guerre napoleoniche per abbattere lo straordinario ammontare di debito pubblico cumulato nel corso della guerra, che passò dal 260% del 1819 al 127% del 1849. Ma poi fino agli albori del confltto mondiale l’inflazione smise di essere un problema. Anche perché la Gran Bretagna, dopo la guerra, adottò una politica coerente con l’ortodossia economica dell’epoca, basata su equilibrio di bilancio e difesa del cambio fissato dal gold standard.

La semplice osservazione dei fatti, pure se così affrettatamente, mi consente di arrivare a una banale conclusione. L’inflazione è sovente una conseguenza della guerra, poiché le guerre fanno salire i debiti e in qualche modo il governo deve liberarsene e può farlo solo in due modi: o alzando le tasse visibili, quindi quelle si pagano sui redditi e sui consumi, o quelle invisibili. L’inflazione è sicuramente quella più rilevante. In tal senso l’inflazione, che vede le banche centrali nel ruolo di guardiane incaricate di lasciare a questa tassa invisibile un guinzaglio non troppo lungo né troppo corto, è una specificità della modernità, così come lo sono gli enormi debiti pubblici ormai onnipresenti nei paesi avanzati.

Diversamente accadde in Francia, dove l’iperinflazione provocata dagli assegnati, la moneta cartacea messa in circolo dopo la rivoluzione, condusse Napoleone a fondare la Banca di Francia, nel 1803, adottando  il nuovo franco germinale e il bimetallismo. Ma poiché il governo francese non aveva credibilità sufficiente per far sostenere emissioni importanti di debito o emettere nuova moneta a copertura dei debiti vecchi, che intanto erano andati in default, la Francia dovette finanziare la sua guerra aumentando le tasse.

Anche in questo caso, insomma, emerge con chiarezza che l’inflazione è conseguenza di atti straordinari compiuti dai governi in momenti straordinari.

L’inflazione, in tal senso, è la controparte del capitale fittizio che viene generato in conseguenza della creazione esorbitante di mezzi di pagamento, magari per alimentare un dispendio esagerato di risorse pubbliche. Come nel caso di guerra, o, per fare un esempio a noi più vicino, della crisi finanziaria che ha costretto i governi a farsi carico di quantità di debito paragonabili a quelli di guerra.

Se l’inflazione è stata la conseguenza del superindebitamento, ieri come oggi, allora si spiega perché i governi abbiano dovuto ricorrere così massicciamente alla sua “invenzione” per liberarsi di debiti che non potevano ripagare. E infatti l’inflazione inizia a diventare un problema serio già durante la Grande Guerra e nell’immediato primo dopoguerra.

L’indice dei prezzi 100 nel 1910 svettava verso i 200 ancor prima che finisse la guerra sia nel Regno Unito, che negli Usa che in Francia. Nel frattempo il debito/Pil francese, che fino al 1914 era in calo, nel 1918 stava già ben sopra il 180% del pil, mentre quello inglese, che stava al 20% prima della guerra, veleggiava intorno al 140%.

Il problema si aggravò nel dopoguerra. In Francia l’indice 100 del 1910 arrivò a superare 395 nel 1925 e 595 nel 1930, mentre in UK, dopo il picco di quasi 290 raggiunto nel 1920, i prezzi si stabilizzarono intorno a 190, come quelli americani.

Intanto però il debito pubblico francese scendeva al 140% del pil nel 1920 per poi risalire al 160% pochi anni dopo e da lì intraprendere un percorso discedente fino a sotto l’80% del Pil raggiunto nel 1930, quando l’inflazione si era moltiplicata per sei. Non serve essere fini economisti per capire quanto possa aver contribuito l’instabilità dei prezzi al risanamento delle finanze pubbliche.

E neanche serve esserlo per osservare come l’iperinflazione della Germania di Weimar sia stata provocata da un indebitamento insostenibile, laddove si previde che le riparazioni di guerra, esorbitanti, fossero ripagate in marchi oro mentre le entrate fiscali del governo venivano pagate in marchi di carta. Poiché la Germania non riusciva a raccogliere tasse sufficienti a pagare i debiti, dovette monetizzare il deficit conducendo a un rialzo dei prezzi, anche a causa della perdita di valore della valuta, che finirà fuori controllo.

La seconda guerra mondiale lasciò una montagna di debito sulle spalle degli stati che fu erosa grazie a una combinazione di rapida crescita, inflazione e repressione finanziaria. Si arrivò così alla crisi dei settanta con gli stati che avevano i bilanci in ordine, ma con la politica valutaria sotto pressione a causa dell’instabilità del dollaro che, nel ’71, provocò la rottura del sistema di Bretton Woods.

Ma in realtà, nota Bordo, l’inflazione era già cominciata prima, già dal ’65, in conseguenza delle politiche americane delle amministrazioni Kennedy e Johnson che, ricordando quelle di Roosevelt, decisero di usare la politica fiscale e monetaria in chiave espansiva per sostenere la crescita del prodotto. Crearono capitale fittizio per finanziare la loro Great Society e la guerra del Vietnam. Ciò, in ultima analisi, aggravò fino all’epilogo del ’71, la crisi del dollaro. Che peraltro si ripete con preoccupante regolarità.

Lo sganciamento del dollaro dall’oro, e la sua successiva svalutazione, provocò un rialzo consistente dei prezzi del petrolio e, soprattutto, fece andare definitivamente fuori controllo la produzione di capitale fittizio.

Da quel momento l’inflazione è diventata una questione di costante attualità. Un pensiero fisso: le banche centrale piàù importanti fisseranno un target inflazionistico. Gli istituti di statistica useranno i loro astrusi algoritmi per monitorarla. I cittadini comuni noteranno la costante sfasatura fra il rialzo dei prezzi ufficiale e quello che racconta il loro portafoglio. Ma l’inflazione è diventata ancor importante di più oggi, quando gli spazi fiscali per gli aggiustamenti dei bilanci pubblici tramite le correzioni degli squilibri fiscali si sono notevolmente ridotti.

Perciò è diventata attuale anche la strategia seguita dalle banche centrali che, oggi come ieri, nei principali paesi del mondo hanno iniziato ormai da tempo ad accumulare titoli del Tesoro per finanziare la spesa e tenere bassi i tassi. Con la conseguenza che adesso si trovano nella condizioni in cui si trovò la Francia nel primo dopoguerra, con il Tesoro che avrebbe dovuto ripagare i suoi debiti a breve accesi verso la banca centrale, il che avrebbe significato alzare le tasse o aumentare ulteriormente debito e deficit. Nel dubbio il debito e l’inflazione andarono fuori controllo.

Le exit strategy, insomma, sono un fenomeno antico. E la storia ci dimostra che, alla fine, l’inflazione ha avuto sempre un ruolo negli aggiustamenti. In tal senso, è la migliore invenzione possibile dei governi, che, non a caso, l’hanno trasformata in un target delle loro banche centrali.

Il perché è presto detto: oltre a supportare la sostenibilità dei debiti, un tasso di inflazione al 2% consente, capitalizzandosi in un trentennio, di inflazionare per oltre l’80% il valore nominale iniziale del debito. Se a questa inflazione costante si aggiunge anche un po’ di crescita, gli stati potrebbero trovarsi nella situazione ideale di vedere il valore reale dei loro debiti nominali pressoché azzerato nell’arco di poco più di una generazione, sempre che abbiano la lungimiranza di non farne di ulteriori.

E qui casca l’asino. Poiché è altamente improbabile che gli stati smettano di far debiti, dovremmo abituarci, come d’altronde ormai siamo, a vivere in un mondo dove l’inflazione è una realtà costante con la quale dobbiamo rapportarci. Un’inflazione a zero, come ai tempi del gold standard classico, non ce la possiamo più permettere.

Costa troppo.

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  1. minsky

    piccola precisazione

    il gold standard non saltò per colpa dell’america ma per le continue richieste dei paesi europei di oro fisico all’america. dovendo l’america difendere il suo oro e non volendo l’europa cambiare idea il mondo andò nel panico cioè ci fu un bank run sul dollaro che portò alla fine del gold standard. questo processo dura dal 67 al 71. tutti gli accordi nel tenerlo in piedi di quegli anni furono rifiutati dagli europei e nixon rinviò diverse volte per via anche delle sue elezioni. se gli europei avessero accettato che il sistema funziona proprio perché fittizio (come lo stesso Sgroi segnala nel suo articolo) non ci sarebbero stati gli anni ’70. la stagflazione di quegli anni fu provocata infatti dalla successiva fluttuazione erratica delle monete che mandò in tilt tutti i mercati primo fra tutto quello del petrolio che era il più importante allora. L’errore fu talmente grave (gli anni ’70 appunto) che l’europa si rese conto che le monete scollegate dal dollaro andavano rimesse sotto controllo come avvenne con lo SME e poi con l’euro. Ma neanche questo è bastato perché al contempo è nato un sistema parallelo finanziario che non era previsto. Questo dimostra che oggi come allora a causare quei problemi è la pressione sottostante che l’america accetta (espansione e crolli) e l’europa rifiuta (austerità deflazione).

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    • Maurizio Sgroi

      Salve. E’ vero che le richieste di oro iniziate gia’ dai ’60 in particolare dai francesi affrettarono la fine di bretton woods. Ma il sistema era insostenebile proprio perche’ si basava su una valuta nazionale a fini internazionali gestita in maniera allegra con scarsa attenzione all’equilibrio fiscale a frontr di uno squilibrio di bilancia di pagamenti intrinseco al sistema stesso. L’errore fu dell’occidente, e l’america e’ tuttora il suo azionista di maggioranza. E non abbiamo ancora smesso di sbagliare. Grazie per il commento

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      • minsky

        Fittizio non vuol dire insostenibile. La pressione si può sedare in molti modi senza far saltare nulla. Abbiamo perso gli anni ’70 per un capriccio dell’europa? E adesso per il capriccio dell’austerità cosa faranno? Altri 10 anni di disastro? Per poi fra 10 anni dire che hanno sbagliato e si scuseranno in televisione?

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